L'omertà
e il ricatto



di GIUSEPPE D'AVANZO

CONVIENE conservare la testa fredda, ché troppi sembrano sapere quel che non sanno e molti fingono di non sapere quel che sanno benissimo. Troppe variazioni falsarie deformano l'affare e appare utile ripercorrerne le vicende afferrando qualche fatto senza farsi accecare dalle parole. S'incontreranno delle sorprese.

La grave crisi istituzionale, aperta con l'arresto di sei agenti della squadra mobile e di due funzionari della Questura di Napoli, non nasce in piazza Municipio il 17 marzo 2001 quando forze dell'ordine e manifestanti no global si scontrano duramente per ore. La "battaglia" lascia sul campo oltre 200 feriti e una scia di polemiche e accuse reciproche tra dimostranti e polizia. Era proprio necessario quell'azione d'ordine pubblico che a tratti assume i caratteri di un impazzito pestaggio che travolge centinaia di innocui partecipanti? E' una buona domanda. Bisognerà darvi una risposta decente, prima o poi. Oggi, è meglio lasciarla in un canto perché non è da qui, da quel che accadde a piazza Municipio, che si muove l'inchiesta giudiziaria.

L'indagine nasce nei "pronto soccorso" degli ospedali napoletani dove appaiono, poche ore dopo la "battaglia", i poliziotti. Bloccano chiunque è lì in attesa, ferito o in compagnia di un ferito e abbia un aspetto, diciamo, "no global". Tutti "i fermati", chiamiamoli così, sono trasferiti in una caserma dove sono sottoposti a insulti, torture, sevizie che nessuna procedura di arresto, nel mondo occidentale, prevede. Qualche esempio. Dopo averlo denudato, i poliziotti fanno inginocchiare il ragazzo di turno in quella che chiamano "la stanza della tortura". In realtà, è una toilette. Il ragazzo ora è nudo e in ginocchio davanti a una latrina lercia di urina, vomito e sangue. Viene ancora insultato. Ancora colpito alla testa con il manganello.

Ottantadue testimonianze convergenti definiscono quel che è accaduto nella caserma Raniero di Napoli nel pomeriggio di quel 17 marzo e di cui non resta nessuna traccia nei verbali e nei rapporti della polizia (perché?). Gli ottantadue non sono tutti "no global". Tra di loro ci sono ragazzi e uomini che nemmeno sapevano della manifestazione. Era al pronto soccorso, quello perché era caduto dal motorino, quell'altro - un professionista - perché aveva accompagnato un parente. Quel giorno evidentemente c'è chi ha deciso che la responsabilità non fa differenza. Chi lo ha deciso? Accertati ragionevolmente i fatti, bisogna ora risalire ai responsabili diretti del pestaggio e soprattutto occorre accertare se costoro - i picchiatori - hanno agito per ordine di qualcuno o con la sua complicità o contro le disposizioni.

E' un fatto che il questore di Napoli, Nicola Izzo, non collabora con la magistratura. Qualche esempio. Viene chiesto: chi ha dato disposizione di intervenire nel pronto soccorso? Risposta: "La decisione è stata assunta ai vari livelli di responsabilità". Parole burocratiche e ventose che non dicono e spiegano nulla. Vengono chieste le foto degli agenti di polizia intervenuti. Sono recapitate in procura immagini irriconoscibili. Ecco la ragione dei tredici mesi di indagine: la verità è che la procura ci va fin troppo con i piedi di piombo. Non vuole strappi. Usa prudenza e cautela. Vuole accertare i fatti e le responsabilità senza menar scandalo. Si giudica addirittura "naturale" la reticenza della Questura ma, se la legge è davvero uguale per tutti, più di tanto evidentemente non è possibile tollerarla. Si chiede l'arresto degli otto poliziotti riconosciuti con sufficiente affidabilità. Era necessario arrestarli? E' la domanda più spinosa e più controversa dell'affare. Ognuno sembra avere la sua risposta bell'e pronta. Qui conviene riformularla nel contesto vivo dell'inchiesta. Era possibile non farlo, di fronte al muro costruito dalla Questura a protezione dei alcuni agenti? Non era quel muro già un inquinamento sostanziale dell'inchiesta? Non era un corposo impedimento all'accertamento della verità? Bisognava rispettare quella manovra che chiedeva impunità o, in nome della legge, cercare di rimuoverla?

