Da l’unita’.

03.06.2002
«La conferenza di pace è utile solo se può decidere il futuro della Palestina»

Il primo messaggio è rivolto alla Comunità internazionale: «Siamo per una Conferenza di pace con poteri decisionali, ma sappiamo bene che Israele vuole ridurne la portata ad un incontro che non lo vincoli all’assunzione di alcun impegno». Il secondo messaggio è rivolto all’opinione pubblica israeliana e al popolo palestinese: «Malgrado le condizioni di sofferenza che la nostra gente deve subire quotidianamente e malgrado la morsa soffocante a cui sono costrette le nostre città, malgrado i crimini contro il nostro popolo e la sistematica distruzione delle nostre infrastrutture, restiamo impegnati a quella “pace dei coraggiosi” da me firmata assieme al mio partner indimenticabile: Yitzhak Rabin». A lanciare questi messaggi è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Yasser Arafat. In occasione dell’incontro con la presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti, il presidente Arafat ha accettato di rispondere alle domande dell’Unità. «L’Italia - ribadisce Arafat - può essere il luogo ideale per ospitare la Conferenza, ma ciò che più conta è definirne le basi e le prerogative».
Presidente Arafat, qual è oggi la situazione nei Territori?


«L’assedio soffocante delle nostre città non ha fine. L’escalation militare israeliana prosegue senza soluzione di continuità. Domenica tremila palestinesi sono stati arrestati dai soldati israeliani penetrati nel campo profughi di Balata e nei villaggi limitrofi. Arresti arbitrari, frutto di rastrellamenti che non risparmiano donne, anziani, adolescenti. I carri armati di Sharon sono a tre minuti da qui (il quartier generale di Arafat a Ramallah, ndr.). Hanno distrutto tutto e non hanno risparmiato neanche questo ufficio che è la sede del legittimo governo del popolo palestinese. Non è stato rispettato neanche l’accordo raggiunto a Barcellona. I Territori sono stati trasformati da Israele in un inferno, in una terra di nessuno, nel regno dell’illegalità internazionale. E poi c’è un altro crimine di inaudita gravità, perpetrato da Israele nel silenzio del mondo».


Di quale crimine si tratta?


«L’esercito israeliano ha colpito la Chiesa di Santa Barbara, vicino a Ramallah, e gravemente danneggiato la statua della Madonna nella Basilica della Natività di Betlemme. È intollerabile che tutto ciò sia avvenuto nel silenzio della comunità internazionale, quando per la criminale distruzione da parte dei Taleban delle statue di Buddha in Afghanistan ci fu una sollevazione internazionale. C’è una precisa strategia di attacco da parte israeliana ai luoghi santi musulmani e cristiani. E il silenzio del mondo viene interpretato da Sharon come una legittimazione a questa politica irresponsabile».


Dall’inizio della seconda Intifada le condizioni di vita della popolazione di Cisgiordania e Gaza sono pesantemente peggiorate. Israele imputa a Lei queste sofferenze.


«È un’accusa ignobile, vergognosa. Non esiste popolo al mondo vittima di un’ingiustizia così grande, prolungata, come quella imposta al popolo palestinese da Israele. Tre milioni e mezzo di persone sono ostaggio dell’esercito israeliano. I nostri studenti e gli insegnanti non possono raggiungere le scuole, quelle poche che gli israeliani non hanno distrutto. Dovremo rinviare di mesi gli esami di maturità. Da 23 mesi Israele ha bloccato la rimessa di tasse che spettano, secondo gli accordi di Oslo, all’Anp: ci devono oltre 2 miliardi di dollari. Oltre il 50% delle nostre terre coltivate ad ulivo sono state distrutte. Vogliono sfiancare la nostra volontà di resistenza, vogliono ridurci alla fame. Ma non l’avranno vinta. Il popolo palestinese non si lascerà piegare, non rinuncerà ai propri diritti nazionali».
Più volte Lei ha fatto riferimento alla legalità internazionale...


«Una legalità sistematicamente violata da Israele. Non mi riferisco solo alle risoluzioni 242 e 338 dell’Onu, ma anche al recente rifiuto da parte israeliana di permettere ad una commissione delle Nazioni Unite di indagare sui crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, la nostra “Jeningrado”. E ancora l’altro ieri, gli israeliani hanno impedito a sette ministri degli Esteri dei Paesi non allineati di visitare Nablus per accertarsi delle conseguenze dell’ennesima occupazione israeliana».


Presidente Arafat, Sharon l’accusa di non fare niente per frenare gli attentati suicidi in Israele.


