Un'indifesa armata di pezzenti contro la guerra e il terrore
di lanfranco caminiti lanfranco@apolis.com



Dunque gli eroi compagni, i quai non lunge
erano sparsi, a ragunarsi invita;
lettere a lettre, e messi a messi aggiunge,
sempre al consiglio è la preghiera unita;
ciò ch'alma generosa alletta e punge,
ciò che può risvegliare virtù sopita,
tutto par che ritrovi, e in efficace
modo l'adorna sì che sforza e piace.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata

Ho messo in exergo versi tratti dalla Dedica del poema del Tasso, in cui
si narra la fase conclusiva della prima crociata (1097-99): dagli ultimi
mesi d'assedio a Gerusalemme alla conquista della città da parte
dell'esercito crociato comandato da Goffredo di Buglione, sino alla
liberazione del Santo Sepolcro. La guerra santa, appunto. Nessuna
suggestione, proprio nessuna, riguardo quello che sta succedendo in
Palestina, in Israele. Alcune parole di quei "molli versi" sono belle
però.
Nei giorni in cui delegazioni italiane sono andate lì - uomini e donne
di associazioni sociali, giornalisti, disobbedienti, parlamentari, gente
qualunque - ho avuto tanta pena per i miei amici che stavano in quella
carovana, per tutti gli altri. Pena fisica, pena spirituale: temevo per
le loro vite e temevo per le ferite nei loro occhi, per i segni che
lasceranno le immagini che non dimenticheranno facilmente, e che forse è
bene - con il dolore che questo comporta - non dimentichino e continuino
a dirle, a narrarle. Ho avuto tanta pena per i miei "eroi compagni",
gente qualunque che stava lì, a "risvegliare ogni virtù sopita". Leggo
testimonianze, racconti, in cui traspare il senso del proprio essere
piccoli piccoli, naufraghi in una tempesta dove si sono persi la ragione
e il cuore, vivendo questo senza rassegnazione, senza rabbia, ma come un
valore da patire insieme.
Io credo che noi tutti si debba tanto a loro, "alma generosa", a quelli
che sono andati prima di loro, a quelli che non sono neanche potuti
entrare, a quelli che andranno in seguito: mill'anni dopo, una armata
brancaleone di pezzenti e squinternati, di uomini e donne senz'armi, di
poveri, di pauperes, di persone indifese, va nel cuore di un conflitto
devastante per "risvegliare ogni virtù sopita". Vanno innocenti, in un
luogo e in un tempo dove tutti sono innocenti e nessuno lo è più. Vanno
innocenti anche per noi, perché noi, qui, di sicuro non lo siamo:
nessuno è innocente quando non espone se stesso.
C'è chi ha deriso e schernito quella carovana, quell'armata di pezzenti
indifesi, in nome della ragione cinica, della politica reale, della
"forza".
C'è chi ha battuto le mani al loro "gesto", come fossero guerrieri di
ritorno da una conquista vittoriosa, come meritassero una medaglia e una
commenda.
C'è chi ha criticato il loro unilateralismo, tacciandoli di alimentare
la guerra: un imbecille li ha persino definiti "pacifondai",
compiacendosi del proprio calembour.
C'è chi.
E' vero: questi uomini e donne non sono "pacifisti", almeno non nel
senso che di fronte al divampare di una guerra se ne ritraggono o
testimoniano dell'assurdità, della follia del momento. Questi uomini e
donne non sono andati lì solo a soccorrere, a curare, a portare medicine
e cibo e vestiario. Questi uomini e donne sono stati lì per modificare
le cose, per intervenire, per poter fare. Per chiamarci tutti - illustri
sconosciuti e potenti - a fare. Sono andati lì perché il loro grido, il
loro "chiamarci" arrivi più forte.
Tra le cose che questo movimento ha imparato o sa da sempre c'è che un
conflitto non distribuisce mai vincitori e vinti da una parte e
dall'altra, perché nel sostenere le ragioni del conflitto
l'avvelenamento dello scontro - il ricorso a parole e gesti "fuori di
sé" - contagia entrambe le parti e si sedimenta. Quel che rimane è quasi
sempre peggio di quel che era, quel che rimane è "l'avvelenamento"
dentro di sé. E questa sapienza, invece di condurre a una teoria
perpetua della mediazione e della pacificazione, spinge a modificare i
soggetti in campo, a modificare se stessi nel prendere parte ai
conflitti, nell'intervenire.
