Il rabbino: preghiamo per fermare la guerra Per la comunità una Pasqua di paura. In Campidoglio fiaccole per la pace
Ghetto, i giorni dell'angoscia "Ci sentiamo minacciati"

FERRUCCIO SANSA


«Guardate la gente che cammina per strada», Marco Milano, 32 anni, indica un gruppo di persone che attraversano il portico di Ottavia: due ragazzi con la giacca scura, un uomo robusto sulla quarantina e una donna con una borsa. «Guardateli e immaginate di essere a Gerusalemme. Immaginate che sotto i loro vestiti possa esserci una bomba. Abituatevi a guardare, a studiare ogni persona come un pericolo. Pensate che il silenzio della strada all'improvviso potrebbe essere squarciato da un'esplosione. Questa è Israele oggi».
È Pesach, la pasqua ebraica, nel ghetto di Roma. «Hag Sameach», felice festa, dice, davanti alla Sinagoga, Riccardo Di Segni: «Ma è difficile crederci sospira il rabbino capo sento un'angoscia terribile per queste morti. E sento minacce verso gli ebrei, tutti gli ebrei del mondo, mentre nell'opinione pubblica monta una marea di opposizione politica basata su pregiudizi. Noi, però, preghiamo perché finiscano la guerra e le sofferenze di tutti gli uomini che vivono in quella terra. Senza distinzioni».
È Pasqua, ma pochi pensano al Seder, quando le famiglie si riuniscono per mangiare l'agnello, l'uovo e il pane azzimo. E dalle finestre sui vicoli senti arrivare il profumo delle erbe. Del resto, come sarebbe possibile? Mercoledì sera, la prima della Pasqua che per gli ebrei dura una settimana, 22 persone sono morte nell'attacco di un kamikaze. E venerdì sera le bandiere palestinesi sfilavano per Roma contro la guerra in Medio Oriente insieme con Verdi, Rifondazione e Roma Social Forum. «L'Italia deve impegnarsi di più perché nasca uno stato palestinese», hanno chiesto gli assessori Esposito e Nieri. Intanto in Campidoglio monsignor Capucci accendeva una fiaccola per la pace.
Era sabato, ieri, giorno di preghiera e di silenzio, ma molti davanti alla Sinagoga avevano bisogno di parlare. «Israele è parte di noi. È il nostro rifugio. Abbiamo molti parenti laggiù», racconta Dario Cohen, consigliere dell'associazione ItaliaIsraele. Aggiunge: «Ogni sera telefono a Tel Aviv per parlare con i miei. E quando non rispondono mi prende la paura». Già, la paura unisce tutti. Ma anche nella Comunità ebraica ci sono posizioni diverse. Soprattutto sulla figura di Sharon: «Noi stiamo con Israele, non importa chi governa. E poi lo Stato ha diritto di difendere i suoi cittadini», spiega Riccardo Pacifici, assessore alle relazioni esterne della Comunità. La linea di Rabin che aveva portato vicino alla pace, però, era molto diversa... «Attenzione questo è un governo di unità nazionale, dove siede anche Peres. E poi oggi Rabin si sarebbe comportato come Sharon», è sicuro Pacifici. Opinioni diverse, quelle di Victor Magiar, consigliere comunale (Ds): «Sharon e Arafat sono leader logori, prigionieri della loro storia personale... ma una soluzione si può trovare, queste tragedie forse costringeranno israeliani e palestinesi a trattare», spiega Magiar. Ma come? «La proposta dei paesi arabi di riconoscere Israele è un grande passo avanti», conclude Magiar.
Si parla a bassa voce nei capannelli all'uscita della Sinagoga, sotto la luce violetta dei lampeggianti della polizia. Si parla nelle case spezzando il pane azzimo. E si prega leggendo l'Hagaddah, le pagine che raccontano l'Esodo dall'Egitto. Intanto la televisione mostra immagini di corpi straziati. Di sangue, uguale per ebrei e palestinesi.