«La nostra condanna verso ogni azione terroristica che coinvolga civili israeliani è totale. Stiamo facendo del nostro meglio per colpirne responsabili e mandanti. Ma Israele fa di tutto per rendere impossibile il nostro operato. Le chiedo: come è possibile agire con efficacia per impedire operazioni terroristiche quando alle nostre forze di sicurezza è impedita ogni libertà di movimento da città a città? Come agire con efficacia quando sono state distrutti i centri operativi delle nostre forze di sicurezza e i Territori palestinesi sono stati frantumati in otto cantoni? Israele sta erigendo un nuovo muro di Berlino a ridosso della Cisgiordania. In nome della lotta al terrorismo Israele sta attuando un’annessione di fatto di territori palestinesi. Nonostante tutto, proseguiremo nei nostri sforzi anche attraverso una riorganizzazione dei servizi di sicurezza. Di questo ho già parlato con il ministro degli Esteri tedesco Fischer, con l’Alto rappresentante dell’Ue Solana ed è un argomento che affronterò con il direttore della Cia Tenet».


Da tempo si parla di un suo incontro con il presidente degli Usa George W.Bush. In attesa di realizzarlo, quale messaggio intende lanciare al capo della Casa Bianca?


«È il messaggio che gli ho inviato attraverso un alto prelato della Chiesa americana venuto a trovarmi qualche giorno fa: Bush padre ha avviato, con la Conferenza di Madrid, il processo di pace. Spetta ora al figlio, attuale presidente degli Usa, portare quel processo a compimento».


Su quali basi?


«Quelle indicate dalla “pace dei coraggiosi” firmata da me assieme al mio indimenticabile partner, Yitzhak Rabin: la pace che contempli due popoli e due Stati in Palestina, con gli stessi diritti, la stessa sicurezza, la stessa dignità».
Molto si discute su una nuova Conferenza internazionale di pace. Qual è in merito la sua posizione?


«La Conferenza di pace rappresenta per noi palestinesi una grande opportunità. Siamo pronti a sederci attorno ad un tavolo...».


A quali condizioni?


«Che questa Conferenza si fondi sul riconoscimento di tutti gli accordi finora sottoscritti: da Oslo alla recente intesa di Barcellona. Il rispetto delle intese raggiunte è il presupposto per ridare senso ad una trattativa. E non dimentichiamo che in campo c’è anche il piano di pace saudita, apprezzato sia dagli Usa che dall’Europa».


La Conferenza potrebbe svolgersi in Italia?


«Sarebbe un luogo ideale, vista l’amicizia che lega il popolo italiano a quello palestinese ed anche per l’importante ruolo svolto dall’Italia nella soluzione dell’assedio alla Basilica della Natività. Ma più che il luogo, è importante definire le basi e le prerogative di questa Conferenza: deve essere una Conferenza con poteri decisionali e non un incontro di routine, e come tale assolutamente improduttivo, come vorrebbe Sharon».


Crede ancora possibile un accordo di pace con Israele?


«Ariel Sharon ha annunciato la morte degli accordi di Oslo e, al contempo, ha scatenato un’offensiva militare che ha già provocato 66mila vittime, tra morti e feriti palestinesi. Ma nella società israeliana esistono forze che credono ancora nella “pace dei coraggiosi”. La maggioranza degli israeliani, secondo recenti sondaggi, è favorevole alla creazione di uno Stato palestinese. La lezione di Yitzhak Rabin non è andata persa. Sì, nonostante tutto, la pace è ancora possibile».

"Prima che sia troppo tardi"
Intervista ad Arafat "I palestinesi vivono sotto una brutale occupazione coloniale. Cosa aspetta la comunità internazionale ad intervenire?"

Il nostro è l'unico popolo, nel 21esimo secolo, che vive sotto una occupazione militare così brutale". Il leader palestinese Yasser Arafat appare combattivo, di buon umore, per nulla intimorito dalle minacce di Ariel Sharon e incurante dei carri armati israeliani che da tre settimane hanno preso posizione a poche decine di metri dal suo quartier generale a Ramallah. Scherza sul 'confino' che Israele gli ha imposto. "Sono libero di fare ciò che voglio" afferma con tono sicuro. E la "prigione" di Ramallah nella quale Sharon ritiene di averlo chiuso non ha neppure tolto l'appetito al presidente palestinese, che ieri ha invitato alcuni giornalisti stranieri, tra cui il corrispondente de il manifesto, a sedere alla sua tavola. "Ogni giorno mangia pesce e verdura - ci spiega un suo assistente -non tocca carne e cibi grassi per tenere sotto controllo il colesterolo". Il leader palestinese conferma con un cenno di approvazione, poi aggiunge: "Oltre all'acqua bevo soltanto qualche diet-cola". E' una conversazione normale che avviene in un clima rilassato eppure a poca distanza ci sono i carri armati di Israele.

Il premier israeliano Sharon ieri ha espresso rammarico per non aver eliminato Yasser Arafat venti anni fa, durante l'invasione del Libano. Teme che Israele tenti di realizzare adesso ciò che non fece durante l'assedio di Beirut?.

Che faccia pure, sto aspettando che realizzi il suo piano. Ma di una cosa (Sharon) deve esser certo. Io non ho paura. Durante la mia vita ho già affrontato tante situazioni difficili. Quando Israele occupò Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est nel 1967 fui costretto a nascondermi per sfuggire alla cattura. Ricordo ancora i giorni trascorsi nella clandestinità a Nablus, Ramallah, Betlemme e in altri centri abitati palestinesi. E tanti periodi difficili che sono venuti dopo, come in Libano appunto. Ma in questi giorni non ho paura per la mia persona.

