Giuseppe
Sinopoli, l'ultima intervista
I difficili rapporti fra il direttore d¿orchestra
siciliano e l'establishment culturale di Roma. Ma
soprattutto il suo lungo rapporto con le opere e gli
artisti. Un paio d'anni fa l'Espresso intervistò
Giuseppe Sinopoli sulla sua eclettica carriera. Una lunga
conversazione che oggi ripubblichiamo di Riccardo Lenzi - da
l'espresso.
L'arrivo di Giuseppe Sinopoli
nello stantìo mondo musicale romano ha creato non pochi
grattacapi alle maestranze dell'Opera e qualche sconcerto
nella stampa specializzata e nel pubblico della buona
borghesia. Le sue iniziative decisioniste (sostituzioni
di orchestrali con elementi esterni, conferenze
stampa-monologo) hanno ridisegnato il mito del
direttore-dittatore, da noi assente dagli anni Cinquanta,
quando Herbert von Karajan furoreggiava alla Scala di
Milano (ma persino un artista di quella tempra fu ridotto
a mal partito dalla burocrazia e dalla stampa nostrane,
che lo costrinsero alla fuga e al suo rifiuto definitivo
di ritornare in Italia).
Recentemente
l'onorevole Domenico Gramazio di An, in una decina di
interrogazioni parlamentari ha contestato la sua nomina a
supervisore del Teatro dell'Opera. Ha criticato certe
scelte di programmi, gli atteggiamenti. Il maestro
siciliano ha una risposta da inviargli?
«Bah, in generale con questo tipo di polemiche non ci si
muove nell'ambito della buona fede intellettuale. Si
procede piuttosto per manipolazioni. Ad esempio questo
"Oro del Reno" e questa "Walkiria"
erano già state decise e organizzate da Sergio Escobar,
il precedente responsabile della programmazione. Per un
giudizio più obiettivo bisogna tener conto che questi
spettacoli hanno quasi registrato l'esaurito, con una
frequenza superiore agli altri delle ultime stagioni. La
Tetralogia mancava nel massimo teatro della capitale da
quarant'anni: un suicidio culturale indifendibile,
considerando ad esempio la nostra entrata nell'Europa
politica. S'immagini che cosa accadrebbe se a Monaco non
si eseguisse Verdi? Comunque, ricordo con Seneca che non
si può essere offesi da persone che non siano del tuo
livello. Del resto da Gramazio ha preso le distanze pure
Gianfranco Fini, che al contrario ho trovato sensibile
alle sorti del teatro».
Già,
il rapporto con i politici. Alla prima della
"Walkiria" si è presentato anche il ministro
della Cultura Giovanna Melandri. Le va già meglio che a
Riccardo Muti, le pare?
«Ho un buon feeling con lei, senz'altro migliore di
quello che avevo con il suo predecessore, Walter
Veltroni. La mia legge sulla materia è questa:
esclusivamente rapporti personali, niente
strumentalizzazione politica. Ad esempio ho un simile
legame di stima con una personalità dello schieramento
contrapposto: Gianni Letta, esperto di musica».
Del
resto anche la sua formazione è eclettica: dalla
reinterpretazione marxista di György Lukács
all'antimodernismo neopagano di Julius Evola...
«Fino al filosofo tedesco Ernst Bloch: un incontro che
ha colmato i miei passi mancanti e il tentativo di
recuperare l'idea di un umanesimo marxista. Con le oneste
contraddizioni di un pensatore che, formatosi su Marx, ha
superato il materialismo e la pietrificazione del potere
dello Stato, mettendo l'Uomo al centro di tutto».
Parliamo
della sua attività artistica. Forse quello con il
soprano Mirella Freni nel nome di Puccini ("Manon
Lescaut", "Madama Butterfly",
"Tosca") è stato il sodalizio più lungo e
fruttuoso?
«Quanti ricordi: Vienna, la tournée in Giappone.
Mirella aveva già inciso la "Butterfly" con
Karajan. Mi disse, prima dell'inizio delle prove, che per
lei rifarla sarebbe stata una vera impresa. "Mi
commuove troppo", si giustificò. Mi pareva
esagerata. Ma quando iniziammo a registrare capii:
dovemmo ripetere le sedute decine di volte, e tutto per
l'enorme carica emotiva che la piegava, affliggeva,
conturbava. Un'artista di grande onestà morale,
disponibile a cercare nuove vie interpretative, nuovi
orizzonti culturali. Solo il baritono Renato Bruson ha
una simile capacità di far coincidere l'espressione con
la parola, la esplora con tutta la carica semantica che
vi è contenuta. E ciò non è dovuto a un lavorìo
intellettuale, ma a un istinto privilegiato».
