COMMENTO

Solo Israele
può fermare Israele



di EUGENIO SCALFARI
 

E ADESSO che succede? Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha ingiunto, col voto favorevole degli Stati Uniti, ad Israele di ritirare le sue truppe dai Territori occupati. L'Unione europea e i singoli stati che ne sono membri avevano già inviato al governo Sharon stessa pressante raccomandazione. Il Papa prega e si adopera per la pace in Medio Oriente. La Lega araba e tutti gli Stati che ne fanno parte ha approvato il piano saudita: ritiro d'Israele da tutti i territori occupati nel 1967, nascita di uno Stato palestinese, riconoscimento del diritto all'esistenza dello Stato israeliano e pace in tutta la regione. Insomma il mondo intero sembra concorde nel consigliare, premere, imporre la tregua, l'armistizio, la pace infine tra due popoli che hanno ormai non solo le mani ma la mente e l'anima imbrattate dal sangue degli innocenti. Una strage che dura da mezzo secolo e anche più, dove di volta in volta e anche a distanza di poche ore i terroristi diventano i martirizzati. Riusciranno a sollevare la testa dall'immondo mattatoio che hanno costruito insieme e che insieme continuano a gestire, l'uno contro l'altro ma comunque solidali nel continuare ad appendere ai ganci di quel fazzoletto di terra chiuso tra il mare e il Giordano lembi di carne umana sostituendola con merce fresca un giorno dopo l'altro?

No, non riusciranno. Ormai lo sappiamo tutti e lo sanno anche loro: non riusciranno. Il disco della storia si è rotto in quel punto, tanti e tanti anni fa e ripete ormai lo stesso movimento, la stessa musica spezzata fatta di spari, lamenti, imprecazioni e pianto. Bisognerebbe spegnere il meccanismo, togliere quel disco rotto, impedire che la ripetizione coatta continui. I due protagonisti, i due solidali gestori del mattatoio e della reciproca strage che vi si consuma non sono in grado, costretti come sono a ripetere all'infinito le stesse parole e gli stessi gesti di morte.

Verrà dunque la pietà imposta dall'esterno? Il Papa, nel mezzo della "Via Crucis" del Venerdì santo al Colosseo, ha scongiurato con voce flebile per il dolore suo e del mondo: "Non fate come Pilato" . Voleva dire: "Non lavatevi le mani nell'acqua dell'indifferenza e della diserzione, non state a guardare senza muovervi, intervenite" . E si rivolgeva all'intero mondo circostante. Ebbene si sono mossi, sono tutti intervenuti, perfino Colin Powell la colomba americana dopo aver peraltro ricordato che Israele si difende dal terrorismo e quindi la sua azione non solo è inevitabile e legittima ma anche giusta. Sono intervenuti, non hanno fatto come Pilato. Come? Con le parole. Serviranno?

No, non serviranno a nulla anche perché con le parole intervengono da cinquant'anni sul conflitto mediorientale. I protagonisti non hanno mai fatto nessun conto delle parole che le Nazioni Unite gli hanno infinite volte indirizzato e le singole potenze, ciascuna per sé e l'Onu per tutti. I protagonisti sanno che alle parole non sono mai seguiti i fatti e mai seguiranno. Perciò il mattatoio continua, anzi le dimensioni della mattanza aumentano giorno dopo giorno. Mentre scriviamo mezzi corazzati di Tsahal si stanno ammassando ai valichi della striscia di Gaza e in Galilea attorno a Betlemme. A Ramallah interamente occupata Yasser Arafat è ridotto in tre stanze senza telefono né luce né acqua. Alle porte di quelle tre stanze ci sono i soldati di Tsahal con le mitragliette in pugno; fuori dal portone con i cannoni contro le finestre sfondate dell'ufficio dell'Autorità palestinese stazionano i carri armati d'Israele.

