IL CAIRO -
All'Università islamica di Al Azhar gli studenti
fanno la fila per iscriversi all'elenco dei
"Martiri fino alla vittoria". Pongono
la propria firma sotto un giuramento di poche
righe che recita: "Nel nome di Dio clemente
e misericordioso, a tutti coloro che aspirano a
diventare martiri sulla via di Dio, a tutti
coloro che ambiscono a incontrare il Profeta di
Allah in Paradiso, a coloro che vogliono
riscattare la gloria della Nazione islamica, a
coloro che vogliono far trionfare la parola di
Allah, offriamo l'elenco dei martiri". In
poche ore sono state raccolte 500 firme.
Nell'altra Università del Cairo migliaia di
studenti hanno chiesto alle autorità di
promuovere l'arruolamento e l'addestramento alle
armi di volontari per la Jihad, la guerra santa,
in Palestina. Ma il presidente Mubarak non ci
pensa neppure. Quando il suo predecessore Sadat
prese negli anni Ottanta l'iniziativa di aderire
alla Jihad in Afghanistan, il risultato fu che i mujahiddin,
i combattenti islamici, una volta sconfitti i
sovietici, si accanirono contro il regime
egiziano. Contemporaneamente le ambasciate
palestinesi in Arabia Saudita, Yemen e Marocco
sono inondate di richieste di giovani, uomini e
donne, che chiedono sia loro offerta
l'opportunità di adempiere al "sacro"
precetto della Jihad andando a combattere in
Palestina e di aspirare al martirio nel nome di
Allah.
Si consolida la percezione della Palestina come
"Terra di Jihad e di Shahada", il
martirio, così come lo è stato l'Afghanistan
durante l'occupazione sovietica. L'hanno
sostenuto apertamente 60 ulema, giureconsulti
islamici, di diversi paesi arabi in una fatwa,
una sentenza religiosa in cui si proclama che
"la Jihad contro Israele è un dovere
islamico". Probabilmente si tratta di uno
sviluppo non meno preoccupante, sul piano delle
conseguenze per la sicurezza di Israele e per la
stabilità del Medio Oriente, dell'esplosione di
una sorta di "martiriomania" tra i
palestinesi.
Quando, all'indomani dello storico accordo-quadro
di pace tra Arafat e Rabin nel 1993, Israele
cominciò ad essere insanguinata dagli attentati
suicidi compiuti dai terroristi islamici di Hamas
e della Jihad islamica, la "disponibilità
al martirio era rara e preziosa", ha ammesso
Abdallah al Shami, leader politico della Jihad
islamica a Gaza. I futuri kamikaze venivano
selezionati accuratamente e nella massima
segretezza, scelti in un ambiente sociale misero
e privilegiando soggetti psicologicamente fragili
e manipolabili. Oggi invece c'è la fila di
volontari che rivendicano pubblicamente
l'aspirazione al martirio. Il loro numero è
talmente ingente da far sostenere a Khaled
Mashaal, dirigente politico di Hamas:
"Abbiamo i mezzi per resistere e offrire
martiri per altri 20 anni".
L'identikit dei nuovi aspiranti martiri è
radicalmente cambiato. L'età si è estesa dalla
fascia tra i 17 e i 22 anni ai trentenni e a
qualche quarantenne. Il livello di istruzione è
schizzato da quello elementare e medio a una
maggioranza di laureati (il 48%) e di diplomati
(il 29%). Lo status civile non registra più solo
i single ma anche diversi coniugati tra cui
qualcuno con prole. Il tenore economico non è
più limitato ai nullatenenti ma abbraccia i
benestanti. Tuttavia due sono le maggiori novità
che hanno trasformato radicalmente il fenomeno
del terrorismo suicida: il coinvolgimento dei
palestinesi laici e soprattutto la partecipazione
delle donne.
Il battesimo di sangue del terrorismo suicida
laico è avvenuto lo scorso primo dicembre quando
nel cuore di Gerusalemme due kamikaze si sono
fatti esplodere uccidendo 11 israeliani. Uno dei
due, il venticinquenne Osama Baher, agente della
polizia dell'Autorità nazionale palestinese, è
stato il primo "martire laico"
affiliato alle Brigate dei martiri di Al Aqsa, il
braccio terroristico di Al Fatah, la maggiore
organizzazione palestinese presieduta dallo
stesso Arafat. Il segnale era chiaro. In un
contesto in cui oltre i due terzi dei morti
israeliani sono vittime degli attentati suicidi,
lasciare il campo libero alle organizzazioni
islamiche avrebbe significato perdere la guida
della nuova Intifada. Arafat ha così fatto
propria la stessa arma impiegata dagli islamici
per sabotare la pace con Israele che lui sostiene
di volere ancora, al fine di assicurare la
continuità del suo potere sempre più scalfito
dalle dissidenze interne e dal logoramento delle
forze palestinesi operato dall'esercito
israeliano.
Il battesimo di sangue della prima donna-kamikaze
palestinese in Israele si è avuto lo scorso 27
gennaio con l'estremo sacrificio di Wafa Idriss,
28 anni, laureata, che ha ucciso un anziano
israeliano a Gerusalemme. È probabilmente questa
la svolta più significativa nel conseguimento di
quello che viene definito un "equilibrio del
terrore" tra i kamikaze palestinesi e la
potenza militare di Israele. Il fatto che in ogni
palestinese, uomo o donna, ragazzo o adulto,
single o sposato, ignorante o laureato, possa
nascondersi una "bomba umana" ha
letteralmente gettato nel panico la società
israeliana al punto da percepire come minacciata
la propria esistenza.
La consapevolezza del ruolo determinante degli
attentati suicidi è tale che oggi nessun leader
arabo si azzarda a condannarli pubblicamente.
All'opposto sta uscendo allo scoperto un
sorprendente esercito di apologeti dei kamikaze
islamici che invocano ogni sorta di
giustificazione religiosa, etica e politica.
Fahmi Howeidi, il più prestigioso islamologo
egiziano, spiega: "Certamente l'Islam vieta
il suicidio perché è un atto di sfiducia nei
confronti della misericordia di Dio e perché è
motivato da un fatto privato, come la malattia,
una delusione amorosa, la disoccupazione. Ma il
martirio è un'altra cosa. Innanzitutto non è un
fatto privato ma pubblico, si difende un sogno
collettivo, la speranza di un popolo, si vuole
vendicare i martiri della nazione".
In questi giorni ovunque nei paesi di Allah la
parola shahid, martire, riecheggia con
insolita frequenza e con una connotazione
unanimemente positiva. Arafat, recluso, umiliato
e sofferente a Ramallah, è stato ribattezzato il
"martire vivente". E' stato lui stesso
a ispirare quest'immagine mitizzante declamando
con la sua consueta retorica, tra la generale
approvazione e ammirazione delle masse islamiche,
una sorta di testamento spirituale: "Mi
vogliono prigioniero, mi vogliono fuggiasco, mi
vogliono morto, ma io dico loro che sarò
martire, martire, martire".
(12 aprile 2002)
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