Quali sono quindi le ragioni della sua inquietudine. Quali le sue principali preoccupazioni?

Sono preoccupato per i palestinesi, per il mio popolo che è sottoposto ad una brutale occupazione. Il mio popolo è l'unico nel 21.mo secolo che vive in questa condizione di terribile oppressione. Sono preoccupato di fronte all'assedio israeliano a città e villaggi, al blocco economico delle aree autonome, alle umiliazioni che la mia gente deve subire ogni giorno da parte dei soldati e dei coloni israeliani. E non posso fare a meno di pensare che tutto ciò accade nonostante sia severamente vietato dal diritto e dalle risoluzioni internazionali. E mi chiedo sino a quando i diritti umani saranno violati in questa terra prima che la comunità internazionale agisca per far rispettare la giustizia.

Nelle ultime settimane i palestinesi hanno dovuto affrontare un pesante isolamento politico. Soltanto adesso l'Europa e alcuni paesi arabi cominciano a scuotersi. I Quindici hanno espresso sostegno alla sua leadership e qualche leader arabo sta denunciando la pressione militare israeliana che viene attuata anche nei suoi confronti...

Come ho già detto la mia persona non ha importanza. La comunità internazionale deve agire per mettere fine alle sofferenze del mio popolo. Deve agire per garantire i diritti legittimi dei palestinesi sotto occupazione israeliana. Mi attendo perciò che al più presto vengano inviati osservatori o un'altra forza internazionale (nei Territori Occupati, ndr) a protezione della mia gente e per mettere fine all'aggressione israeliana.
In ogni caso tanti in Europa stanno facendo qualcosa per aiutare i palestinesi. E ringrazio in modo particolare l'Italia e gli italiani. E' stato molto positivo il passo fatto dall'Italia (con la proposta del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ndr) in seno all'Unione Europea volto a far convocare una conferenza internazionale a Bruxelles. Sono novità confortanti che ho registrato con soddisfazione.

Dagli Stati Uniti tuttavia continuano a giungere intimazioni e avvertimenti all'Autorità nazionale palestinese. Il presidente George Bush anche ieri così come aveva fatto nei giorni scorsi, ha puntato l'indice proprio nei suoi confronti e chiesto al governo palestinesi di agire con più fermezza contro quelli che gli Stati Uniti definiscono gli estremisti palestinesi.

Posso soltanto dire che i contatti con Washington sono costanti, non si sono mai interrotti e tra qualche giorno (lunedì, ndr) una nostra delegazione partirà per gli Stati Uniti dove avrà colloqui con il Segretario di stato Colin Powell. E in ogni caso non dimentichiamo che lo stesso Bush, qualche settimana fa, di fronte all'assemblea delle Nazioni Unite, ha sostenuto la nascita di uno Stato palestinese indipendente. I nostri diritti quindi vengono riconosciuti da tutti, anche dagli Stati Uniti.

Intanto lei viene accusato dal governo Sharon di non fare nulla per fermare chi organizza e compie attentati in Israele e di fomentare la violenza. E Sharon non fa mistero di volersi liberare di Yasser Arafat e dell'Autorità nazionale palestinese. Nonostante ciò lei vede qualche spiraglio, pensa che questo conflitto possa essere risolto ancora attraverso un negoziato.

Certo, ne sono pienamente convinto. Il negoziato è possibile e noi palestinesi sosteniamo la sua immediata ripresa. Siamo a favore dell'attuazione del piano Tenet e delle raccomandazioni formulate dalla commissione d'inchiesta Mitchell. Lo abbiamo sempre detto e continuiamo a ripeterlo. Siamo pronti a negoziare in qualsiasi momento e a qualsiasi livello. E' l'altra parte (Israele) che continua a dire di no alla ripresa dei colloqui di pace.

Ma il suo popolo è stanco, è molto provato dall'occupazione militare e non pare interessato a negoziati lunghi e laboriosi che dovrebbero passare attraverso l'applicazione dei piani Tenet e Mitchell e che, fatto rilevante, prevedono l'arresto di militanti e attivisti dell'Intifada. I palestinesi chiedono la fine dell'occupazione subito.

Si e continueranno a chiederlo ma allo stesso tempo il mio popolo vuole la pace e posso confermare che non è cessato l'impegno dell'Anp a favore di una soluzione giusta che garantisca l'indipendenza alla mia gente e la coesistenza tra lo Stato palestinese e Israele. Il mio popolo desidera la pace e so che anche la maggioranza degli israeliani chiede la pace.
Perciò rimango ottimista, una soluzione pacifica è possibile tra il mio popolo e gli israeliani.

