Snatch: lo
strappo - di Guy Ritchie
"Il turco" e Tommy programmano un incontro di
boxe clandestina contro un
uomo di "Testarossa", temutissimo boss della
malavita. Franky 4 dita si
ferma a Londra in attesa del suo ritorno a New York per
vendere al
cugino Avi un diamante rubato. Boris la lama vuole il
diamante, e
coinvolge due scalcinati criminali di colore. Tutte le
storie,
cominciano ad intrecciarsi...
Strano mondo quello del cinema americano: si prende un
film (gia' in
lingua inglese, che se fosse straniero la cosa sarebbe
meno strana) che
ha incassato discretamente, lo si fa girare nuovamente
allo stesso
regista (che se nel frattempo si sposa pure con una
rockstar e' meglio,
per gli incassi), con gli stessi attori, aggiungendo Brad
Pitt e Benicio
del Toro, ed ecco che questa "nuovissima"
pellicola guadagna 10 volte
tanto quella precedente.
Perche' "Snatch" in fondo non e' altro che
questo: una copia di "Lock &
Stock" con l'aggiunta di due degli attori del
momento. La copia di una
copia quindi, cioe' di un film che faceva del suo
tarantinismo di
facciata (prendendone cioe' solo gli elementi esteriori,
senza tutta la
ricerca che ci sta dietro) l'elemento portante. E chissa'
se e' un caso
che una delle trovate piu' divertenti del film (i maiali
mangiauomini),
sia gia' apparsa nel, pur brutto, "Hannibal"...
Nulla toglie, certo, al fatto che il film sia comunque
ben recitato,
divertente, e nel complesso godibile. Certo che, per un
regista al suo
secondo film, dimostrare una carenza di idee cosi' enorme
non e' certo
un buon biglietto da visita. Ma a parte questo i soldi
sono ben spesi,
perlomeno se non avete gia' visto "Lock &
Stock" o se lo avete amato
alla follia.
--
I
cavalieri che fecero l'impresa - di Pupi Avati
1271: Luigi IX, re di Francia, muore sotto le
mura di Tunisi. In
conseguenza di questo funesto evento 5 cavalieri si
trovano riuniti in
una comune impresa: recuperare la Sacra Sindone.
"I cavalieri che fecero l'impresa" e' un film
coraggioso. Coraggioso
perche', a costo di rimanere senza un pubblico, unisce
elementi
eterogenei tra loro (le battaglie spettacolari, le
tematiche religiose,
le immagini splatter) per formare un insieme che puo'
essere apprezzato
solo da pochi. E perche' affronta le tematiche religiose
senza schierasi
in alcun modo, rappresentando l'epoca come un periodo di
forti
contraddizioni.
Peccato pero' che, a fronte di questo coraggio, non ci
sia
un'altrettanto efficace capacita' registica e narrativa
(e questo e'
strano, visto che Pupi avati si e' sempre dimostrato
perlomeno un solido
mestierante, quando non un buon regista) e che i difetti
e gli errori
siano tanti e tali da affossare un'opera che sulla carta
si dimostrava
un ulteriore passo dell'Italia verso un cinema meno
provinciale. La cosa
che salta subito all'occhio e' come i personaggi, di
diverse
nazionalita' (francese, inglese, greca) riescano tutti a
capirsi
perfettamente parlando un unica lingua senza problemi di
sorta. Gli
attori sono troppo belli e curati per essere credibili
nella parte di
cavalieri medievali, e spesso si trovano spaesati sulla
scena (unica
eccezione un bravissimo Raoul Bova: ma si sa che avati,
se ha un merito,
e' quello di riscoprire attori sottovalutati). Molte
scene, e molti
personaggi sono inutili ed inutilmente simbolici
(inspiegabile il breve
incontro con una bellissima ragazza in un giardino in
Grecia, totalmente
inutile ai fini narrativi e assolutamente non motivato),
e alcuni
tormentoni (la lunga sequenza di catture ed evasioni)
rendono la
pellicola ripetitiva e noiosa. E come se non bastasse le
stesse
situazioni sono spesso inverosimili in se' stesse, con
errori di una
banalita' disarmante (in un cunicolo buio un manipolo di
soldati non
notano i cavalieri muniti di torce nascosti a pochi
metri)
A volte sorge il dubbio che Pupi avati ci abbia fatto un
pesce d'Aprile
(come quando scopriamo che il nome di uno dei cavalieri
e' AldoGiovanni
Giacomo, troppo simile al nome del trio comico per poter
essere una
coincidenza), tanto gli errori sono palesi: nel caso,
tanto di cappello,
ci siamo cascati tutti; solo la prossima volta, signor
Avati, veda di
farci uno scherzo meno costoso...
