Il «riformismo intelligente» di Amato
di Pasquale Cascella

massima attenzione a questo articolo - GIULIANO AMATO - in poche parole avverte la CONFINDUSTRIA - che per sostenere la stessa bisogna offrire regole ed organizzazione del lavoro buone - perche' senza l'operaio che spende i suoi soldi - l'industria - non potra' avvalere la sua esistenza. UN BUON modo per dire che l'operaio non puo'essere sfruttato totalmente perche' questo altrimenti non puo' permettersi di comprare i prodotti per i quali lavora ed arricchisce il padrone.

Saprà mai se il suo sangue è arabo o ebreo? Giuliano Amato, nel libro "Tornare al futuro", racconta di aver appreso, da uno zio con la mania degli alberi genealogici, che la sua famiglia è approdata in quel di Agrigento nel sedicesimo secolo dalla Spagna. Da quella terra venivano espulsi gli ebrei, ma da lì si muovevano anche gli arabi. Ora, nel suo ufficio di senatore, si dice «cittadino italiano ed europeo», senza altra curiosità: «Che sia l’una o l’altra, ritengo entrambe le origini compatibili, o meglio: coerenti con quel che sono». Vale a dire, un riformista. E se proprio una aggettivazione serve: un riformista utile alla causa del «riformismo intelligente». Con qualche rimpianto, di cui il pamphlet edito da Laterza qui e là rivela, anche con il malcelato timore di passare per un «predicatore» (però «sia chiaro: io continuerò a predicare, e magari non solo a predicare», e l’affanno di chi sente tutto il peso del passato nella corsa verso il futuro.
Il traguardo è quanto mai ambizioso: una sinistra «che parli a tutti e che sia in grado di far crescere tutti». Per questo si mostra quasi infastidito dalle ricorrenti polemiche che tengono la sinistra al chiodo delle antiche divisioni: «Ho proposto, da tempo, che si arrivi pian piano a cancellare le vestigia del passato...». "Tornare al futuro" è apparso in libreria esattamente tra il congresso di Rifondazione comunista e quello dei Socialisti democratici italiani. Non è, però, la conversione antistalinista di Fausto Bertinotti a far rimangiare ad Amato il duro giudizio sui «molti amici» che «si sono tuffati nella fontanella rappresentata dal movimento no-global». Il giudizio, nel libro, è sferzante: «Solo in un paese che non ha chiare le sue coordinate di cultura politica ed economica, si può pensare che a vincere siano i Bertinotti, i Bové, gli Agnoletto». L’ex presidente del Consiglio lo ribadisce misurandosi proprie con le domande più profonde di quel movimento: la giustizia, la solidarietà, l’internazionalismo. «Fare proprie le aspirazioni non basta. Servono risposte. Che vengono necessariamente dal riformismo». Ecco la chiosa per Bertinotti: «Il ripudio dello stalinismo? Giusto. Il futuro non è il comunismo? Un passo avanti. Va tutto bene, ma se poi si teorizza una sorta di spartizione dei compiti, per cui lui è il movimento e io la vecchia politica, non ho nessuna remora a dire che non m’interessa. Perché sento come mio il compito di raccogliere anche da quel movimento le energie utili per costruire proposte realizzabili».
Adesso Amato si appresta a partire per il congresso dello Sdi. Discorso non facile quello da pronunciare a Genova, dove 110 anni fa nacque il Partito socialista. C’è da misurarsi con la storia di una diaspora di cui non si riesce «a voltare pagina». Ma se pure «le gambe non possono essere più lunghe della realtà», nemmeno il muoversi pian piano «può essere infinito». La voce ha un accento di delusione, anche se il vice presidente del Partito socialista europeo confida soltanto «il disagio di rappresentare entrambi i partiti riformisti della sinistra italiana, cosa che non capita più neanche ai compagni rumeni».