MICHELE GIORGIO - RAMALLAH - Il Manifesto

«Sharon è già in guerra»

Intervista a Yasser Arafat: «Le vittime di Gaza sono state 21. Sharon non vuole nessuna soluzione politica. Ha presentato 100 emendamenti al piano di pace del 'Quartetto' da noi accettato. Dov'è il mondo? Per questo ho scritto a Putin. Israele vuole la guerra all'Iraq per trarne subito vantaggio qui»

VAURO INVIATO A RAMALLAH (CISGIORDANIA)

Sotto una pioggia gelida e sferzante percorriamo a piedi il labirinto di traversine di cemento, sacchetti di sabbia, casotti di ferro, e reti metalliche che segna il confine tra Israele e Ramallah sotto l'Autorità palestinese, ma sono solo i militari israeliani a controllare il check point. Vediamo i primi poliziotti palestinesi con il basco verde solo quando arriviamo al quartier generale dell'Anp, sarebbe meglio dire a ciò che ne resta. La bassa costruzione a due piani degli uffici di Arafat appare completamente circondata dalle macerie degli stabili adiacenti, una muraglia di carcasse contorte di auto erta a protezione dello sconnesso piazzale antistante aumenta il senso di distruzione che non ci abbandona entrando nella sede dell'Anp. Corridoi stretti, stanze anguste, barili riempiti di cemento a proteggere le pareti che danno sull'esterno tolgono la poca luce proveniente dai pertugi che fungono da finestre. E' un po' più ampia la stanza dove Arafat ci riceve, ma disadorna, un grande tavolo con le sedie al centro, una bandiera palestinese al muro e sulle pareti nude solo un piccolo orologio a pendolo. Arafat si alza per venirci incontro, è un uomo piccolo, reso quasi minuto dall'età che gli ha disegnato macchie sulla pelle chiarissima delle mani, la kufia scende su una giacca militare consunta sulla quale ficca una incredibile quantità di spillette: la bandiera dell'Europa, quella palestinese incrociata con quella americana, come a segnare le tappe fallite della ricerca di un aiuto politico sostanziale dalle diplomazie internazionali. L'isolamento, anche fisico, al quale è stato condannato dalla prepotenza israeliana, dall'ambiguità europea e dalla parzialità Usa gli si può leggere impresso sul volto segnato e dalle guance incavate, solo lo sguardo, dietro le lenti di grandi occhiali, appare vivace e mobilissimo.

A Gaza, presidente, è stata un'altra giornata di sangue per il popolo palestinese, si sono contati 15 morti, senza che sia iniziata una escalation dell'aggressività militare israeliana?

Ventuno - (mi corregge con uno scatto)- ventuno sono i palestinesi uccisi ieri e 120 i feriti. A Gaza sono state demolite decine di case, distrutte 11 piccole industrie. Gaza è come densità di popolazione la città più popolata del mondo e l'esercito israeliano ha distrutto l'intera rete fognaria facendo aumentare a dismisura il rischio di epidemie. Questa è già una guerra batteriologica. Del resto noi abbiamo denunciato agli Stati uniti l'uso da parte israeliana di armi proibite, proiettili all'uranio impoverito, gas chimici tossici come il Cs, non ci hanno voluto credere, ma il rapporto di una commissione non governativa americana (me ne porge una copia) la International Action Center ha confermato la nostra denuncia. Nessun popolo al mondo sta subendo un'aggressione così feroce come quella che sta subendo il popolo palestinese. E' arrivato a 70mila il numero delle vittime, tra morti e feriti, il 38 per cento dei caduti aveva meno di 17 anni, il 30 per cento dei feriti è rimasto gravemente handicappato. La nostra economia è strangolata dalla distruzione delle infrastrutture, dalla confisca delle terre. Ad Hebron il 55 per cento degli ulivi, quegli ulivi che noi chiamiamo «ulivi romani» per la loro antichità, sono stati distrutti. Il versamento delle tasse di importazione palestinesi raccolte dall'autorità israeliana che ammonta ormai a 2 miliardi e mezzo di dollari è bloccato al settembre del 2000, ne abbiamo recuperati solo 70 milioni grazie alle pressioni europee ed americane. Centoquarantamila palestinesi hanno perso il lavoro - (e qui Arafat continua a snocciolare con foga le cifre del disastro, poi mi mostra una foto della statua della madonna della chiesa della Natività di Betlemme crivellata di colpi) - pochi giorni fa hanno fatto saltare la chiesa del villaggio di Abhud, una delle più antiche in terra santa. Perché il mondo che si è tanto indignato quando i taleban hanno distrutto i Buddha in Afghanistan non dice una parola? Non si alza una voce quando a distruggere opere appartenenti alla cultura universale è Israele. L'escalation di guerra voluta da Sharon è sotto gli occhi di tutti, di tutti quelli che vogliono vedere. Lo stesso Sharon ha annunciato l'intenzione di iniziare un nuovo piano militare contro i palestinesi. Questo piano è già cominciato, hanno fatto di Nablus il loro banco di prova, il centro della città è stato distrutto, usano sistematicamente i bulldozer per rimuovere più a fondo la terra ed impedire così ogni tentativo di ricostruzione. Ma resisteremo a Nablus come a Jeniningrad - Arafat sorride -. Mi piace chiamare Jenin «Jeniningrad» perché la resistenza che la città e il campo hanno opposto all'attacco israeliano è paragonabile a quella di Stalingrado all'assedio nazista.

