E ADESSO
che succede? Il Consiglio di sicurezza dell'Onu
ha ingiunto, col voto favorevole degli Stati
Uniti, ad Israele di ritirare le sue truppe dai
Territori occupati. L'Unione europea e i singoli
stati che ne sono membri avevano già inviato al
governo Sharon stessa pressante raccomandazione.
Il Papa prega e si adopera per la pace in Medio
Oriente. La Lega araba e tutti gli Stati che ne
fanno parte ha approvato il piano saudita: ritiro
d'Israele da tutti i territori occupati nel 1967,
nascita di uno Stato palestinese, riconoscimento
del diritto all'esistenza dello Stato israeliano
e pace in tutta la regione. Insomma il mondo
intero sembra concorde nel consigliare, premere,
imporre la tregua, l'armistizio, la pace infine
tra due popoli che hanno ormai non solo le mani
ma la mente e l'anima imbrattate dal sangue degli
innocenti. Una strage che dura da mezzo secolo e
anche più, dove di volta in volta e anche a
distanza di poche ore i terroristi diventano i
martirizzati. Riusciranno a sollevare la testa
dall'immondo mattatoio che hanno costruito
insieme e che insieme continuano a gestire, l'uno
contro l'altro ma comunque solidali nel
continuare ad appendere ai ganci di quel
fazzoletto di terra chiuso tra il mare e il
Giordano lembi di carne umana sostituendola con
merce fresca un giorno dopo l'altro?
No, non riusciranno. Ormai lo sappiamo tutti e lo
sanno anche loro: non riusciranno. Il disco della
storia si è rotto in quel punto, tanti e tanti
anni fa e ripete ormai lo stesso movimento, la
stessa musica spezzata fatta di spari, lamenti,
imprecazioni e pianto. Bisognerebbe spegnere il
meccanismo, togliere quel disco rotto, impedire
che la ripetizione coatta continui. I due
protagonisti, i due solidali gestori del
mattatoio e della reciproca strage che vi si
consuma non sono in grado, costretti come sono a
ripetere all'infinito le stesse parole e gli
stessi gesti di morte.
Verrà dunque la pietà imposta dall'esterno? Il
Papa, nel mezzo della "Via Crucis" del
Venerdì santo al Colosseo, ha scongiurato con
voce flebile per il dolore suo e del mondo:
"Non fate come Pilato" . Voleva dire:
"Non lavatevi le mani nell'acqua
dell'indifferenza e della diserzione, non state a
guardare senza muovervi, intervenite" . E si
rivolgeva all'intero mondo circostante. Ebbene si
sono mossi, sono tutti intervenuti, perfino Colin
Powell la colomba americana dopo aver peraltro
ricordato che Israele si difende dal terrorismo e
quindi la sua azione non solo è inevitabile e
legittima ma anche giusta. Sono intervenuti, non
hanno fatto come Pilato. Come? Con le parole.
Serviranno?
No, non serviranno a nulla anche perché con le
parole intervengono da cinquant'anni sul
conflitto mediorientale. I protagonisti non hanno
mai fatto nessun conto delle parole che le
Nazioni Unite gli hanno infinite volte
indirizzato e le singole potenze, ciascuna per
sé e l'Onu per tutti. I protagonisti sanno che
alle parole non sono mai seguiti i fatti e mai
seguiranno. Perciò il mattatoio continua, anzi
le dimensioni della mattanza aumentano giorno
dopo giorno. Mentre scriviamo mezzi corazzati di
Tsahal si stanno ammassando ai valichi della
striscia di Gaza e in Galilea attorno a Betlemme.
A Ramallah interamente occupata Yasser Arafat è
ridotto in tre stanze senza telefono né luce né
acqua. Alle porte di quelle tre stanze ci sono i
soldati di Tsahal con le mitragliette in pugno;
fuori dal portone con i cannoni contro le
finestre sfondate dell'ufficio dell'Autorità
palestinese stazionano i carri armati d'Israele.