Non lo vogliono morto; vogliono che li preghi di arrestarlo perché tra poche ore quelle tre stanze saranno diventate un letamaio dal quale neppure le feci del presidente dell'Autorità palestinese potranno essere eliminate. Intanto Hamas e gli altri gruppi estremisti dell'Intifada lanciano i kamikaze a seminare strage nel cuore stesso della striscia d'Israele. Striscia d'Israele contro striscia di Gaza perché in realtà sono due lembi di terra sanguinolenta che si contrappongono: 25 chilometri di profondità più o meno misurano quelle strisce. Lì, in quei pochi palmi di terra, il demonio ha deciso di contrapporre la sua perversa volontà a quella di Dio. Il demonio ha oscurato la mente dei contendenti dell'una e dell'altra parte. Il demonio gioca alla guerra in quei pochi chilometri quadrati ma guarda più in alto perché lì, nell'incubatrice del Medio Oriente, sta crescendo il pericolo della guerra totale o - peggio ancora - del caos totale, della perdita di controllo, del furore contro la pietà, della follia distruttiva contro la ragione.

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Ma le responsabilità dei due protagonisti del mattatoio mediorientale non sono identiche. Non starò a cercare chi ha cominciato, chi ha tolto la terra a chi, chi deve fare ora il primo passo, in che cosa debba consistere lo scambio tra gli uni e gli altri affinché la pace e la convivenza finalmente possano regnare. Queste analisi sono state fatte infinite volte nell'ultimo mezzo secolo, ciascuna delle parti in lotta ha avuto ed ha i suoi avvocati difensori e i suoi pubblici ministeri d'accusa. Ormai il problema non è più quello, non interessa più nessuno salvo gli storici in erba che infine trarranno il bilancio e ognuno misurerà i pesi sulla bilancia propria e non ci sarà mai una misura che coincida con le altre. Il problema di oggi è soltanto quello di rispondere alla domanda che abbiamo posto all'inizio: e adesso che succede?

I consigli e gli ultimatum rivolti ad Arafat non servono a niente. Che cosa volete che faccia Arafat da quelle tre stanze puzzolenti di sudore e di escrementi? E' stupefacente che il segretario di Stato e il presidente della più forte potenza del mondo impongano al leader palestinese di fermare i kamikaze e arrestare i terroristi. Come, con quali forze, con quale motivazione? Gli elicotteri e i carri d'Israele bombardano da quattro mesi le sedi della polizia palestinese, ne distruggono i depositi, ne arrestano o ne uccidono i comandanti, impediscono i loro spostamenti, bloccano le vie di comunicazione. La più grande potenza militare del mondo è stata e continua ad essere beffata dallo sceicco Bin Laden e perfino dal mullah Omar, ma Arafat invece, con la sua kefiah che ormai sarà tutta un rammendo e un lerciume, dovrebbe far arrestare i membri di Hamas e i kamikaze che a getto continuo escono dai campi profughi imbottiti di plastico e di dinamite e vanno a farsi esplodere dove gli ebrei si divertono, pregano, vivono la loro vita non più normale.

Chi chiede questo ad Arafat parla di nulla perché non c'è assolutamente nulla che Arafat possa fare. Ma lo si può forse chiedere al governo d'Israele quello di arrestare la strage, lo si può chiedere a Sharon perché quello - cioè Israele - è uno Stato, uno stato democratico, istituzioni, magistratura, scuole, industrie, moneta, strutture sociali, Parlamento, politica estera, esercito, tecnologia, concerti, università, discoteche e bagni di mare. Si può chiedere al governo d'Israele di ritirarsi, di non rispondere più ai colpi che riceve, di accettare il piano del principe Abdullah? Gli si può chiedere. Gli è stato chiesto da tutto il mondo, l'Onu ha votato una risoluzione limitata al caso Ramallah ma non si contano le risoluzioni dell'Onu in materia. L'Europa è stata chiara. Gli Stati arabi sono stati chiari.

Ebbene, Sharon, il governo d'Israele, risponderà no come ha già risposto infinite volte. Dirà sì purché cessino gli attentati. Ma sì a che cosa? A riprendere il negoziato. Da dove? Dall'inizio. La restituzione delle terre occupate? Parliamone. Il rientro d'una parte dei profughi o almeno un indennizzo? Più difficile. Lo smantellamento degli insediamenti ebraici? Difficile ancora di più. Lo Stato di Palestina? Forse sì, a certe condizioni. Quali condizioni? Ci sono due possibili figure, due possibili geografie dell'ipotetico Stato di Palestina: una è quella d'un territorio con confini definiti e continui entro il cui perimetro un governo possa esercitare la sua sovranità vincolato alle pattuizioni e alle garanzie internazionali.