Non pensa che sia necessario cercare uno spazio di interlocuzione con il governo Sharon per tentare una soluzione politica?

No, non è possibile, perché Sharon non vuole nessuna soluzione politica. Il suo governo è stato eletto da estremisti che negano ogni possibilità di convivenza pacifica con noi palestinesi. I cosiddetti segnali di disponibilità di Sharon non sono che tentativi interni di coinvolgere i laburisti nel suo governo, per acquisire maggior credibilità internazionale e continuare con la sua politica di sterminio. Ne sono la prova le assicurazione che Sharon ha dato a Mizhna della sua disponibilità ad accettare il piano di pace americano, il cosiddetto piano del quartetto, per poi, il giorno successivo, proporre addirittura cento modifiche al piano stesso volte a snaturarlo completamente.

Gli Stati uniti sembrano determinati ad andare ad una guerra contro l'Iraq, come inciderà questo sulla questione israelo-palestinese?

Quello che si sta addensando sull'Iraq è come un grande tifone destinato a scuotere e a scardinare tutti gli assetti e gli equilibri del Medioriente, e non può essere considerato un problema locale. Ho scritto oggi una lettera al presidente Putin riaffermando come storicamente ma anche in senso geopolitico, non ci possiamo scordare che Europa e Medioriente sono geograficamente collegati, proteggere la pace in Medioriente significa proteggerla in tutto il mondo. Come invece al contrario consentire un'altra guerra nel cuore del Medioriente possa comportare l'altissimo rischio di un allargamento del conflitto totalmente imprevedibile nei tempi e nei luoghi. Anche per l'acuirsi dello scontro dove, come qui, un conflitto è già in corso. Sharon è pronto ad approfittare dell'aumento della tensione per accelerare il suo piano di annullamento e deportazione del popolo palestinese. Siamo a conoscenza di un progetto del governo israeliano per deportare i prigionieri palestinesi con aerei speciali in Libano e in Sudan quando iniziasse la guerra in Iraq.

Presidente, come si sente chiuso in questi uffici, impossibilitato a muoversi da mesi, praticamente prigioniero in casa sua?

Mi sento come tutti i palestinesi (Arafat sorride) -, soffro ciò che loro soffrono quotidianamente da anni ed ho la loro stessa determinazione a resistere.

Durante un'ora, tanto è durato questo incontro con Arafat, per tre volte è mancata la luce elettrica lasciando al buio il quartier generale dell'Anp e la stanza dove ci trovavamo. E' stato lo stesso Arafat, con una torcia elettrica, a illuminare il taccuino sul quale prendevo gli appunti di questa intervista.

Fonte: IL MANIFESTO 21 febbraio

Da l’unita’.

05.07.2002
Il capo dell'Anp a Fassino: "Non lasciatemi solo contro il terrorismo"

RAMALLAH Un'ora di colloquio in una Ramallah occupata dai blindati di Tsahal. Dopo aver incontrato nei giorni scorsi i principali esponenti della politica israeliani, Piero Fassino conclude la sua missione in Israele e nei Territori palestinesi incontrando Yasser Arafat. L'Unità ricostruisce in esclusiva il confronto tra il segretario dei Ds e il presidente palestinese.


Fassino: Sono qui per avere da Lei indicazioni sulla situazione, una situazione che appare bloccata, e capire la prospettiva apertasi dopo il discorso del presidente Bush.


Arafat: L'Europa ha un ruolo importantissimo da svolgere. Solo l'Europa può avere la capacità di cambiare la situazione. Ma deve agire subito perché il rischio di una catastrofe incombe sull'intero Medio Oriente.


Fassino:Come pensa che in questo momento si possa sbloccare la situazione?


Arafat: Ci deve essere un dispiegamento immediato di osservatori europei nelle città palestinesi occupate dagli israeliani. Questa richiesta era stata accettata ma poi, come troppe volte è accaduto, le buone intenzioni sono rimaste sulla carta. E intanto il mio popolo continua a subire, giorno dopo giorno, ogni sorta di sofferenza e di umiliazione. La presenza di osservatori porterebbe ad un grosso cambiamento. Chiediamo che venga applicato ciò che era stato delineato nel piano Tenet e nel Rapporto Mitchell. Non stiamo chiedendo la luna ma solo di riportare la legalità internazionale nella martoriata Palestina.


Fassino:Qual è oggi la sua valutazione del discorso del presidente Bush?


Arafat: Non è un suo discorso, ma è la traduzione in americano di un discorso di Sharon.
Essere mediatori super partes non si concilia con l'assunzione in toto delle ragioni di una parte.


Fassino: In quel discorso ci sono tre cose che hanno una qualche importanza: che la soluzione di pace deve prevedere la costituzione di uno Stato palestinese indipendente; che lo Stato palestinese deve comprendere la Cisgiordania e Gaza, facendo riferimento ai confine del '67; che gli insediamenti dei coloni devono essere smantellati.