E' vero: la carovana verso Israele e Palestina non era equidistante,
perché non si può mai essere equidistante in un conflitto, perché è la
logica semplificatoria della guerra - e ne è forse la più orribile delle
conseguenze - a costringerti allo schieramento. E quando arrivi a dire
"né… né…" sei già con le spalle al muro, sei già schiacciato nella
tenaglia. Tieni il punto, in un ultimo barlume di coerenza e forse di
umanità. Qualcosa che è pavido e coraggioso nello stesso tempo, ma è
fuori tempo.
Questi uomini e donne si sono schierati palesemente contro la guerra,
contro il terrore, contro i tank e contro le bombe, contro i cecchini e
contro i rastrellamenti, contro l'assassinio e contro il suicidio, si
sono schierati contro tutto quello che c'è, che sta sotto i nostri
occhi. Perché è quello che già c'è che va modificato, è in quello che
già c'è che si deve intervenire, per qualcosa di inaudito, per uno
scandalo, per un miracolo, per una trasformazione, per un prodigio.
Quello che c'è è il lutto collettivo, il trionfo della morte, il
sepolcro di popoli senza alcuna speranza di resurrezione. Il trionfo
della morte: barelle che corrono di qua e di là, ambulanze in continuo
lampeggiare, funerali di massa e privati, volti rigati di lacrime, urla
e strepiti e composti silenzi, fosse comuni, corpi riversi abbandonati
dove capita, flebo, sacche di plasma, pietose raccolte di pezzi umani.
Corpi esplosi, corpi imbottiti di tritolo, corpi rinchiuse in scatole
d'acciaio, corpi inermi, corpi bombe, corpi ostaggio, corpi gettati via
come involucri. Corpi esposti al luttuoso pianto che si leva da quella
terra. Rassegnazione alla morte [racconta Manuela Dviri, nel suo diario
da Tel Aviv: "… ieri una mia amica mi ha detto che ha comprato reggiseno
e mutandine nuove di pizzo in tinta: se devo saltare in aria, che almeno
sia alla grande…"] come potesse essere un incidente della vita: domani,
dopo che sarò morto, potrò ricominciare a vivere. Domani, dopo che
saremo tutti morti, potremo ricominciare a vivere.
Certo, sarà così: è sempre stato così. Prima o poi, ci sarà un
vincitore, ci sarà un "cessate il fuoco", ci sarà una pace. Prima o poi,
le voragini aperte dalla morte saranno colmate da nuove vite. Prima o
poi, forse, si ricomincerà. Si ricomincerà che?
Quegli uomini e quelle donne che si sono schierati contro la guerra e il
terrore, contro i tank e le bombe sanno che nessun conflitto può trovare
solo dentro di sé la forza della modificazione. Le ragioni della guerra
impongono una vittoria e una sconfitta, e una pace. Per questo si
interpongono, per questo ci chiamano a intervenire. Ci invitano "a
ragunarsi" perché si spezzi il fronte delle opposte fazioni d'odio,
perché quella moltitudine che rimane sempre schiacciata dai "padroni
della forza" ritrovi la propria voce della ragione e del cuore. La terra
di nessuno è la terra delle vittime e degli innocenti. Questa terra è la
vera posta in gioco d'ogni guerra: ogni guerra d'aggressione, ogni gesto
di violenza verso l'altro ha sempre come primo luogo d'occupazione la
"propria" moltitudine, la propria gente, "costruisce ordine e senso" tra
le proprie vittime e i propri innocenti. Ogni signore della guerra
tratta come numeri, come corpi insignificanti soprattutto i propri
uomini e donne.
