Trattativa
a piccoli passi
di
VITTORIO ZUCCONI LE
lancette pietrificate dell'orologio della pace hanno
fatto ieri un piccolo scatto in Palestina. Niente più
che un impercettibile decimo di secondo, ma si sono mosse
sul quadrante di pietra, spinte dalle sole mani che
potevano sbloccarle, le mani degli Stati Uniti d'America.
La scommessa di Powell, voluta da Bush, non ha certamente
prodotto la pace né fatto ripartire di slancio un
negoziato che oggi, sulle rovine di una comunità
palestinese sbriciolata e sull'angoscia degli Israeliani,
non potrebbe, neppure materialmente, ricominciare. Ma per
la prima volta da quando Sharon e Arafat sono tornati in
guerra, le parole hanno cambiato segno, le immagini sui
nostri televisori hanno cambiato colore. La parola magica
"negoziato" ha sostituito, almeno per un'ora,
il dialogo del sangue nei notiziari.
Questo è, come Washington aveva detto subito, il massimo
dei massimi che gli Usa, l'Europa, gli israeliani
inorriditi, i palestinesi potessero sperare quando Powell
ha cominciato il suo viaggio d'azzardo in Medio Oriente
partendo dall'inaudita e asciutta richiesta di
"ritiro immediato". Spazzata via l'illusione
del mediatore distaccato, l'America è ritornata quello
che fu con Kissinger e con Carter e con Clinton, non il
mediatore ma il "monitore" di due popoli che
non sanno trovare da soli la forza di farsi la pace e
devono rifugiarsi, recalcitranti e insanguinati, sotto
l'ombrello americano, a Washington, dove tutto quel poco
di positivo che sia avvenuto in Medio Oriente, è sempre
avvenuto. Avevamo osservato, alla partenza di Powell, che
l'intervento di Bush aveva cambiato la qualità della
crisi, perché aveva investito l'autorità della
monopotenza globale ed era lecito, per la prima volta da
15 mesi, sussurrare la parola "speranza".
Il salto di qualità politico era stato così grande che
era stato capito subito sia da Sharon, che aveva spedito
d'urgenza a Washington il fanatico Bibi Netanyahu per
fare opera di propaganda, sia dagli estremisti
palestinesi che avevano fatto esplodere tra i piedi di
Powell la bomba di venerdì sera, per deragliare la sua
missione. I fanatici, opposti e gemelli, che in Medio
Oriente cercano la "vittoria finale", dunque la
sottomissione dei palestinesi superstiti o la distruzione
dello stato ebraico, temono molto il nuovo
"involvement", il coinvolgimento di Washington,
perché nessuno di loro ha la forza per resistere agli
Stati Uniti.
Non ha potuto, infatti, resistere Arafat che, con i
cannoni dei Merkava alle tempie e Powell alla porta, ha
dovuto concedere quello che l'America gli chiedeva,
un'altra condanna del terrorismo, per ora un foglio di
carta. Non ha potuto resistere Sharon, che ha
freneticamente accelerato i tempi dell'invasione per
incassare quanto più possibile, prima dell'arrivo del
segretario di Stato. Ma poi ha dovuto lasciargli
incontrare quell'odiato personaggio che ancora una volta
sfugge tra le dita di un governo israeliano che lo tiene
in pugno ma che non può eliminare fisicamente, perché
l'America glielo impedisce. E deve vederlo resuscitare
per l'ennesima volta.
Hanno dunque perduto tutti e due. Sharon, che questa
volta non è riuscito a far accettare al mondo la
"soluzione militare", la formula di Sabra e
Chatila, a un dramma che non avrà mai una soluzione
militare, e ha perduto Arafat, che si trova a capo di un
"entità palestinese" che non esiste più. Il
generale che aveva promesso sicurezza ai suoi elettori ha
dato loro meno sicurezza di quanta gli Israeliani abbiano
conosciuto dalla guerra del 1947. Il capo guerrigliero
che aveva rifiutato sdegnoso il 97% delle sue richieste
accettate da Barak, si ritrova ora con lo 0% di tutto.
Proprio nella loro sconfitta, Powell ha trovato la molla
necessaria per rimettere in movimento di un tic le
lancette congelate. Ha detto all'uno e all'altro quello
sul terreno sembra inammissibile. A Sharon ha detto che
lo Stato di Israele stava bruciando la ammirazione e la
solidarietà internazionali riattizzando addirittura
l'antisemitismo, come confermano le dimostrazioni pro
Israele, delle quali non si sentirebbe alcun bisogno se
non si avvertisse la difficoltà morale di questo governo
e il pretesto che ciò offre ai razzisti. E ha detto ad
Arafat che sarebbe stato lasciato in balìa di Sharon.
"Noi siamo la tua 'last hope', l'ultima speranza.
Tra te e quei carri armati ci siamo soltanto noi
americani".
Ma questa ciambella di salvataggio per l'inaffondabile
leader di Fatah, era la mossa più facile, perché
Arafat, come tutti i leader del mondo arabo, come Saddam
Hussein, considera la sopravvivenza una vittoria. Il
difficile verrà con Sharon, con un uomo che è
prigioniero di una promessa marziale che non può
mantenere. A Washington si era e si è convinti che
Sharon, pur recalcitrando, come è giusto che il leader
di una nazione democratica faccia, non sarebbe potuto
restare indifferente alle pressioni per la partecipazione
a un "tavolo" internazionale. Powell, soldato
veterano della tragedia vietnamita, gli ha detto che ci
sono guerre che neppure una potenza può vincere e viene
il giorno nel quale si deve "proclamare vittoria e
andarsene". Ma i vietcong non fecero mai saltare
pizzerie a New York, gli è stato risposto. E questo, il
prossimo omicidio in Israele, compiuto da chiunque non
voglia la pace, sarà il test atroce per sapere se la
lancette continueranno a muoversi, non "senza",
ma "nonostante", il sangue dei giusti sparso in
Palestina.
(15 aprile 2002)
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