Notizie dal
Far East Film Festival
Sembra ormai una maledizione
per me, quella di riuscire a non vedere i
film che vincono ai Festival del Cinema. E quindi ecco
che dopo un paio
di Festival di Venezia, un festival di Cannes e lo scorso
Festival di
Udine (scusato pero', in quest'ultima occasione, da una
repentina
allergia per i leggerissimi cibi friulani che mi ha
costretto a dare
forfait a pochi giorni dalla fine) anche in questa
occasione mi perdo il
fim vincitore: quel "The foul king" che tutti
dicono essere
divertentissimo e che spero di riuscire a recuperare a
breve.
E tutto questo sebbene sia riuscito a vedere ben 42 film
sui 54 che
sarebbe stato possibile al massimo vedere.
L'organizzazione
Il Far East Film Festival si rivela sempre piu' come via
di mezzo tra
amatorialita' e professionalita': molto ben organizzato
per essere un
festival di medio livello, con troppe pecche per essere
un festival di
portata internazionale.
Innanzitutto e' impensabile, per un festival con grandi
aspirazioni,
predisporre il programma completo sul sito Internet (che
tra l'altro, ha
inspiegabilmente cambiato grafica per 3 volte in un mese,
e che ancor
oggi contiene sezioni non completate) il giorno prima
dell'inizio delle
proiezioni: non e' possibile pianificare visioni, arrivi,
partenze,
bisogna andare alla cieca sperando bene.
Le traduzioni simultanee in cuffia non sono sempre di
ottimo livello,
segno che alle traduttrici non viene dato tempo
sufficiente per studiare
il testo. Certo e' che sarebbe auspicabile, fondi
permettendo, avere
sottotitoli elettronici in lingua italiana, in ogni modo
molto piu'
efficaci della traduzione in cuffia.
Non tutti i proiezionisti, evidentemente, non sono
all'altezza. Non e'
ammissibile, e questo nemmeno in un festival minore, che
vengano
proiettati film visibilmente fuori quadro ("Lotus
Lantern" e' l'esempio
che prima mi viene in mente, con teste dei personaggi
costantemente
fuori dallo schermo), e che nessuno se ne accorga. Essere
un
proiezionista non vuol dire semplicemente saper far
funzionare un
proiettore, significa anche saper montare un film in modo
che tra una
giunta e l'altra il film non vada fuori quadro (vi e' mai
capitato di
notare che a volte il fotogramma del film,
improvvisamente, si "sposta"
scentrando l'immagine?) e, nel caso succeda, accorgersene
tempestivamente e correggere l'errore. E' vero che il
budget di un
festival non sempre permette tutto ma, visto che non e'
possibile a
priori valutare tutti i proiezionisti con sicurezza,
sarebbe
FONDAMENTALE avere in sala a tutte le proiezioni una
persona veramente
competente che si accorga di questi errori e dica
all'operatore di porvi
rimedio (trovando i soldi magari invitando un ospite in
meno...).
L'idea di far funzionare il festival su due sale non si
rivela certo
vincente, sia perche' i film si sovrappongono, a volte
anche in maniera
assurda (come scegliere tra "Bullets over
Summer" di Wilson Yip e "From
the chief to the queen executive" di Herman Yau,
senza tirare la famosa
monetina?), non permettendo una visione globale delle
opere, sia perche'
il cinema ferroviario e' inadeguato per numero di posti
(ho visto spesso
gente rimanere in piedi) e per struttura (pavimento
piano, con file non
alternate, precludono la visione dei sottotitoli a tutti
quelli che si
trovano davanti una persona di statura media) ad ospitare
una
manifestazione di questo tipo.
Inspiegabile poi la decisione degli ultimi giorni di far
uscire tutti
dalla sala tra una proiezione e l'altra, di sera.
Inpiegabile perche'
attuata a festival gia' iniziato, ed inspiegabile perche'
non mi sembra
di aver mai visto la platea talmente piena da
giustificare una soluzione
del genere (almeno una decina di posti [i peggiori, ad
onor del vero]
rimaneva sempre sgombra).
Niente da far gridare allo scandalo certo, ma comunque
particolari da
rimettere a posto per riuscire finalmente a diventare
festival di
qualita'.
