INTERVISTA

Un'occasione chiamata terrore
Noam Chomsky: «Ciò che stiamo vivendo oggi, nella seconda fase della guerra al terrorismo, non ha nulla a che fare col terrorismo. L'11 settembre fornisce agli Usa condizioni ideali per la repressione, interna ed esterna»


«Ciò che stiamo vivendo oggi, nella seconda fase della guerra al terrorismo degli Stati uniti, non ha nulla a che vedere con la lotta al terrorismo. Non esiste più neppure ciò che poteva apparire come "il pretesto" della prima fase. L'attacco dell'11 settembre ha fornito agli Stati uniti in primis e ai paesi democratici del resto del mondo la cosiddetta
window of opportunity, ovvero il momento propizio per porre in atto tutta una serie di misure legislative repressive, secondo una pianificazione già stabilita in precedenza. Una manipolazione che crea sensazione di paura, preoccupazione per la propria sicurezza. Non è casuale la mano libera di Israele a commettere atrocità folli nei territori occupati; la Russia sta commettendo atrocità in Cecenia; la Turchia continua con la repressione nei confronti dei kurdi». E' così che inizia l'intervista de il manifesto con Noam Chomsky, appena tornato dalla Turchia. L'«infamous» Chomsky, l'americano «contro» per eccellenza.

Bush il Giovane, per la «fase due» della cosiddetta guerra al terrorismo, ha già pianificato la guerra all'Iraq, all'Iran e ai paesi definiti come l'asse del male, con l'impiego di miniatomiche. Perché ora?

Questa strategia è un aspetto diverso della prima fase di «Guerra duratura». Sta avvenendo qualcosa le cui motivazioni ed i cui fini sono totalmente differenti da quanto media e classe politica vogliono che sia compreso nella sua interezza dalla popolazione americana, che vive invece in uno stato di supina accettazione.

Come?

Innanzi tutto, gli «speechwriters» di Bush si sono inventati questa parola, l'«asse» fra Iraq e Iran, quando i due paesi sono in guerra fra loro da vent'anni. La Corea del Nord è stata aggiunta alla lista dei nemici da colpire, cosicché il mondo islamico non possa trarre la conclusione che la guerra degli Stati uniti venga condotta contro l'Islam. Nel mirino di Bush l'attacco all'Iraq sarà reale, ma per ragioni che nulla hanno a che vedere con quanto ci viene detto. A Bush è stato insegnato a memorizzare le parole: il diabolico Saddam è in possesso di armi di distruzione di massa contro la propria popolazione. E' vero, ma Bush il Vecchio era presidente in quel periodo. Lui stesso ha approvato e fornito aiuti a quello che era considerato il miglior «alleato per la democrazia». Ora l'ultima cosa che gli strateghi di Washington desiderano è che l'attenzione della popolazione venga riposta alla vera guerra del terrore che, a livello domestico, è stata posta in atto dal governo americano. Che la conduce con ferocia contro la sua stessa popolazione, giorno dopo giorno: con i tagli fiscali ai ricchi e l'eliminazione delle garanzie istituzionali dell'assetto sociale-sanitario
di Medicaid e Medicare. Lo scandalo Enron fa emergere soltanto quanto fa comodo all'establishment, perché il vero scandalo consiste nel fatto che legalmente, cioè per mezzo delle istituzioni, il governo americano ha defraudato milioni e milioni di dollari a membri della sua stessa popolazione. Questo è avvenuto con l'approvazione di Bush e Cheney. L'attenzione dell'opinione pubblica va diretta verso una guerra in Iraq o altrove, purché non venga prestata attenzione a quanto è rimasto del sistema di garanzie dei diritti sociali e civili negli Stati uniti.

Bush ha dichiarato pubblicamente che la cattura di Osama bin Laden è irrilevante. E' un preludio all'attacco all'Iraq, dopo l'Afghanistan?

L'attacco militare all'Iraq è reale.

Perché ora e con quali contraccolpi? Gli Stati uniti miravano ad una tregua in Israele per fare la guerra in Iraq.

La strategia seguita a Washington è quella di approfittare di questo momento di opportunità fornite dall'assenso e dalla sudditanza del resto del mondo, compresi gli alleati arabi ed europei, dopo l'attacco dell'11 settembre, per attaccare l'Iraq senza curarsi delle reazioni e contraccolpi. Perché coloro che pianificano le strategie di guerra non prendono in considerazione la storia ed il contesto storico. L'Iraq è al secondo posto per il controllo delle riserve di petrolio al mondo. Prima o poi c'era da aspettarsi che sarebbero intervenuti. Bush non vuole lasciare il privilegio di accesso alle riserve di petrolio a Italia, Francia, Russia. E' chiaro che gli Stati uniti non vogliono farsi sfuggire un'occasione d'oro, che questi tempi di insicurezza concedono loro, impedendo a chiunque di opporsi al volere del «master» mondiale.

Ma il controllo delle risorse petrolifere è stato gestito dagli Stati uniti, negli ultimi 50 anni, assicurandosi nella regione araba quelli che lei denomina i «delegati di Wall Street». Arabia Saudita in primis.

Ora questo controllo e questa egemonia politica sono sfuggiti di mano e Washington cercherà di riottenerne il dominio. Il problema sarà come farà, perché esistono dei problemi tecnici. Bush ritiene questa sia l'occasione propizia in politica estera, così come a livello interno, per varare un'intera serie di legislazioni draconiane.

