COMMENTO
Missione
impossibile
nell'ora dei falchi
di PAOLO
GARIMBERTI MESSO alle strette dall'Europa, dal Papa e dalla
critiche sempre più aspre della stampa
"liberal" americana per la sua inerzia che
sfiorava la complicità, George Bush ha finalmente
battuto un colpo ammonendo Sharon che "quel che è
troppo è troppo" e avvertendo sia il premier
israeliano sia Yasser Arafat che attende "una
migliore leadership e migliori risultati". Ma un
colpo ancora più fragoroso lo ha battuto ieri l'Unione
europea quando i suoi inviati Solana e Piqué si sono
rifiutati di incontrare Sharon, che aveva negato loro il
permesso di vedere Arafat, e hanno poi lasciato Israele
per protesta.
Gesti tardivi entrambi, quello americano e quello
europeo, che non riusciranno probabilmente a incidere sul
quadro tragico del terreno: né a fermare l'orrido
terrorismo palestinese, né a bloccare la brutale
occupazione israeliana dei territori. La risposta del
governo di Sharon è stata sprezzantemente eloquente: non
abbiamo ancora finito. E la mancanza di risposta dei
mandanti dei kamikaze - oltre che delle leadership arabe
cui si è appellato Bush - è stata ancora più
eloquente, specie se rapportata alle trionfali
dichiarazioni di quattro leader di Hamas sull'efficacia
delle bombe umane, pubblicate proprio ieri mattina dal
"New York Times".
Ma, almeno, la diplomazia, quella vera dell'azione e non
soltanto delle parole, si è rimessa in moto dopo aver
delegato per troppo tempo la protesta e l'indignazione a
un movimento pacifista oltretutto troppo a senso unico
per essere credibile.
L'Europa era stata accusata in questi ultimi giorni - con
dosi di ingenuità che sfiorano la malafede specie da
parte di chi ben ne conosce la debolezza politica, tanto
più macroscopica se confrontata con la forza economica -
di mancanza di coraggio e anche di fantasia di fronte
alla tragedia israelo-palestinese. Più che altro, si
trattava di un eccesso di realismo essendo storicamente
provato che Israele non ha mai voluto riconoscere alcun
ruolo all'Europa, avendola sempre accusata di pregiudizi
favorevoli agli arabi e, soprattutto, non avendo gli
europei, a differenza degli americani, alcuna leva vera
di pressione sui governi di Gerusalemme: né i soldi, né
le armi.
Ma, due giorni fa, nel vertice straordinario in
Lussemburgo, l'Europa si è ribellata non soltanto
all'acquiescenza di Bush verso Sharon, ma soprattutto a
se stessa, alla sua passività. Il motore della
ribellione è stato Romano Prodi, quando, con un
linguaggio che il "Financial Times" ha definito
"insolitamente diretto", ha dichiarato fallita
la mediazione americana. Il risultato è stato l'invio
immediato di Solana e di Piqué: un missione disperata,
ma altamente simbolica soprattutto nel suo significato di
sfida agli Stati Uniti. Ma non soltanto simbolico è
stato il rifiuto di vedere Sharon e di lasciare Israele:
anzi, è stato un gesto politicamente fondativo.
Nel senso che per la prima volta abbiamo visto l'embrione
di quella politica estera comune, che finora Javier
Solana, "il signor Pesc", ha incarnato
fisicamente senza avere la forza propositiva derivante da
un mandato univoco dei Quindici.
E' probabile che la sfida europea abbia cancellato le
ultime reticenze di Bush. Anche perché Sharon ne ha
sottolineato l'importanza equiparando per la prima volta
l'America all'Europa: ha negato anche al pallido inviato
americano Anthony Zinni il permesso di incontrare Arafat,
come aveva fatto qualche ora prima per Solana e Piqué. E
quando i due messi europei hanno pronunciato il loro gran
rifiuto, ecco che Sharon ha cambiato idea, autorizzando
Zinni a vedere il leader palestinese. In qualche modo, la
Ue ha avuto il merito di far sentire al premier
israeliano il vuoto che si sta creando attorno a lui.
Fosse tutto qui, si tratterebbe di schermaglie
diplomatiche che lasciano il tempo che trovano. Ma ieri
Bush ha annunciato l'invio in Israele di Colin Powell, il
segretario di Stato che - come era già accaduto nelle
prime fasi della guerra al terrorismo dopo l'11 settembre
- finora era parso emarginato rispetto alla linea
decisamente filo-israeliana della Casa Bianca. Martedì
Powell aveva enunciato la sua dottrina, che suonava
decisamente agli antipodi rispetto a quella
dell'"inner circle" presidenziale, i
consiglieri più intimi di Bush, fortemente influenzati
dalla lobby ebraica americana.
L'offensiva militare di Israele non funzionerà, aveva
detto Powell: "I carri armati non fermeranno gli
uomini bomba e, alla fine della fiera, Israele dovrà
lasciare i territori occupati e tornerà ad avere bisogno
di un processo politico". E aveva aggiunto: "A
quel punto Israele avrà bisogno di Arafat, anche se
fosse in esilio, perché è il capo dell'Autorità
palestinese, un'organizzazione che noi abbiamo aiutato a
creare. E' sentito da tutti come la guida del popolo
palestinese. E non è utile a nessuno, neppure a noi,
definirlo un terrorista".
Era, quella di Powell, la posizione dei singoli governi
europei e, collettivamente, della Ue. Ora Bush sembra
aver sposato questa linea, dando mandato a Powell di
negoziare con l'autorità del Segretario di Stato, come
aveva fatto, quasi trent'anni fa, Nixon con Henry
Kissinger. Difatti l'Europa, per bocca di Solana, ieri
sera ha salutato la missione di Powell come un suo
successo, un effetto indotto della denuncia di Prodi del
fallimento della mediazione americana e del gesto
spettacolare di Solana e di Piqué.
E' impossibile prevedere se Powell riuscirà là dove ha
fallito il "pensionato" Zinni. Anche perché il
segretario di Stato interviene in una situazione dove la
cancrena è talmente avanzata che non bastano le
medicine, occorre la chirurgia. Come ha scritto uno dei
più lucidi osservatori della scena mediorientale, Thomas
Friedman, finora né Bush né gli europei hanno voluto
confrontarsi con il dilemma cruciale di questo conflitto:
"Mentre Israele deve ritirarsi dalla Cisgiordania e
da Gaza, i palestinesi non sono in grado di gestire da
soli i territori in modo da impedire che diventino la
base di future operazioni contro Israele". La
proposta che Friedman prende in prestito da un altro
esperto mediorientale, Stephen Cohen, è suggestiva, ma
appare al momento poco praticabile: "L'unica
soluzione è un mandato dell'Onu che autorizzi truppe
americane e della Nato a garantire la nascita di uno
Stato palestinese, dopo un graduale ritiro israeliano,
blindandone i confini".
Questo sarebbe davvero un intervento chirurgico. Ma molto
difficilmente Israele accetterà di sottoporvisi. E,
comunque, prima occorre un accordo politico, addirittura
una nuova Camp David. Che, allo stato attuale, appare un
miraggio. La missione di Powell è ben lontana da far
intravvedere la luce in fondo al tunnel. Ma è già un
passo avanti che qualcuno con il suo peso e la sua
abilità diplomatica stia per entrare nel tunnel.
(5 aprile 2002)
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