Sempre
a proposito della "Butterfly", ma la
sottolineatura potrebbe valere per tutta la musica del
lucchese e le sue interpretazioni, Enzo Siciliano scrive
che vi è predominante una «melodia irrisolta di temi
che si fermano estaticamente su se stessi, cellule mai
soggette a divenire ma a distruggersi».
«Puccini rappresenta il corrispettivo dell'indagine
espressionista trasportata nel sistema borghese italiano.
I suoi sono sentimenti e motivi forti, originari, ma non
letti astoricamente come Verdi. Piuttosto trasportati
espressivamente nell'ambito delle piccole relazioni
borghesi. Tosca è una donna fragile alle prese con i
suoi amanti. Al contrario, i verdiani Don Carlos e
Elisabetta sono l'archetipo dell'amore, valido in ogni
luogo e in ogni tempo. In questo contesto comprendo la
simpatia che Arnold Schönberg aveva per Puccini: quegli
stessi argomenti stimolavano, nella borghesia tedesca,
l'indagine freudiana. Il parallelo fra Verdi e Puccini è
fondamentale, come quello fra Wagner e Richard Strauss.
La "Salomè" di quest'ultimo riunisce la
sensualità morbida e coloristica di un Gustav Klimt
avvolta su quella aspra ed essenziale d'un Egon Schiele.
Eccovi tracciate le coordinate dei miei interessi. Wagner
e Verdi vi rappresentano il momento universale. Strauss e
Puccini l'adattamento degli archetipi alla storia e alla
società».
Nella
sua versione della Quinta sinfonia di Mahler il celebre
"Adagietto" ha un'impronta insolitamente
ottimistica. Concezione ben diversa ne ebbe Luchino
Visconti in "Morte a Venezia" o, tanto per
restare fra i direttori, Bernard Haitink, che ne fanno
quasi la rappresentazione del disfacimento organico.
«L'ho interpretato nel rispetto della biografia
mahleriana. Quando l'autore scrisse questo brano il
rapporto con sua moglie Alma stava attraversando un
momento idilliaco, sereno, di dolcezza ineffabile.
Accettò allora di buon grado una correzione che lei fece
all'inizio del movimento. Certo, in sottofondo vi si
sente molto di quel "senso della perdita" così
caratteristico della poetica mahleriana. Ma è un'altra
cosa rispetto al senso della perdita edonistico, legato
al corpo, così importante per Visconti. Un senso più
esistenziale che fisico, quello del musicista boemo».
La
sua introduzione della Nona sinfonia di Anton Bruckner,
con la ritmica, cupa predominanza dei timpani sugli altri
strumenti, ricorda un po' l'interpretazione di Hans
Knappertsbusch. Vi si è ispirato?
«Già
a Bayreuth, eseguendo il "Parsifal" di Wagner,
gli orchestrali mi fecero notare certe somiglianze con la
visione che di quel brano aveva il Kapellmeister di
Erbelfeld. Non volute. Devo però ammettere che
all'ascolto, pur essendo grandi le differenze, ne ho
intravisto l'affinità spirituale».
La
sua prima sinfonia di Edward Elgar, caratterizzata da
quel primo tempo che dura incredibilmente venti minuti
(un quarto più che nella norma). Come spiega il suo
interesse per questo compositore?
«Ho sempre avuto una predilezione per i periodi delle
transizioni culturali. Le scuole nazionali, quella
tedesca soprattutto. La russa, con Alexander Scriabin. La
francese, con Claude Debussy, del quale interpreterò
"Pelléas et Mélisande" a maggio.
Storicamente, rappresentano la risposta al punto
interrogativo che formulò Wagner: che cosa si poteva
fare di nuovo, in campo musicale, dopo la sua opera
ciclopica? E poi Elgar è stato anche un omaggio alla
Philharmonia di Londra, orchestra con la quale ho un
sodalizio di 14 anni, con il suo mondo culturale. Non si
tratta di un Brahms inglese, come spesso è inteso in
quel paese. Il grande testo orchestrale è il segno di
una problematica iniziata con Wagner e conclusa con
Mahler. L'individuo vi chiede spazi espressivi sempre
più ampi. Tutto derivante dalla conflittualità
individuale tipica dell'idealismo tedesco. Le ambiguità
del personaggio Elgar, la sua poliedricità semantica e
psicologica: basterebbe pensare a un brano come le
"Enigma variazioni". Per quell'incisione
ricevetti pure una lettera di ringraziamento dalla Elgar
Society».