Ma la situazione geopolitica dalla guerra del Golfo è mutata. Quali sono le reazioni del mondo islamico alla guerra in Israele contro i palestinesi?

Questo è un interrogativo che non ha ancora risposte. L'amministrazione Bush ritiene, in qualche modo, di poter calmare le reazioni sollevate dai paesi arabi. Bush cercherà di ottenere dai governi arabi perlomeno l'appoggio politico, se non il consenso, per un attacco militare contro l'Iraq. Il viaggio del vicepresidente Dick Cheney tra le cancellerie dei paesi arabi lo dimostra. Gli Stati uniti non vogliono un'aperta opposizione all'intervento militare Usa contro l'Iraq. Quanto alla popolazione araba, nessuno sa quale sarà la reazione di questa massa povera e oppressa. Non rimane loro altra scelta che accettare.

Possono sovvertire i loro stessi governi a causa della politica che questi perseguono, a favore di Israele e per la distruzione dei palestinesi?

E' possibile. Ma i nostri bravi strateghi sono pronti ad ottenere la distruzione totale della specie umana pur di ottenere traguardi a breve tempo. Prenda l'esempio della guerra fredda. Esiste prova con ampia documentazione che, durante gli anni Cinquanta, l'Unione sovietica ha cercato in ogni modo di ridurre la corsa al riarmo nucleare sia negli Stati uniti che in Unione sovietica. La documentazione storica prova che gli Stati uniti rifiutarono ogni proposta per bloccare l'escalation del proprio arsenale atomico. Nulla di quanto avviene ora è nuovo.

L'impiego di miniatomiche contro Iraq, Iran, Russia e Cina con la scusa della guerra al terrorismo non è una novità?

Il
Nuclear Posture Review del Pentagono costituisce un leggero cambiamento nella conduzione delle direttive della dottrina americana, ma non differisce di molto dalla dottrina perseguita dalla precedente amministrazione Clinton. Non differisce dalla «politica del deterrente» nel periodo post-guerra fredda e dalle altre iniziative approvate sin dal periodo che va dalla metà degli anni Novanta in poi. Tutte queste direttive sull'escalation del nucleare occultano qualcosa di molto più importante e più grave.

Cioè?

La militarizzazione dello spazio viene coperta a Washington dal programma chiamato
Missile Defense System. Ma questo è quello che è emerso sino ad oggi. Quello che non viene detto è che questo programma è strettamente connesso con il Nuclear Review del Pentagono. Un programma di difesa missilistico rende necessaria la costruzione di armi nucleari nello spazio il cui potenziale minacci di provocare l'Olocausto atomico. Questo di per sé costituisce la premessa per la eliminazione della specie umana dalla faccia della Terra, perché il fattore «incidente» viene contemplato in qualsiasi sistema sofisticato e complesso. Inoltre è prevedibile che i paesi avversari saranno spinti a reagire alla minima provocazione. Cercare di confrontarsi con gli Stati uniti nello spazio non sarà davvero pensabile.

La «fase due» della cosiddetta guerra al terrorismo prevede, in tempi brevi, l'attacco militare contro l'Iraq. Lei parla di problemi tecnici irrisolti dagli strateghi della guerra. Quali?

Washington deve già sapere, una volta eliminato Saddam Hussein, chi mettere al suo posto per assicurarsi che l'Iraq non diventi un paese democratico. Se si concretizza in Iraq un regime democratico, esso sarà costituito essenzialmente da sciiti. E' l'ultima cosa che Bush desidera, perché porterebbe a un accordo con l'Iran. Devono rimpiazzare Saddam con un altro regime compiacente, e non è facile. Al momento l'amministrazione Bush sta effettuando vari tentativi con dei gangster locali. Ma questo è ancora un problema irrisolto, oggi come nel 1991.

Altro problema in Medio Oriente è la guerra in Israele. E' controllabile da Washington?

La politica perseguita per anni da tutte le amministrazioni americane sin dagli anni '70 è stata quella di impedire un vero accordo tra le due parti, palestinesi e israeliani. Tutti al mondo sanno in cosa consista un reale accordo politico fra due parti: il riconoscimento di due stati indipendenti sulla base dei confini del 1967. Gli Stati uniti hanno posto il veto, in sede del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, 25 anni fa. Ed hanno continuato a porre il veto sino ad oggi. Questo accordo è stato riconosciuto dal mondo intero, con la sola eccezione degli Stati uniti.

Terroristi, la lista s'allunga
Il governo degli Stati Uniti ha ufficialmente aggiunto tre gruppi alla lista delle organizzazioni terroristiche stilata dal dipartimento di Stato. Spiccano le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, un'organizzazione legata al gruppo Fatah di Yasser Arafat. Gli altri due gruppi inseriti nella lista dal segretario di Stato Colin Powell sono l'Asbat al-Ansar, che opera nei campi profughi palestinesi in Libano, e l'organizzazione algerina Gruppo Salafista per il Combattimento.

Per i cittadini americani diventa di conseguenza illegale aiutare le organizzazioni nella lista, i cui fondi vengono bloccati, mentre nessun membro di questi gruppi otterrà il visto di ingresso negli Stati Uniti.