LETTERA
Il terrore che voi non capite
GAD LERNER
Caro direttore, a far scattare in me il bisogno di
scrivervi in questi giorni bui - non ti stupisca - è
stato infine il bellissimo ricordo che Valentino Parlato
ha dedicato ieri a Giovanni Forti, dieci anni dopo la sua
morte. Troppi legami, troppi ricordi ci uniscono,
nonostante tutto, a dispetto dell'estraneità
insospettita che i vostri lettori più giovani riterranno
probabilmente di dedicarmi.
Ma ciò non può valere di certo per Gianfranco Bettin,
Luisa Morgantini, Piera Redaelli che sempre ieri hanno
testimoniato per voi dall'inferno di Ramallah dove hanno
scelto di andare volontari, disarmati, generosi e onesti
come io me li ricordo da sempre: Gianfranco insieme dalle
riunioni degli studenti di Lotta continua fino agli
ultimi anni con Alexander Langer; Luisa abbracci e
sorrisi alla Fim Cisl milanese di via Tadino e poi in
Irpinia, fra i terremotati; Piera trent'anni fa alla
Statale di Milano, dove già lei portava quella kefiah
che un po' m'impauriva ma lo stesso sentivo il dovere di
manifestare al suo fianco perché Israele la smettesse di
rimuovere l'esistenza di un popolo palestinese e
finalmente ne riconoscesse i diritti.
Ecco, non temessi di strumentalizzarne la memoria, vorrei
trasmettervi la certezza che le mie domande di oggi
sarebbero le stesse del vostro ribelle intellettuale
newyorkese Giovanni Forti, che volle sposare un altro
uomo ma sotto la kuppà
del rito ebraico.
Credo innanzitutto che la vostra storia vi imponga il
dovere di fare i conti con la nostra paura: la paura di
quell'arma nuova - il corpo umano dei cosiddetti
«martiri» trasformato in arma esplosiva - che ribalta
in impotenza la superiorità militare israeliana e per la
prima volta rende verosimile la vittoria del terrorismo,
cioè la distruzione dello Stato ebraico nel giro dei
prossimi quindici-vent'anni.
Se il terrorismo suicida si generalizza come arma totale
di spietata efficacia, legittimandosi attraverso una
visione totalitaria della fede religiosa, ebbene, chi sta
dalla parte degli oppressi deve sentire per primo la
responsabilità di denunciare l'abominio che si perpetra
ai loro danni, e quindi agire di conseguenza, perché le
dissociazioni di principio non bastano. D'accordo, la
guerra peggiora chiunque vi sia coinvolto, costringendoci
a brutali scelte di campo, imponendoci il peso delle
appartenenze, irridendo i nostri tentativi di distinguere
laddove la violenza s'illude di semplificare, spaccando
in due il mondo. Eppure io non posso rassegnarmi oggi
all'idea di interpretare una sensibilità e una visione
del mondo così distanti da quelle testimoniate da
Gianfranco Bettin , Luisa Morgantini, Piera Redaelli, e
da voi tutti del manifesto.
Perché mai? Solo perché sono nati in terra d'Israele i
miei genitori e i miei nonni, e sempre hanno parlato
l'arabo come l'ebraico? Quella semmai è stata e resta
una ragione in più per cercare la pace, non la guerra
con i palestinesi.
Sgombriamo il campo dalle ovvietà. Le conosco anch'io le
colpe della politica israeliana dal 1993 in qua, la
moltiplicazione degli insediamenti ebraici nei territori
restituiti all'Autorità palestinese e il drammatico
divaricarsi del tenore di vita fra i due popoli. Lo so
che in una visione cinica del divide
et impera si è incoraggiata una
leadership ambigua e corrotta dell'Anp, favorendo il
radicamento degli integralisti islamici e i giochi più
sporchi di Siria, Iran, Iraq. Figuriamoci se nego le
colpe dei governi israeliani, fino all'ultima improvvida
decisione di prendere in ostaggio Arafat. Ma adesso che
si fa? Possiamo forse ignorare, in seguito a quelle
colpe, l'incubo nel quale sta precipitando l'intera
società israeliana? E' vero o non è vero che -sia pure,
anche per colpa degli israeliani, ma (siete troppo lucidi
per non accorgervene) non solo per colpa degli
israeliani- i palestinesi ormai assumono il terrorismo
suicida come la strategia vincente, quella che alla lunga
indurrà tutti gli ebrei ad andarsene da tutta la
Palestina, per costruirvi infine uno Stato islamico?
I libri di testo arabi che recuperano gli argomenti più
ignobili dell'antisemitismo di matrice europea, le
trasmissioni televisive che propagandano l'eroismo dei
«martiri» terroristi, lo stesso Arafat che nell'ora
suprema esalta ambiguamente questa criminale nozione di
martirio, possono forse essere ridimensionati a
conseguenze secondarie del conflitto in corso, da parte
di un giornale laico e di sinistra che ha inscritta nei
suoi cromosomi la memoria delle tragedie novecentesche?
Riconosco con fraterna ammirazione la nobiltà e
l'utilità dell'interposizione pacifista messa in atto da
tanti amici coraggiosi, ma pretendo che essi comprendano
anche le ragioni degli israeliani e le responsabilità
della leadership palestinese. Dopo gli attentati
sanguinosi nei giorni della Pasqua ebraica, qualunque
governo israeliano, fosse stato anche guidato dalla
sinistra e non da Sharon, si sarebbe sentito in dovere di
reagire duramente a protezione della sua popolazione
civile. Non a caso l'irriducibilità del terrorismo
suicida ha pressochè estinto il fenomeno dell'obiezione
di coscienza fra i riservisti di Tshahal.
