FRASTUONO E SILENZIO

Di Pietro Simiele

S’è in molti a scrivere, e la questione è spesso risolta in mera polemica letteraria. C’è chi lamenta i molti improvvisati, se si buttano in una attività difficile, senza neppure le dovute basi tecniche, chi ritiene che democraticamente tutti abbiamo diritto, perché no, anche a essere pubblicati, a fare il proprio libro; sottesa a questa "querelle", v’è la situazione quasi paradossale che pochi o nessuno legge, e di ciò entrambe le parti contendenti sono coscienti, e se ne lamentano.

Quanto alla polemica letteraria, io la sbrigo così: esiste una letteratura minima, fatta da chiunque scrive, che può essere interessante, almeno per quanto si può, conoscere; perché, se è vero che solo il genio ti apre lo sguardo a tutto l’orizzonte, pure la strada d’un quartiere la chiedo all’abitante del posto, non al grand’uomo che sia, come me, forestiero.

Riguardo alla pubblicazione, è tempo, ne tratterò più avanti, di ripensere al suo significato, e di distinguerlo da quello di edizione, su cui è troppo schiacciato.

Per uscire fuori da questa polemica di piccolo cabotaggio letterario, minima come la letteratura di cui tratta, credo occorra cercare la necessità di scrivere in un ambito più vasto, dare a questa pratica un minimo di respiro sociale.

Oggi, è fin troppo ovvio, viviamo in tempi di parola parlata, e persino la parola scritta, basti pensare ai giornali, vuol essere soltano l’arsenale da cui attingono coloro che la parleranno, cioè aspira a essere, vuole risolversi anch’essa in parola parlata. Tutto è parola parlata, viene alle orecchie, si impone a noi, ci strattona da noi stessi, diventa inquinamento acustico, assorda.

Per sfuggire a questo destino, la parola scritta deve essere parola silente, linguaggio di sordomuto (tali siamo nel frastuono), deve rinunciare a ogni aspirazione di imporsi, affinché qualcuno la parli, la trasformi in assordamento. Avete mai visto dei sordomuti parlare? Il loro linguaggio di gesti, spesso velocissimi, esprime una tensione estrema, che noi non sappiamo più dare alle nostre parole, eppure basta distogliere gli occhi, per esserne liberati: la volontà di essere investiti da quelle parole è nostra, e se non vogliamo, non avremo di esse alcun indizio, basterà indirizzare altrove lo sguardo.

È questo il modello che io credo, almeno alcuni di noi, consci o non consci, hanno nello scrivere, come reazione e rifiuto del frastuono, dell’assordamento.

Certo, esiste un segno scritto che diventa super segno parlato, acquistando fino al parossismo la qualità dell’altro, cioè l’invasione dello spazio, come vedo oscenamente fare, per esempio, dal frastuono dei tanti cartelloni elettorali (la ripetizione ossessiva dell’immagine sostituisce la diffusione violenta del suono), i cui tanti insulsi messaggi possono ridursi a quest’unica domanda, in chi è costretti a vederli: "che cazzo avete da ridere?"; ma questo è il modello pubblicitario, quello che definisce le sue frasi "slogan", urli di guerra, esattamente opposto al modello sordomuto.

E qui viene utile una riflessione sul termine "pubblicazione", e su chi, come in internet, sperimenta forme nuove (o antiche) di farla. Al contrario del segno pubblicitario, la parola silente deve occupare il minimo spazio possibile, solo quella utile a essere visibile, come un sordomuto occupa solo lo spazio preso dal suo corpo, offrendosi, e non imponendosi all’attenzione altrui. La volontà di comunicazione, che pure va soddisfatta, deve porsi un esempio di pubblicazione che sempre meno può essere un libro (tanto meno uno accompagnato da battage pubblicitario, in cui il lettore è la preda stanata dai battitori, e inquadrata nel mirino dell’autore cacciatore), ma piuttosto deve pensare a forme di pubblicazione diverse, come, per esempio, quelle matrimoniali in comune. Esse sono lì, a disposizione pubblica (ciò significa etimologicamente questo termine), e chi vuole, se ne informa, e chi no, neppure le nota.

Questo è ciò che, a mio avviso, deve essere un sito internet che pubblichi testi scritti: una bacheca di parole silenti, che si offrono solo a chi voglia sentirle parlare, altrimenti preferendo il destino di essere mute, piuttosto, sorte peggiore, di assordare e assordarsi nel frastuono generale.

Oggi scrivere più deve essere parlare meno (bisogna che questa coscienza si allarghi), rinunciare alla pretesa di essere ascoltato, accettare in prima istanza il destino del silenzio, perché l’ascolto può e deve venire, per quanto improbabile sia, soltanto dal lettore che volutamente ponga attenzione a ciò che lo scritto silenziosamente dice.

È questo il piccolo merito sociale che può dare dignità, a mio parere, alla pratica diffusa della scrittura privata, al di là del suo valore letterario, che può essere anche molto debole.