Non lo vogliono morto; vogliono che li preghi di
arrestarlo perché tra poche ore quelle tre
stanze saranno diventate un letamaio dal quale
neppure le feci del presidente dell'Autorità
palestinese potranno essere eliminate. Intanto
Hamas e gli altri gruppi estremisti dell'Intifada
lanciano i kamikaze a seminare strage nel cuore
stesso della striscia d'Israele. Striscia
d'Israele contro striscia di Gaza perché in
realtà sono due lembi di terra sanguinolenta che
si contrappongono: 25 chilometri di profondità
più o meno misurano quelle strisce. Lì, in quei
pochi palmi di terra, il demonio ha deciso di
contrapporre la sua perversa volontà a quella di
Dio. Il demonio ha oscurato la mente dei
contendenti dell'una e dell'altra parte. Il
demonio gioca alla guerra in quei pochi
chilometri quadrati ma guarda più in alto
perché lì, nell'incubatrice del Medio Oriente,
sta crescendo il pericolo della guerra totale o -
peggio ancora - del caos totale, della perdita di
controllo, del furore contro la pietà, della
follia distruttiva contro la ragione.
***
Ma le responsabilità dei due protagonisti del
mattatoio mediorientale non sono identiche. Non
starò a cercare chi ha cominciato, chi ha tolto
la terra a chi, chi deve fare ora il primo passo,
in che cosa debba consistere lo scambio tra gli
uni e gli altri affinché la pace e la convivenza
finalmente possano regnare. Queste analisi sono
state fatte infinite volte nell'ultimo mezzo
secolo, ciascuna delle parti in lotta ha avuto ed
ha i suoi avvocati difensori e i suoi pubblici
ministeri d'accusa. Ormai il problema non è più
quello, non interessa più nessuno salvo gli
storici in erba che infine trarranno il bilancio
e ognuno misurerà i pesi sulla bilancia propria
e non ci sarà mai una misura che coincida con le
altre. Il problema di oggi è soltanto quello di
rispondere alla domanda che abbiamo posto
all'inizio: e adesso che succede?
I consigli e gli ultimatum rivolti ad Arafat non
servono a niente. Che cosa volete che faccia
Arafat da quelle tre stanze puzzolenti di sudore
e di escrementi? E' stupefacente che il
segretario di Stato e il presidente della più
forte potenza del mondo impongano al leader
palestinese di fermare i kamikaze e arrestare i
terroristi. Come, con quali forze, con quale
motivazione? Gli elicotteri e i carri d'Israele
bombardano da quattro mesi le sedi della polizia
palestinese, ne distruggono i depositi, ne
arrestano o ne uccidono i comandanti, impediscono
i loro spostamenti, bloccano le vie di
comunicazione. La più grande potenza militare
del mondo è stata e continua ad essere beffata
dallo sceicco Bin Laden e perfino dal mullah
Omar, ma Arafat invece, con la sua kefiah che
ormai sarà tutta un rammendo e un lerciume,
dovrebbe far arrestare i membri di Hamas e i
kamikaze che a getto continuo escono dai campi
profughi imbottiti di plastico e di dinamite e
vanno a farsi esplodere dove gli ebrei si
divertono, pregano, vivono la loro vita non più
normale.
Chi chiede questo ad Arafat parla di nulla
perché non c'è assolutamente nulla che Arafat
possa fare. Ma lo si può forse chiedere al
governo d'Israele quello di arrestare la strage,
lo si può chiedere a Sharon perché quello -
cioè Israele - è uno Stato, uno stato
democratico, istituzioni, magistratura, scuole,
industrie, moneta, strutture sociali, Parlamento,
politica estera, esercito, tecnologia, concerti,
università, discoteche e bagni di mare. Si può
chiedere al governo d'Israele di ritirarsi, di
non rispondere più ai colpi che riceve, di
accettare il piano del principe Abdullah? Gli si
può chiedere. Gli è stato chiesto da tutto il
mondo, l'Onu ha votato una risoluzione limitata
al caso Ramallah ma non si contano le risoluzioni
dell'Onu in materia. L'Europa è stata chiara.
Gli Stati arabi sono stati chiari.
Ebbene, Sharon, il governo d'Israele, risponderà
no come ha già risposto infinite volte. Dirà
sì purché cessino gli attentati. Ma sì a che
cosa? A riprendere il negoziato. Da dove?
Dall'inizio. La restituzione delle terre
occupate? Parliamone. Il rientro d'una parte dei
profughi o almeno un indennizzo? Più difficile.
Lo smantellamento degli insediamenti ebraici?
Difficile ancora di più. Lo Stato di Palestina?
Forse sì, a certe condizioni. Quali condizioni?