I film
Niente da eccepire sulla scelta dei titoli anche perche'
la parte
artistica di un Festival e', e deve rimanere, decisione
insindacabile
dei suoi organizzatori.
Guardando una dose cosi' massiccia di film popolari
orientali la cosa
che piu' balza agli occhi e' l'estrema consapevolezza
cinematografica
del pubblico orientali: quasi tutti i film, anche quelli
con incassi da
record, presentano strutture complesse. con flashback
difficili da
ricostruire, cesure narrative, salti temporali, che
rendono la visione
stimolante ma al tempo stesso difficile. In occidente,
probabilmente
abituati da un secolo di cinema americano, dove tutto
viene spiegato per
filo e per segno, il grande pubblico non riuscirebbe mai
ad entrare in
questi complicati meccanismi narrativi: e forse e' per
questo che,
nonostante si producano film popolari di ottima qualita',
il cinema
orientali rimane da noi un prodotto tipicamente
d'essai...
I film filippini, a cui il festival dedicava un'ampia
retrospettiva,
sono difficilmente giudicabili. Soprattutto perche'
relegati per la
maggior parte al Cinema Ferroviario, sovrapposti a film
sulla carta ben
piu' interessanti nella sala principale (e qui apro una
parentesi, per
lamentarmi dello scarso coraggio mostrato
dall'organizzazione: non si
puo' dedicare una retrospettiva cosi' massiccia ad una
cinematografia
minore e poi rendere i film virtualmente
"invisibili" a chi voglia
godersi anche le altre sezioni del festival). "The
woman of mud" horror
che ha mobilitato un ingente numero di persone e ha
dimostrato
l'inadeguatezza della sala del Ferroviario, e' comunque
uno splendido
esempio di trash-cult: uno di quei film in cui le carenze
registiche e
recitative sono talmente evidenti da permettere di
divertirsi a chi
ancora vede il cinema come uno spettacolo da non prendere
necessariamente sul serio.
Shangai, che si favoleggiava essere come la Hollywood
cinese, in realta'
produce film con pochi mezzi e poca inventiva, prodotti
di serie Z del
tutto inadatti ad un pubblico internazionale. "Crash
Landing", remake di
"Airport" e' imbarazzante a dir poco, con
dialoghi banalissimi, effetti
speciali visibilmente fasulli e una valanga di errori di
continuity .
"Greeting 2000", romantica commedia
generazionale con attori anche bravi
(Jordan Chan su tutti), riesce comunque ad essere noioso
ed
inconcludente. "Tragedy on and off the stage" e
"Lotus Lantern" si
dimostrano efficaci dal punto di vista narrativo (ottimo
wuxiapian [film
cappa e spada, potremmo tradurre generalizzando molto] il
primo, bel
cartone animato basato su leggende cinesi il secondo), ma
crollano anche
loro sul fronte della realizzazione tecnica, con immagini
dai colori
spenti e montaggio inadeguato. C'e' ancora moltissima
strada da fare...
Dal resto della Cina arrivano pellicole molto piu'
convenzionali, che
non si arrischiano nel territorio del cinema di genere.
Se pero' le
coloratissime immagini di un "Song of Tibet"
(che sono riuscito
purtroppo solo ad intravedere) valgono tutto un Festival,
e il
divertente "Steal Happiness" sembra evere il
plauso incondizionato del
pubblico (tanto da arrivare al terzo posto nelle
preferenze), i
rimanenti film passano in maniera piuttosto incolore,
presto dimenticati
in una memoria in cui si affastellano le ben piu'
interessanti immagini
degli sfrenati action movie hongkongesi.
Su Singapore e Thailandia si puo' dire poco: troppo pochi
i film
presentati. Eccezionale comunque "Chicken Rice
War", totalmente parlato
in singlish (l'inglese di Singapore) e che si pone come
parodia
intelligente e non banale del "Romeo and
Juliet" di Baz Luhrman. E
divertente il thailandese "The iron ladies",
storia vera di una squadra
di pallavolo maschile formata da travestiti che riesce a
vincere il
campionato nazionale.