Tant’è. Nel libro Amato parla della sinistra alla sinistra. Una. Quella che ritrova nel suo dna l’utopia della «libertà di tutti e non di pochi». Se non ora, quando? Si è sostenuto che, con la caduta del comunismo, la storia è finita. Ma la «costruzione perfetta», nella quale comporre «armonicamente la democrazia, l’economia di mercato, lo sviluppo», non si vede. Quel che scorge il «dottor sottile», ora dall’alto del suo nuovo incarico europeo (è vice presidente della Convenzione per le riforme), è un mondo in subbuglio, sconvolto da cambiamenti che mettono a dura prova «i pilastri delle certezze precostituite». La racconta per metafore, questa realtà: la fettina di tacchino che, da un giorno all’altro, sostituisce la bistecca con l’osso, le lucciole la cui scomparsa era stata preconizzata da Pier Paolo Pasolini, il passaggio di Charlot dalla catena di montaggio dove stringere soltanto bulloni al computer dove lavorare con il cervello...
È «il mondo che ci aspetta», dal sottotitolo al pamphlet. Un mondo a due facce, spiega Amato: «Ci angoscia, è vero. Ci espone a rischi di cui non sappiamo da dove vengano, né con chi prendercela. Ma ci offre anche l’opportunità di cogliere il senso dell’ordine nuovo, per dirla gramscianamente». Già, Gramsci è un punto di riferimento continuo. Più del classico Machiavelli. O di Jean-Baptiste Colbert, il consigliere di Luigi XIV in cui Amato pare identificarsi per quella capacità di escogitare «un sistema produttivo interno che gli consentisse di esportare molto, portare la bilancia commerciale in attivo e con l’avanzo comprarsi le navi» che dovevano «rendere forte e potente il suo re dal punto di vista militare». Oggi non serve un progetto per costruire «navi o burattini». E nemmeno per moltiplicare «pani e pesci»: altri propagandano certi miracoli. Amato, semmai, laicizza una parabola, immaginando una sinistra che possa dire: «Lazzaro, alzati e cammina, perché io ho rimosso gli ostacoli che intralciavano il tuo cammino». Nel senso gramsciano, appunto, di una politica che trovi la chiave giusta e unificante, «che ci consenta di mettere insieme il Roma social forum con gli industriali del pellame delle valli lombarde»: quella della visione «della libertà nel nostro tempo». Egemonia, perché non dirlo? Amato questa paura non ce l’ha, anche se rappresenta lo stato della nostra democrazia con una immagine cruda, quella dei «poveri cristiani che all’epoca di Nerone venivano legati con le braccia a due cavalli che andavano in direzione opposta». Né è per prendersi una rivincita che ricorda le incomprensioni a quel richiamo del ‘93, all’atto delle dimissioni del suo governo dopo il referendum, a non cedere all’illusione «che in fondo basta liberarsi della proporzionale, darsi una legge maggioritaria e - voilà - avremmo avuto una democrazia nuova di zecca». È che è la sfida «di come dare rappresentanza ai tanti individui che hanno preso il posto delle masse» deve essere ancora vinta. Propone l’interrogativo, l’ex premier - «Come si fa a far nascere un "noi" dai tanti "io" in cui oggi si articolano le nostre società?» - ma di una cosa è sicuro: «Solo la sinistra può far prevalere gli elementi positivi dell’ordine nuovo. La destra può anche raccogliere qualche successo elettorale con la sua capacità di aggregare per sentimenti ed emozioni, ma il prodotto del populismo non è un’organizzazione collettiva che funziona bensì l'esplodere dell’ostilità degli uni contro gli altri».
Per questo Amato insiste sulla necessità di riflettere sul dove la sinistra di governo ha «fallito»: «La nostra inadeguatezza non è stata di non aver trovato soluzioni, ma piuttosto di non essere stati capaci di misurare queste soluzioni con la realtà diversa che ci trovavamo dinanzi, di metterle a fuoco sulla base degli effettivi bisogni della gente». Ecco, la «missione» da recuperare. Senza «tentazioni faustiane del XX secolo». Ma anche «diffidando dalle imitazioni». Amato è convinto che la sinistra possa arrivarci alle soluzioni «perché ha con sé una grande arma: l’aver saputo, nei decenni, costruire una vera classe dirigente». Pci compreso: «Era sbagliata l’ideologia, ma non la funzione etico-sociale: non gettiamo il bambino con l’acqua sporca». Ed è alla capacità di tornare a muoversi, insieme, che Amato affida anche il proprio futuro: «Io non entrerei mai in una clinica nelle quali c’è soltanto uno splendido primario. Preferirei, piuttosto, un ospedale dove di sicuro c’è un buon primario, ma c’è anche una solida équipe». Con la speranza di vedere «i socialisti tutti insieme nella Casa comune dei riformisti».