Sarà ora il Tribunale del Riesame, come è giusto che sia, a valutare se sono fondate le ragioni della "custodia cautelare". Troppi improvvidi, a destra come a sinistra (è il caso di Rutelli e di Bianco), hanno voluto scrivere la loro sentenza anche se qualche fatto non sta ancora in piedi e chiede qualche chiarimento (soprattutto dal ministro dell'Interno Scajola). Perché il Viminale non è stato mai informato dal questore di Napoli dell'inchiesta in corso? Perché il questore, irritualmente, informato degli arresti con qualche giorno d'anticipo dal procuratore Agostino Cordova, nemmeno in questo caso ritiene di informare il ministero dell'Interno? Perché irritualmente il questore prova ad incontrare i pubblici ministeri per chiedere che gli arresti siano posticipati con un argomento - "C'è il Primo Maggio" - speso poi uguale e ottusamente dal Viminale (come se il Primo Maggio fosse abitualmente occasione di guerriglia urbana e non di festa)? E infine conta qualcosa, in questo garbuglio, che il questore Nicola Izzo si definisca "uomo di destra"? Quanto conta l'autodefinizione nella scelta di Alleanza Nazionale di deformare in chiave politica il caso soffiando sulla protesta dei poliziotti, aggredendo con nome e cognome alcuni pubblici ministeri? Quanto conta il seguito "sindacale" del questore di Napoli nella decisione del capo della polizia di difenderlo senza spendere una sola parola di rispetto istituzionale per il lavoro in fieri della magistratura?

Non è comunque lo scontro tra polizia e magistratura il vero strappo istituzionale dell'affare. Accade dovunque. Un gruppo di poliziotti viola le regole. La magistratura accerta le responsabilità. I poliziotti, questa volta tutti i poliziotti, alzano la voce esasperati da una vita disgraziata di pericoli personali, di scarsa retribuzione, di irriconoscibilità e irriconoscenza sociale. La protesta nasce e muore. Il rispetto delle regole alla fine vince e chi ha sbagliato paga.

Più o meno dieci anni fa è accaduto negli Stati Uniti. Rodney King fu colpito per 56 volte, dinanzi alla videocamera di un amatore, dai manganelli di quattro poliziotti "volontariamente e intenzionalmente, con una forza non ragionevole". Gli agenti furono assolti e poi ancora processati e condannati. Quando furono assolti il presidente George Bush si disse "scosso" dall'assoluzione e aggiunse: "Faccio fatica a capire come il verdetto e il video del pestaggio possono stare insieme". Bush tentava con quelle parole sagge di tenere insieme la rispettabilità della polizia (chiedendo la punizione dei colpevoli), l'equilibrio della magistratura (che invitava a non creare aree di impunità), l'attesa di un'opinione pubblica che vuole avere fiducia nella polizia e nel controllo della magistratura. Bush fece quel che qualunque responsabile uomo di Stato dovrebbe fare. In Italia nessuno ha giocato questa parte in commedia.

E' qui l'anomalia del nostro Paese. Non sorprende un Gasparri (è inutile per lui bere l'acqua di Fiuggi che non provoca mutazione genetiche). Sorprende Gianfranco Fini che appare decenni davanti al partito che si porta sulle spalle. Il vicepresidente del Consiglio si è tuffato in questo "mistero napoletano" con passione di parte, senza alcun equilibrio e buon senso istituzionale: ci si augura mal consigliato. Ha scelto di stare dalla parte di un questore e di pochi poliziotti. Ha voluto censurare il lavoro dei pubblici ministeri decidendo non di invocare il reciproco rispetto tra due apparati dello Stato, ma creando l'illusione ad uno (l'apparato poliziesco) di poter fare a meno della sorveglianza dell'altro (la magistratura). E' questo il vero e il solo strappo istituzionale che può avere pericolosi effetti nei giorni a venire. Soprattutto in un'opinione pubblica che si trova stretta nel ricatto - tutto irresponsabilmente politico - di dover decidere a chi affidare il destino della propria sicurezza: alla polizia o alla magistratura? Come se l'una fosse contro l'altra. Come se l'una non avesse bisogno dell'altra.

(28 aprile 2002)