Arafat: L'America sembra ignorare o intende mortificare il vero punto di novità: l'iniziativa araba, basata sul piano di pace saudita. Nel suo discorso, Bush non ne fa alcun cenno. Perché? Eppure quel piano è stato fatto proprio nel vertice di Beirut da tutti i Paesi della Lega araba. Quel piano prevede una pace globale tra i Paesi arabi e Israele. Eppure, Sharon lo ha lasciato cadere e invece di accettare un tavolo negoziale ha moltiplicato la sua escalation militare. Sharon ha "cantonizzato" la Cisgiordania e ciò che sta realizzando è un nuovo, brutale regime di apartheid peggiore di quello che ha segnato il Sudafrica. Io sono stato in Sudafrica e posso dire che quei cantoni, i ghetti neri, erano un paradiso rispetto a ciò che Israele sta facendo in Palestina.


Fassino: In questi giorni ho avuto modo di incontrare molti dirigenti israeliani, oltre che diversi dirigenti palestinesi. La cosa che mi ha colpito è che tutti dicono che ci vuole una soluzione politica, tutti dicono che ci vogliono due Stati, però in realtà la fiducia è così bassa che non si sa come far ripartire il processo di pace. Insomma, tutti sembrano aver chiaro come deve andare a finire ma nessuno sa come cominciare.


Arafat: Se c'è la volontà c'è modo di farlo. Sadat era un mio amico, un mio vecchio, caro amico. Sadat volle fortemente gli accordi di Camp David. Allora si raggiunse un compromesso fondato su un principio che noi accettiamo come fondamento di un accordo con Israele: la pace in cambio dei territori occupati. La pace fondata su due Stati e due popoli. La risposta che abbiamo avuto la vede con i suoi occhi: città distrutte, trasformate in prigioni a cielo aperto. Si parla molto di un Arafat prigioniero di Israele, ma ad essere imprigionati dalle forze di occupazione sono tre milioni e mezzo di palestinesi.


Fassino:Uno dei punti più delicati, che rende difficile il negoziato è quello del diritto al ritorno dei rifugiati…


Arafat: Perché?


Fassino: Perché il rientro in Israele di una quantità grande di palestinesi viene vissuto dagli israeliani come un rischio per l'esistenza stessa di Israele.


Arafat: Israele non accetta neanche di considerare il problema dei rifugiati come un problema politico, rifiutano persino di riconoscere che furono scacciati a forza dalle loro terre, dalle loro case nel 1948…Gli israeliani possono far venire sulla nostra terra, nelle nostre case, cittadini ebrei della ex Unione Sovietica e io non ho diritto di venire a casa mia! Ci considerano dei paria, e dopo aver spezzato il nostro territorio vorrebbero spezzare anche l'unità del popolo palestinese, l'unità tra la gente di Gaza e della Cisgiordania e la nostra diaspora. Io ho parlato con Clinton e Barak di questo a Camp David: avevo detto al premier israeliano: accettate il riconoscimento del principio del diritto al ritorno e poi negoziamo la sua traduzione pratica. L'ho ribadito anche in un recente articolo sul New York Times: creiamo un comitato congiunto, israelo-palestinese con la super visione internazionale, per verificare una ragionevole applicazione di questo principio. Non intendiamo "arabizzare" Israele, ma dare una patria a quelle centinaia di migliaia di palestinesi che vivono fuori dai Territori senza diritti, senza identità, senza possibilità di lavoro: è la condizione dei palestinesi in Libano. Clinton mi chiese allora, a Camp David: quanti sono? Io gli risposi: 380mila. Il giorno dopo tornò da me dicendomi che potevano rientrare in 200mila. Accettammo. Ma poi tutto fu cancellato. La chiusura di Israele è totale".


Fassino: La questione principale che io vedo irrisolta è una questione di fiducia reciproca e bisogna compiere degli atti che aiutino a ripristinare questa fiducia…


Arafat: Noi gli abbiamo fatti…


Fassino: A quali atti si riferisce?


Arafat: Quando chiesero che ci fosse una settimana di calma per poi riaprire una trattativa sull'attuazione del Rapporto Mitchell, ebbene, la calma ci fu. Ci furono 24 giorni a dicembre di calma. Non accadde nulla di positivo. Sharon utilizzò quelle settimane per preparare una nuova, devastante offensiva contro il popolo palestinese. Noi lavoravamo per la tregua mentre Israele scatenava una guerra totale.


Fassino: Nel momento in cui, giustamente i palestinesi chiedono che la soluzione sia l'esistenza di un loro Stato indipendente e che questo significherà lo smantellamento degli insediamenti, io credo che sarebbe un messaggio di fiducia dire che così come Israele smantella le colonie, da parte palestinese non si chiede il diritto al ritorno o meglio il diritto al ritorno può essere risolto attraverso forme di indennizzo monetario a cui si può provvedere con un Fondo alimentato dalla Comunità internazionale.