L'altra è quella di tanti piccoli cantoni separati gli uni dagli altri dagli insediamenti d'Israele, guidati da capi amministrativi, coordinati in qualche modo da un organo superiore. Di fatto un protettorato con ampie autonomie ma senza una politica estera e con un'economia subordinata, un dormitorio di pendolari, un mercato di piccolo consumo e di forza di lavoro. Ebbene Sharon punta su questa soluzione. Dice lo scrittore Yehoshua, pacifista e democratico: comunque, prima o poi avremo la pace perché la guerra non è una soluzione. Ben detto ma non vero. Avrete forse una pace finta ma continuerà un terrorismo vero perché quando un popolo non ha speranza non può che uccidere gli altri e se stesso. Qui lo fa alla lettera: uccide suicidandosi. Non s'era mai visto uno spettacolo simile, in nessun paese del mondo, perfino i kamikaze giapponesi erano un'altra cosa: militari che attaccavano altri militari in nome dell'imperatore. Qui un popolo si suicida per uccidere un altro popolo nel nome di Allah. La differenza è enorme.

Dunque Sharon dirà no oppure un nì in tutto eguale ad un no. Dal suo punto di vista non potrebbe fare altrimenti. Difatti, razionalmente si finisce per dargli ragione come ha fatto Colin Powell. Diverso sarebbe se gli Stati Uniti battessero il pugno. L'economia e soprattutto la sopravvivenza della struttura militare d'Israele dipendono dai dollari americani. Se gli Usa battessero il pugno forse Sharon dovrebbe piegarsi. Ma gli Usa non batteranno mai il pugno sul tavolo d'Israele e Sharon lo sa perfettamente. Se gli Usa non usano con Israele i cosiddetti argomenti persuasivi nessun altro al mondo può farlo. Non certo l'Europa che non si lava le mani come Pilato perché non ha neppure il potere che Pilato aveva. Non la Russia. Non gli Stati arabi. Non l'Onu. Dunque nessuno. Nessuno può obbligare Sharon e il governo d'Israele a fare quanto servirebbe per riportare la pace nella regione.

Conclusione: non c'è assolutamente nulla da fare se non assistere sbigottiti alla prosecuzione della mattanza con tutti i rischi che un fatto del genere comporta per i mattatori, i mattati (reciprocamente) e gli spettatori in gradinata. Salvo che...

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In realtà c'è un soggetto che potrebbe metter fine alla mattanza ed uscire dalla logica perversa della reciproca strage. Questo soggetto, l'unico soggetto possibile sulla scena, è il popolo d'Israele. Il popolo d'Israele ha il potere democratico d'imporre al suo governo di uscire dal mattatoio e di pagare i prezzi della pace. Il popolo d'Israele può scegliere - se lo vuole - un governo che esegua questa sua eventuale volontà. Soltanto il popolo d'Israele può decidere la questione. E se vuole che la decisione sia effettiva, deve farlo a larga maggioranza, la più larga possibile per non esser soggetta ai ricatti e ai veti dei gruppuscoli del fanatismo religioso.

Nessuno fuori d'Israele può esercitare pressioni efficaci e non controproducenti su quel popolo salvo un altro soggetto: le comunità ebree della diaspora. Ammesso (e tutt'altro che concesso) che quelle comunità, tra di loro e al loro interno, costituiscano un soggetto. Questo comunque è il solo filo di speranza per metter fine alla strage mediorientale: che il popolo d'Israele obblighi se stesso alla pace. Ma non nascondiamoci che si tratta d'un filo sottilissimo. Ciascuno di noi vede distintamente ciò che altri dovrebbero fare ma è cieco quando si tratta di se stesso. Il popolo d'Israele sarebbe veramente un popolo eletto se sapesse rompere questo universale comportamento. Forse a quel punto il popolo palestinese risponderebbe. Altra speranza non c'è.

(31 marzo 2002)