Ci sono due possibili figure, due possibili
geografie dell'ipotetico Stato di Palestina: una
è quella d'un territorio con confini definiti e
continui entro il cui perimetro un governo possa
esercitare la sua sovranità vincolato alle
pattuizioni e alle garanzie internazionali.
L'altra è quella di tanti piccoli cantoni
separati gli uni dagli altri dagli insediamenti
d'Israele, guidati da capi amministrativi,
coordinati in qualche modo da un organo
superiore. Di fatto un protettorato con ampie
autonomie ma senza una politica estera e con
un'economia subordinata, un dormitorio di
pendolari, un mercato di piccolo consumo e di
forza di lavoro. Ebbene Sharon punta su questa
soluzione. Dice lo scrittore Yehoshua, pacifista
e democratico: comunque, prima o poi avremo la
pace perché la guerra non è una soluzione. Ben
detto ma non vero. Avrete forse una pace finta ma
continuerà un terrorismo vero perché quando un
popolo non ha speranza non può che uccidere gli
altri e se stesso. Qui lo fa alla lettera: uccide
suicidandosi. Non s'era mai visto uno spettacolo
simile, in nessun paese del mondo, perfino i
kamikaze giapponesi erano un'altra cosa: militari
che attaccavano altri militari in nome
dell'imperatore. Qui un popolo si suicida per
uccidere un altro popolo nel nome di Allah. La
differenza è enorme.
Dunque Sharon dirà no oppure un nì in tutto
eguale ad un no. Dal suo punto di vista non
potrebbe fare altrimenti. Difatti, razionalmente
si finisce per dargli ragione come ha fatto Colin
Powell. Diverso sarebbe se gli Stati Uniti
battessero il pugno. L'economia e soprattutto la
sopravvivenza della struttura militare d'Israele
dipendono dai dollari americani. Se gli Usa
battessero il pugno forse Sharon dovrebbe
piegarsi. Ma gli Usa non batteranno mai il pugno
sul tavolo d'Israele e Sharon lo sa
perfettamente. Se gli Usa non usano con Israele i
cosiddetti argomenti persuasivi nessun altro al
mondo può farlo. Non certo l'Europa che non si
lava le mani come Pilato perché non ha neppure
il potere che Pilato aveva. Non la Russia. Non
gli Stati arabi. Non l'Onu. Dunque nessuno.
Nessuno può obbligare Sharon e il governo
d'Israele a fare quanto servirebbe per riportare
la pace nella regione.
Conclusione: non c'è assolutamente nulla da fare
se non assistere sbigottiti alla prosecuzione
della mattanza con tutti i rischi che un fatto
del genere comporta per i mattatori, i mattati
(reciprocamente) e gli spettatori in gradinata.
Salvo che...
***
In realtà c'è un soggetto che potrebbe metter
fine alla mattanza ed uscire dalla logica
perversa della reciproca strage. Questo soggetto,
l'unico soggetto possibile sulla scena, è il
popolo d'Israele. Il popolo d'Israele ha il
potere democratico d'imporre al suo governo di
uscire dal mattatoio e di pagare i prezzi della
pace. Il popolo d'Israele può scegliere - se lo
vuole - un governo che esegua questa sua
eventuale volontà. Soltanto il popolo d'Israele
può decidere la questione. E se vuole che la
decisione sia effettiva, deve farlo a larga
maggioranza, la più larga possibile per non
esser soggetta ai ricatti e ai veti dei
gruppuscoli del fanatismo religioso.
Nessuno fuori d'Israele può esercitare pressioni
efficaci e non controproducenti su quel popolo
salvo un altro soggetto: le comunità ebree della
diaspora. Ammesso (e tutt'altro che concesso) che
quelle comunità, tra di loro e al loro interno,
costituiscano un soggetto. Questo comunque è il
solo filo di speranza per metter fine alla strage
mediorientale: che il popolo d'Israele obblighi
se stesso alla pace. Ma non nascondiamoci che si
tratta d'un filo sottilissimo. Ciascuno di noi
vede distintamente ciò che altri dovrebbero fare
ma è cieco quando si tratta di se stesso. Il
popolo d'Israele sarebbe veramente un popolo
eletto se sapesse rompere questo universale
comportamento. Forse a quel punto il popolo
palestinese risponderebbe. Altra speranza non
c'è.
(31 marzo 2002)
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