Arafat: Ma Israele sta moltiplicando gli insediamenti, confiscando le nostre terre, trasformando le colonie in città, annettendo di fatto parte dei Territori occupati. Nel 1997, secondo gli accordi raggiunti, avrebbero dovuto smantellare un numero consistente di colonie. Le hanno moltiplicate! La fiducia si ristabilisce mantenendo gli impegni sottoscritti. Israele ha fatto l'esatto contrario. Quello che oggi proponi è ciò che si era stabilito a Camp David….


Fassino: Ma a Camp David l'accordo non si è fatto.


Arafat: C'era stato un accordo su alcuni punti che poi furono sviluppati nei negoziati di Taba e a Sharm el-Sheikh. A Taba, alla presenza dell'inviato dell'Unione Europea in Medio Oriente, Moratinos, e di emissari del presidente Clinton, furono raggiunte delle intese importanti tra l'allora ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben Ami e il nostro negoziatore capo Saeb Erekat. Ma poi tutto fu bloccato perché, ci fu spiegato, mancavano tre settimane alle elezioni in Israele. Noi eravamo pronti e continuiamo ad essere pronti a riprendere una trattativa partendo da quelle basi.


Fassino: Perché non si è fatto l'accordo a Camp David con Ehud Barak?


Arafat: Perché gli israeliani insistevano nel pretendere la sovranità sulla parte inferiore della Spianata del Tempio e su altre zone della Città Vecchia di Gerusalemme dove sono ubicati luoghi sacri ad altre religioni. Io contattai i Patriarchi cristiani ed esponenti di primo piano della fede musulmana per informarli di ciò che ci era stato offerto e dissi loro: se voi accettate anche io accetterò. Ci venne risposto dalla Chiesa cristiano ortodossa, la più grande in Palestina, che accettare quella proposta, voleva dire concedere a Israele il controllo del quartiere armeno e di fatto cancellare il pluralismo religioso nella Città Santa…


Fassino: Sì, capisco, questo è uno dei problemi di Gerusalemme. Ma insisto: perché a Camp David non si è raggiunta un'intesa?


Arafat: Quello su Gerusalemme è stato uno degli ostacoli all'accordo. Ma ripeto: a Taba avevamo sviluppato e concretizzato alcuni principi delineati a Camp David. Eravamo vicini, molto vicini ad una conclusione…


Fassino: E cosa l'ha impedita?


Arafat: Avevamo chiesto un controllo internazionale delle linee di confine con Giordania ed Egitto. Cercavamo una garanzia internazionale dei confini, mentre Israele voleva esercitare un controllo totale. Il presidente Clinton ci aveva inviato una lettera molto importante prima degli accordi di Taba nella quale si sosteneva la disponibilità americana a discutere di alcune nostre osservazioni al piano che gli Usa avevano maturato sulla base dei negoziati di Taba. Ma le elezioni in Israele bloccarono tutto ed Ehud Barak non ritenne di fare della pace di Taba la piattaforma su cui cercare il consenso della maggioranza degli israeliani.


Fassino: Un altro punto molto delicato è quello del terrorismo. Lei ha condannato gli attentati contro civili israeliani…


Arafat: Io ho condannato con la massima decisione tutti gli attacchi contro civili, siano essi palestinesi che israeliani. Perché anche noi palestinesi siamo esseri umani….

Fassino: Non sarebbe molto importante se da parte sua oltre che condannare gli atti di terrorismo quando essi avvengono, ci fosse anche la presa di posizione esplicita che spiegasse ai ragazzi palestinesi perché è sbagliata la scelta del terrorismo e quanto il terrorismo sia contro gli interessi degli stessi palestinesi?. Voglio dire una vera e propria azione politica e culturale preventiva che impedisca a tanti ragazzi di fare una scelta drammatica e al tempo stesso rassicuri un'opinione pubblica israeliana che vive sotto l'incubo del terrorismo.


Arafat: L'ho già fatto. Ho fatto degli incontri con i gruppi di Hamas e della Jihad islamica non solo qui, con la super visione dell'Arabia Saudita. Ho coinvolto i sudanesi e gli yemeniti. Avevano dato il loro accordo ma non hanno onorato le promesse. Questi fanatici hanno ricevuto finanziamenti e armi da i Paesi arabi e islamici fanatici con l'ordine di andare avanti con gli attacchi suicidi.


Fassino: E come pensa di poterli bloccare?


Arafat: È facile. Deve esserci un intervento arabo, un intervento europeo, un intervento americano. La pressione americana ha fatto sì che gli hezbollah finissero di sparare i loro razzi dal sud del Libano. E per parte mia sto prendendo tutte le misure possibili per contrastare i gruppi estremistici. Proprio oggi (ieri, ndr.) ho ordinato alle nostre banche di riferire all'Anp tutti i movimenti di capitale che arrivano dall'estero per sapere chi li manda e a chi sono destinati. L'ayatollah Khamenei (leader dell'ala radicale del regime iraniano.ndr) invia soldi non solo in Palestina ma dappertutto, perfino in Sudafrica. Non è a Ramallah, non è a Gaza il centro nevralgico della destabilizzazione. I fanatici palestinesi sono delle pedine manovrate dall'esterno per disegni che nulla hanno a che fare con la causa palestinese. L'ho detto agli europei, agli americani: aiutatemi a spezzare questi legami, aiutatemi a bloccare il flusso di denaro che raggiunge i terminali estremisti palestinesi. Io ho posto agli arresti domiciliari sheikh Ahmed Yassin (il fondatore di Hamas, ndr.) e ho incarcerato diversi capi della Jihad. Ma sono stato lasciato solo in questa battaglia".