Quell'armata indifesa di pezzenti, "messi a messi" mandando, si è
schierata proprio là, nel bel mezzo della terra contesa da tutti,
chiedendo a tutte le vittime e a tutti gli innocenti di "ragunarsi", di
battersi, ciascuno nel proprio campo per fermare la guerra e il terrore,
i tank e le bombe. Questo è il prodigio che può compiersi: facendo
sapere ai profughi di Deheishe che non sono soli, che non sono
condannati a morire - qualunque possa essere la loro scelta, se mai
abbiano una scelta -, facendo sapere a uomini e donne di Nethanya, di
Tel Aviv che non sono condannati a morire per poter ascoltare della
musica o mangiare una pizza né a uccidere per poter ascoltare della
musica o mangiare una pizza.
Nessuna buona novella arriva da quella terra: il mondo arabo è in fiamme
e le piazze si gremiscono di folle vocianti e furibonde; gli israeliani
sembrano aver ormai abdicato ogni logica di mediazione e lasciato mano
libera a Sharon perché faccia il lavoro sporco fino in fondo, poi semmai
lo si metterà a riposo.
La politica estera degli Stati uniti oscilla tra il disimpegno perché
tutto si incancrenisca e l'intervento militare ovunque o l'intervento
mirato in zone strategiche: nei fatti, sinora, è stata sconclusionata e
regge sulla rendita emotiva degli attentati dell'11 settembre, ma il
terrorismo non si è fermato, al Qaeda è ancora forte, bin Laden e il
mullah Omar sono sani e salvi, e il fondamentalismo islamico si è
allargato ancora di più. Ma si può davvero controllare un mondo dove la
guerra [nelle sue forme più odiose, l'attacco a civili] è endemica? E'
questo il tempo del Male che ci aspetta?
La politica estera dell'Europa è tardiva e timida: "insieme" l'Europa
non conta nulla, e ogni singolo paese fa disastri per conto proprio: la
Francia nel Golfo Persico, la Germania nell'area dei Balcani. La Gran
Bretagna li fa insieme agli Usa. A corpo morto.
Allora, quell'armata indifesa di pezzenti indica testardamente che solo
nella modificazione degli schieramenti, nella trasformazione delle cose
e dei conflitti, nella trasformazione di se stessi come soggetto dentro
i conflitti può esserci una soluzione. Non facile, non immediata, ma
certo più sensata, più profonda di questa guerra e di una qualunque
"pace".
La storia dei movimenti sociali di fronte la guerra è oscillata tra
interventismi e pacifismi, tra il "né aderire né sabotare" e il "guerra
alla guerra", il suo rovesciamento in rivoluzioni, in prosecuzioni di
guerra all'interno. Dentro quella carovana italiana pare esserci un
nuovo modo: aderire, prendere parte, intervenire per sabotare,
modificare, trasformare.
Questa è una buona novella.
Noi, qui, dobbiamo portare questa novella nella terra di nessuno del
nostro paese, dentro i movimenti, tra gli intellettuali, i politici, la
gente qualunque. Noi, qui, in Europa dobbiamo portare questa novella tra
gli immigrati arabi e gli israeliani, in Francia, in Germania, in
Spagna, in Italia, tra quelle comunità di pensiero, di storia, di
passione, di religione, di memoria, di azione, di produzione che sono
forse gli unici fili di continuità che ci permettono di parlare di
"Europa": se mai oggi c'è uno "spazio europeo" che non sia solo
giustapposizione di nazioni, lo si può rintracciare proprio nella storia
e nell'oggi di queste comunità, di queste diaspore. A queste diaspore
l'Europa deve tanto, molto. E non possono essere lasciate sole al
proprio conflitto, alla propria guerra, alla propria necessità di
trovare il luogo dello schieramento. Se così fosse, ogni schieramento
sarebbe solo "naturale".
E' qua in Europa che dobbiamo adesso "intervenire" sul conflitto, è qua
che l'intervento su quel conflitto può fare nascere un'idea nuova
d'Europa. O che, al contrario, può dilaniarla.
"L'alma generosa" di quella armata indifesa di pezzenti ci chiama a
"ragunarsi" qui, a batterci qui, contro ignavie e pilatismi dei potenti,
fanatismi di illustri sconosciuti, a modificare gli schieramenti e la
stessa logica degli schieramenti, a modificare noi stessi, a
"risvegliare ogni virtù sopita".

8 aprile 2002