Il Giappone si dimostra patria dell'eclettismo:
"Cross fire" e "Persona"
ribadiscono ancora una volta la sopravvalutazione del
cinema horror
giapponese, che vive di rendita su 2 o 3 titoli di culto
prodotti negli
ultimi anni, con un'appena sufficiente storia sui poteri
esp ed uno
sprecatissimo thriller sul tema delle maschere, dove dopo
uno splendido
inizio si mescolano Dario Argento e i Vanzina di
"Sotto il vestito
niente" in un turbinio di banalita' che rovina, e
contraddice, le
speranze iniziali. "Whiteout" e' l'ennesimo
tentativo orientale di
produrre l'equivalente dei film catastrofici americani
(vedi anche il
coreano "Shiri" presentato a Udine lo scorso
anno): una pellicola
sufficiente ma nulla piu', a dimostrazione che ogni
cinematografia
riesce meglio nei suoi prodotti piu' tipici ed
assimilati. "Space
travelers" (continuo ad essere perplesso sul titolo,
in cui "travelers"
viene scritto con una "l" sola... ma tant'e',
quella giapponese e'
un'altra cultura...) conferma lo straordinario talento di
Katsuyuki
Motohiro, che gia' aveva realizzato qualche anno fa il
bellissimo
"Bayside Shakedown" (disponibile in VCD o DVD,
per chi fosse
interessato): la fantasia giapponese si mescola al ritmo
tipico delle
action-comedy hongkongesi, fino ad un finale veramente
notevole.
"Ekiden" e "Spellbound" si presentano
come efficacissimi spaccati della
societa' giapponese: il primo utilizzando i toni della
commedia amara
per parlare dello spirito competitivo giapponese, in una
storia su un
gruppo podistico; il secondo narrandoci di un'inchiesta
di corruzione
che stravolge la vita e il lavoro dei dirigenti di
un'importantissima
banca. Concludiamo con il vero capolavoro del festival,
quel "Monday"
che dimostra una volta di piu' l'eccezionale bravura
registica di Sabu,
uno dei registi giapponesi piu' sottovalutati, autentico
maestro alla
pari di Kitano nel costruire storie surreali, tragiche e
commoventi allo
stesso tempo, con in piu' la capacita' visionaria di un
David Lynch
dagli occhi a mandorla.
La Corea dimostra di essere totalmente incapace di
produrre film
drammatici che non siano necessariamente lenti e privi di
spessore:
"Happy end", "A masterpiece in my
life", "Pisces", "I wish I had a wife
too" sono tutti, chi piu' chi meno, noiosi ed
estenuanti. I personaggi
si muovono, spaesati, tra intrecci non sempre
comprensibili e poco
interessanti, rendendo le pellicole luogo ideale per
addormentarsi e
riacquistare un po' le forze per la visione successiva.
Si migliora, e
di molto, col melodramma: "Ditto" e "Il
mare", film simili ed
antitetici, entrambi storie d'amore fantasy tra persone
che vivono in
tempi diversi, trattano gli stessi temi in maniera
diversissima: "Ditto"
si pone come prodotto giovanilistico, quasi assimilabile
ai migliori
film da college americani (con un finale, pero', che in
America si
sognerebbero), mentre "Il mare" punta sulla
fotografia e sui tempi
dilatati tipici del cinema orientale. "Plum
blossom", pellicola
sentimental-giovanile che in alcuni punti ricorda il ben
piu' blasonato
"Krampack", sta in mezzo tra i due: a volte
leggero a volte piu'
intenso, rappresenta in maniera piu' che degna un certo
tipo di cinema
impegnato ma non troppo che ai Festival e' sempre il
benvenuto.
"Nightmare", splatterone di mezzanotte, e'
fiero appartenente del filone
sui serial-killer rinverdito dall'americano
"Scream", con un tocco
metafisico che non guasta e che rende la pellicola
godibile per gli
appassionati del genere. Il thriller d'azione
"Libera me" si infila
nella scia di "Whiteout" e di
"Shiri", e di questi ha gli stessi pregi e
difetti: ottimi effetti speciali ma intrecci non sempre
all'altezza.
"Joint Security Area" e' uno dei capolavori del
festival: un dramma
psicologico-militare che dietro una partenza un po' in
sordina nasconde
una struttura da manuale e una caratterizzazione dei
personaggi
perfetta. E' l'esempio lampante di tutto quello che il
cinema americano
non riesce a mettere in piedi e, anche, l'esempio
lampante di quello che
si diceva all'inizio: e' incredibile come un film dalla
trama cosi'
complessa da seguire possa essere balzato in testa agli
incassi in
Corea. Di "The foul king" posso solo prendere
atto dell'unanime
apprezzamento visto che, come gia' detto, non sono
riuscito a vederlo...