Fassino: Le ho posto le due questioni - la lotta al terrorismo e il ritorno dei rifugiati - perché mi pongo il problema di come ricostruire un rapporto di fiducia, di credibilità con gli israeliani, visto che è con loro che si deve fare la pace. E oggi quello che mi pare manchi è un rapporto di fiducia. Che per essere ricreato ha bisogno anche di atti concreti da parte israeliana, a cominciare da un ritiro dell'esercito, da un allentamento dell'occupazione nei Territori e bisogna rendere la vita della popolazione civile più dignitosa e meno dura di quanto lo sia oggi.


Arafat: Per fare la pace occorre essere in due. Ma chi sono i nostri interlocutori in Israele? Non certo i falchi oltranzisti, e purtroppo sono venuti meno anche i laburisti che, a maggioranza, hanno deciso di restare in questo governo di fanatici. Dopo una lunga discussione hanno deciso di voler aprire una fase nuova e di fare del loro meglio per eliminare alcuni degli insediamenti e portare avanti il processo di pace. Bene, se torneranno sulla strada della pace dei coraggiosi indicata dal mio compianto amico Yitzhak Rabin, saremo pronti a fare con loro l'ultimo tratto del cammino.


Fassino: Sono stato nei giorni scorsi al Congresso laburista e mi pare che sia venuto un messaggio molto forte: non c'è una soluzione militare, ma solo politica; la soluzione non può che essere uno Stato palestinese accanto a Israele; e per questo obiettivo occorre fare anche dei compromessi a partire dallo smantellamento degli insediamenti dei coloni. È una posizione importante che non schiaccia i laburisti su Sharon, Insomma, voglio tornare con Lei sulla questione fondamentale: il punto di partenza di qualsiasi processo di pace deve fondarsi sull'esplicita dichiarazione che, accanto ad un Israele sicuro, ci deve essere uno Stato palestinese, un'esplicitazione assente dagli accordi di Oslo. Si deve dire che lo Stato nascerà sulla base di quanto sancito dalle risoluzione 242 e 338 delle Nazioni Unite entro i confini del '67. Il problema è come si costruisce questo obiettivo e come si ridà vita ad una fiducia reciproca che permetta di raggiungerlo.


Arafat: Il percorso è indicato negli accordi di Sharm el-Sheikh, nei colloqui di Parigi e in una parte degli accordi di Camp David. Ciò che manca e non a noi è la volontà politica di applicare quelle intese.


Fassino: Nel discorso di Bush c'è una esplicita richiesta di ricambio nella leadership palestinese. Come pensa di affrontare questo problema?


Arafat: Lei pensa che avesse diritto di dire una cosa del genere?


Fassino: No, io non condivido quelle parole di Bush, perché penso che ogni popolo debba scegliersi i propri rappresentanti e nessuno può decidere chi deve essere il rappresentante di un altro, sapendo però che se si vuole negoziare, ogni parte deve compiere degli atti per farsi riconoscere dal suo interlocutore. Per questo insisto su atti di fiducia reciproci che abbattano il muro del pregiudizio e dell’ostilità.


Arafat: Tutti i Paesi del G8, tranne l'America, hanno ribadito in Canada che continueranno a trattare con l'attuale dirigenza palestinese così come, prima del discorso di Bush, avevamo deciso di indire nuove elezioni in modo che la persona che verrà eletta potrà tornare a discutere con tutti. Ma saranno i palestinesi, solo i palestinesi a decidere chi sarà quella persona.


Fassino: Lei ha annunciato le elezioni nel gennaio 2003. Pensa che ci saranno effettivamente ?


Arafat: Dipende da Sharon. Se gli israeliani torneranno a farci respirare, se si ritireranno dalle nostre aree come concordato con Tenet (il direttore della Cia, ndr.), le elezioni si terranno certamente. E noi chiediamo osservatori internazionali a garanzia del voto.


Fassino: Qual è la cosa più importante e immediata che dovremo fare noi europei per aiutarvi?


Arafat:[/b] Premere sugli israeliani perché inizino a ritirarsi dai Territori per poter riprendere la nostra vita e attuare il nostro piano dei 100 giorni. Perché è impossibile realizzare qualsiasi riforma sotto coprifuoco. E poi aiutarci a ricostruire un'economia distrutta dall'occupazione israeliana. In gioco è la sopravvivenza stessa di decine di migliaia di famiglie palestinesi ridotte allo stremo. Non lasciate che i bambini di Gaza finiscano come i bambini iracheni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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