Oggi davvero non è lecito schierarsi unilateralmente al
fianco dei palestinesi, fingendo di ignorare il peso
assunto dentro a quella popolazione oppressa - fin nelle
strutture militari di al Fatah - dalle posizioni
fondamentaliste e dalla strategia del terrorismo suicida.
Ero con voi, in via Tomacelli, quel giorno del 1982 in
cui i terroristi uccisero il piccolo Stefano Tachè
davanti alla sinagoga di Roma. Ricordo lo smarrimento e
il dolore condiviso in redazione, di fronte alla ferita
che sembrava irrimediabilmente aprirsi fra la sinistra e
la comunità ebraica italiana. Quell'anno molti di noi,
ebrei di sinistra, non esitammo a manifestare sotto le
sedi diplomatiche israeliane per denunciare la follia
della guerra di Begin e Sharon in Libano. Lo rifarei, ve
lo assicuro. Ma oggi la situazione è molto, molto
diversa. Non lasciatevi trarre in inganno dalla
schiacciante superiorità militare dell'esercito
israeliano, che c'era allora così come c'è oggi. La
differenza è che allora Israele non era in pericolo di
vita, e dunque al suo interno poteva crescere una potente
spinta pacifista che in seguito avrebbe trascinato Rabin
a stringere la mano di Arafat. Naturalmente ancora oggi
il dialogo fra le due parti e la nascita di uno Stato
palestinese a fianco di quello ebraico restano l'unica
soluzione ragionevole al conflitto. Ma per portare gli
israeliani a non vivere più come una minaccia la nascita
dello Stato palestinese, bisogna stroncare con tutti i
mezzi, culturali, sociali, politici e repressivi i
focolai del terrorismo fondamentalista.
Per favore, smettiamola di mostrare comprensione per il
coraggio e l'eroismo dei «martiri», magari con
l'argomento aberrante che quella sarebbe l'unica forma di
lotta consentita loro dalla brutalità israeliana. E' un
atteggiamento ricorrente, quest'ultimo, poco importa se
sussurrato o proclamato a piena voce.
Sì, mi sento di chiedervi comprensione e partecipazione
anche al dramma, alla paura degli israeliani e degli
ebrei. Perfino comprensione per le sue manifestazioni
più rozze, come quella dei giovani ebrei romani che
pensano di trovare un comodo bersaglio polemico nella
sede di Rifondazione comunista perché ancora non
oserebbero esternare la loro rabbia sotto palazzi più
importanti, come quelli del Vaticano. La brutale
semplificazione dei termini del conflitto non si
riscontra più solo nelle inconsapevoli, grossolane
vignette di un Forattini che da tempo si diverte a
deformarne la portata religiosa, fornendo combustibile ai
pregiudizi più velenosi. Mi aveva rattristato, martedì
scorso, la vostra Jena che scherzava sulle usanze: «In
Italia è legale l'ora, in Olanda l'eutanasia, in Israele
il genocidio». Ma come posso protestare con voi se
l'indomani è l'Osservatore
romano a
straparlare di «un'aggressione che si fa sterminio»?
Genocidio, sterminio, sono parole scelte con cura per
fare male agli ebrei. Alludono a contesti storici e a
luttuose contabilità inconfrontabili con la tragedia in
corso. I carri armati in mezzo alle baracche dei campi
profughi sono una visione terribile, ma nulla hanno a che
fare con il genocidio e lo sterminio di intere
popolazioni perpetrato nell'Europa del Novecento, e
neanche con l'atrocità degli stupri e della guerra
etnica nei Balcani. Spiace doverlo ricordare, ma pur
nella denuncia più vibrante un giornale come il
manifesto avrebbe il dovere di
preservare queste distinzioni, se persegue la pace e la
convivenza. Se volesse interpretare la disperazione
ebraica con la stessa attenzione che dedica alla
disperazione palestinese. Che trovino spazio adeguato
sulle pagine del vostro giornale anche i corpi martoriati
dal tritolo a Netanya, Haifa, Gerusalemme. Lanciatelo voi
quel grido che Arafat in tanti mesi non ha voluto far
suo: «I martiri assassini non sono eroi ma criminali
inviati alla morte da criminali peggiori di loro,
bestemmiano il Corano e il popolo palestinese deve
maledirli come i suoi peggiori nemici». Troppo facile,
troppo furbo, addebitare pure loro nel conto delle colpe
di Sharon.
Cari Gianfranco, Luisa, Piera, cari amici del manifesto.
Non riesco ad accettare l'idea che oggi noi siamo
destinati a sentirci così distanti. Che senza
accorgercene precipitiamo nell'imbarbarimento di un
conflitto trascinato ad assolutizzarsi, oltrepassando la
sua dimensione nazionale, sociale e perfino religiosa; e
ciò per colpa non solo di chi pratica ma anche di chi
legittima l'uso del corpo umano vivente come ordigno
mortifero. I teorici, i teologi del nuovo terrorismo sono
molti più di quanti non si sospetti. Sono i primi nemici
della nostra concezione della vita. Strumentalizzano gli
oppressi ma non manterranno mai la promessa di un mondo
più giusto. Riconosciamoli e denunciamoli anche per le
strade di Ramallah e Betlemme che in questi giorni,
coraggiosamente, percorrete con le mani in alto di fronte
ai carri armati.
Lo so di chiedervi una dose di coraggio in più. Ma non
potete liquidare come irricevibile questa richiesta: se
non altro perché in passato avete condiviso la severità
con cui tanti ebrei di sinistra come me hanno denunciato
la politica sbagliata di uno Stato d'Israele cui pure
eravamo e resteremo sempre legati, contribuendo talvolta
a sospingerlo in direzione della pace.
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