Hong Kong, infine, rimane sempre Hong Kong: nazione dai
mille volti,
patria di film notevoli e di produzioni dozzinali, si
dimostra ancora
una volta la Hollywood d'oriente, con pellicole che, se
girate con
attori occidentali, potrebbero sicuramente fare incassi
miliardari a
livello mondiale. L'unico film veramente brutto alla fine
e' l'atteso
"Sausalito": atteso perche' diretto dall'ottimo
Andrew Lau (regista di
"Born to be king" e "The duel",
presenti anch'essi al festival) e
interpretato dalla grandissima Maggie Cheung; una storia
d'amore dai
presupposti neanche malvagi viene trasformata in una
sfilza di riprese
degli attori in controluce, capelli al vento, con effetto
videoclip. Se
"Sausalito" puo' essere paragonato al fiacco
"Se scappi ti sposo",
"Summer Holiday" puo' rappresentare la
controparte, per ritmo e simpatia
degli attori, di "Notting Hill": e' una
commedia romantica, leggera
leggera, in cui si ride senza troppe pretese. Anche
"Okinawa
rendez-vous" tocca le corde della commedia
sentimentale, mischiandola a
un intrigo poliziesco, ma non riesce nel tutto
dell'impresa,
impantandosi piu' volte in momenti di totale apatia.
"Twelve nights"
ricorda molto nella struttura il notevole "Storia di
noi due", dramma
sentimentale interpretato da un Bruce Willis e da una
Michelle Pfeiffer
in gran forma, con toni pero' piu' da commedia, e riesce
nella difficile
impresa di essere allo stesso tempo intelligente e
divertente. Ma la
vera sorpresa del festival e' il regista Johnny To che,
in coppia col
fido Wai Ka-fai ed avendo abbandonato le tematiche
action-noir dello
scorso anno, sforna 3 commedie diversissime tra loro ma
tutte al top:
"Needing you..." e' forse una delle piu'
divertenti commedie
sentimentali della storia del cinema, con battute da
ricordare e
personaggi che rimangono impressi a lungo (Sammi Cheng si
dimostra
insospettabilmente brava, oltre che bella);
"Help" e' un film demenziale
sul tema ospedaliero, incrocio inverosimile tra E.R.,
"Una pallottola
spuntata" e "Il regno", in cui e'
difficile smettere di ridere; "Wu Yen"
e un vero e proprio delirio, un film in costume con
scenografie
visibilmente artefatte in cui 3 bravissime attrici (tra
cui spicca la
Sammi Cheng di cui parlavamo prima) interpretano parti da
uomo e da
donna, rincorrendosi senza sosta in battaglie e
scaramucce verbali che
non possono non mandare in visibilio gli appassionati di
wuxiapian. Ed
e' facile fare il confronto con "The Duel", che
si pone nello stesso
filone ma con una verve di gran lunga inferiore,
rimanendo un discreto
film d'intrattenimento ma senza le trovate geniali che
caratterizzano la
pellicola di Johnnie To. Sul versante puramente
drammatico si e' visto
poco, ma quel poco e' di ottima qualita': "Juliet in
love", senza troppi
fronzoli, costruisce una storia d'amore che poco ha da
invidiare ad
analoghi lavori del cinema europeo contemporaneo. Gli
intrecci
polizieschi come sempre la fanno da padrone, con tre film
di buon
livello: "Born to be king", il migliore dei 3,
e' il sesto capitolo
(settimo, includendo anche il prequel) della saga di
"Young and
Dangerous" (e adesso non vedo l'ora di vedere gli
altri capitoli),
storia a volte dura a volte sorprendentemente tenera di
un gruppo di
amici appartenenti alle triadi (la mafia cinese) e della
loro lotta per
sopravvivere agli intrighi di potere; "Clean my name
mr.Coroner" si pone
negli standard del cinema di Hong Kong, con un intrigo
poliziesco ben
costruito e una coppia di protagonisti ben assortita;
"Marooned" e' in
bilico tra gangster-movie e love-story, ma riesce sempre
a mantenere un
buon livello e costruisce un finale che, se per un film
americano
sarebbe banale, per il cinema di Hong Kong costituisce un
piacevole
diversivo. Ultime, ma non ultime, le due esplosive
action-comedy
"Skyline cruisers" e "Tokyo Raiders":
un po' meglio la prima, se bisogna
fare un paragone, ma tutte e due splendidamente
realizzate, con
combattimenti divertenti ed un ritmo piu' che frenetico.
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