Opere
di transizione. Come i vasi greci della sua collezione
archeologica. In alcuni particolarmente celebrati, figure
nere e rosse raccontano attraverso scene-simbolo come si
pensava, si viveva e si moriva nell'Atene del 530 avanti
Cristo.
«Infatti non colleziono oggetti, ma idee. Mi interessano
quei periodi di crisi che racchiudono la fine di qualcosa
e già contengono quel che verrà. Fino a un paio di
secoli fa questi vasi li chiamavano ancora etruschi. In
uno dei miei più belli Eracle viene sostituito da Teseo
con il Minotauro, come a celebrare la nuova Atene che sta
sul punto di liberarsi dell'influenza di Pisistrato per
lanciarsi nell'epoca di Pericle...».
Una
delle sue incisioni più apprezzate, soprattutto dai
recensori anglosassoni, è quella del "Poema
dell'estasi" di Scriabin, altro autore di confine.
Anche se vi si intravede una maggior precarietà dal
punto di vista dell'analisi strutturale. Diverso il suo
approccio, o carente il suono della New York
Philharmonic?
«Bisogna filtrarla attraverso il mio amore per il poeta
Aleksandr Blok e il simbolismo russo. Nell'articolazione
strutturale utilizzo più gli apparati simbolici che
quelli analitici. Penso che con un'analisi razionale di
questo brano, molto si perderebbe. Nel "Poema"
simbolo e struttura sono fortemente impregnati l'uno
dell'altra. I simboli forti hanno un contenuto
ideogrammatico. Se ad esempio l'albero è il simbolo
della vita, eccolo ripercorrere i significati reali
dell'albero... ».
Molti
critici furono sorpresi quando incise "Cavalleria
rusticana" di Pietro Mascagni. Pare di ascoltare nel
capolavoro del livornese, parafrasando ironicamente
Savinio, il "Wozzeck del Mediterraneo"...
«Fu un omaggio a mio padre. Egli era siciliano e amava
molto quest'opera sanguigna. Quando la registrai sentivo
che presto lo avrei perduto. Qualche tempo fa ascoltavo
il disco nel silenzio della mia casa di Lipari.
Francamente io sono contro una semplicistica definizione
del Verismo musicale: mi sa tanto di comoda catalogazione
di tipo editoriale».
Ci
sono autori che sfuggono al sistema Sinopoli?
«Di fronte a Stravinski, Bartók e Prokofiev mi sentirei
un po' in difficoltà. Per carità, grandi compositori,
ma meno affini alle mie ricerche, ai miei itinerari
intellettuali».
Un
po' di itinerari della memoria. In una recente intervista
Pierre Boulez ha dichiarato che la nostra epoca è
prigioniera della memoria. Si rivaluta fino al
particolare il passato, e ne soffrono le opere e gli
artisti innovativi.
«Una tipica aporia alla Boulez. Un problema che riguarda
anche il suo comporre. La memoria, se non è elaborata,
può uccidere. Se non si ribalta in utopia, è mortale.
E' lo specchio di Perseo davanti alla Gorgone, l'arma
indispensabile per tagliarle la testa. In ultima analisi,
la nostra genetica spirituale».
Del
resto lei non è contrario alla musica moderna, è anzi
un sostenitore del repertorio del Novecento, da Strauss
alla Scuola di Vienna.
«Se, almeno da noi, viene poco eseguita, è soprattutto
per una ragione semantica: Schönberg e Berg usano codici
diversi dalla tradizione e questo spiazza l'ascoltatore
pigro. Per avvicinarvisi bisogna imparare a condividere
con l'artista la rottura e la devianza dagli schemi
abituali. Lo spirito del rock non è in definitiva molto
diverso, anche se tanto lontano».
Lo
sanno anche i produttori discografici, tanto che hanno
provato a farle incidere la "Bohème" con
Andrea Bocelli...
«Intendiamoci bene: dobbiamo avere la massima
tolleranza. Ma dando per scontato che bisogna riconoscere
la diversità».
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