da - la repubblica E' morto Gregory Peck LOS ANGELES - E'
morto Gregory Peck. L'attore di Vacanze romane, il
capitano Achab del Moby Dick di John Huston, una delle
grandi stelle di Hollywood aveva 87 anni. Malato da
tempo, è morto nel letto di casa sua a Los Angeles,
accanto alla compagna di una vita, sua moglie Veronique. Sugli schermi Peck fece
un discreto numero di conquiste, da Ingrid Bergman a
Audrey Hepburn accanto a lui in Vacanze romane di William
Wyler (1953), dalla litigiosa Lauren Bacall di La
donna del destino (Vincent Minelli, 1957) alla Ava
Gardner di Le nevi del Kilimangiaro (Henry King,
1953). ------------------------- DA - IL CORRIERE DELLA SERA È morto Gregory Peck Protagonista di «Vacanze romane» e «Io ti salverò». Cinque nomination e un Oscar nel 1962 per «Il buio oltre la siepe» LOS ANGELES - Gregory Peck, è morto la scorsa notte a Hollywood. L'indimenticato Un'immagine di «Vacanze
romane» (Olympia)protagonista di tanti film tra cui
«Vacanze romane» e «Il buio oltre la siepe», aveva 87
anni ed era nato a La Jolla, in California, il 5 aprile
1916. -------------------------- DA - L'UNITA'
Buio oltre la siepe per sempre, addio a Gregory Peck
E invece. Invece, oggi che ci ha lasciati alla bella età di 87 anni (era nato a La Jolla, California, il 5 aprile del 1916), è arrivato il momento di dire che Gregory Peck era tutt´altro che perfetto e che proprio per questo era un attore assai più interessante di quanto non appaia a prima vista. Peck era sì il giornalista viveur di Vacanze romane o l´avvocato liberal di Il buio oltre la siepe o l´uomo comune insidiato dal mostro di Cape Fear, ma era anche il ruvido rapinatore di Cielo giallo o il capitano Achab di Moby Dick o il folle millantatore di Io ti salverò. Peck aveva lo stesso problema (si fa per dire) di Paul Newman o di Cary Grant o di Robert Redford: era troppo bello perché lo si prendesse sul serio come attore. Invece era un attore coi fiocchi proprio perché era capace di «sporcare» questa bellezza, di trasformare l´eleganza in arte del vissuto. Inoltre, Peck è stato uno di quegli attori hollywoodiani ai quali il doppiaggio non rendeva giustizia: negli anni ha avuto voci italiane importanti, da Emilio Cigoli a Peppino Rinaldi, ma nessun doppiatore «impostato» avrebbe mai potuto imitare la sua voce cavernosa che nei western sapeva trasformarsi nella rude cantilena del cowboy. Per quel che conta, noi avemmo la rivelazione a un vecchio festival di San Sebastiano che rendeva omaggio, con una personale, al regista William Wellman. In quell´occasione vedemmo Cielo giallo in originale e scoprimmo un western magnifico che riusciva a trasferire nel deserto californiano le suggestioni della Tempesta di Shakespeare, e due attori incredibili come Peck e Richard Widmark che ritraevano due fuorilegge il primo con la sobrietà e la potenza della star, il secondo con la nevrosi e l´isterìa del caratterista di razza. Interpreti superbi. Voci dell´America profonda, rurale, violenta. Autentica. Non a caso, quando gli chiedevano quali fossero i ruoli nei quali maggiormente si identificava, lui rispondeva immancabilmente: «Sono tanti. Nell´ordine, Atticus Finch, Atticus Finch, Atticus Finch e ancora Atticus Finch...». Diceva così anche nello stupendo documentario che Barbara Kopple gli ha dedicato nel 1999, Conversation with Gregory Peck (si trova in cassetta, procuratevelo assolutamente). Disse così anche quando, quello stesso anno, venne al festival di Cannes dove l´avevamo già incrociato, con quella sua stupenda barba sale e pepe, dieci anni prima, quando venne per Old Gringo (1989). E chi era Atticus Finch? Per un italiano può anche essere un nome qualunque, per un americano colto Atticus Finch è l'anima dell´America almeno quanto il Walden di Thoreau o il Mr. Jones cantato da Bob Dylan. Atticus Finch è il protagonista di Il buio oltre la siepe, che prima di diventare un bellissimo film di Robert Mulligan (1962) era un magnifico romanzo di Harper Lee. Atticus Finch, con quel nome da greco antico, è l´avvocato che nell´America della Depressione deve dedicarsi a una doppia giusta causa: difendere un nero da un´ingiusta accusa di stupro, e difendere i suoi figli - prima ancora che se stesso - dai pregiudizi della piccola comunità in cui vive, indignata perché quel legale tanto «perbene» ha deciso di stare dalla parte del «negro». È l´incarnazione più autentica di tutti gli ideali dell´America «giusta», dell´America che ci piace, costretta a lottare contro l´America che non ci piace, quella del razzismo e della discriminazione. Peck si sentiva Atticus, «era» Atticus. E con ciò torniamo alla curiosa dicotomia che ha segnato tutta la sua carriera: più la sua eleganza e il suo fascino tracimavano sullo schermo, più veniva la voglia di scavarci intorno, di sollevare la pietra così pulita e trovarci sotto qualche vermiciattolo. Non era solo questione di essere pruriginosi. È che la carriera di Peck era iniziata, in fondo, nel segno dell´ambiguità. Arrivato a Hollywood dopo una breve ma già gloriosa carriera a Broadway, al secondo film (Le chiavi del paradiso, 1944) era stato subito candidato all´Oscar e al quarto (Io ti salverò, 1945) aveva incontrato Alfred Hitchcock. Nessun attore usciva intonso dalle grinfie di Hitchcock. Cary Grant diventava un sex-symbol, James Stewart un ossesso tormentato e forse un maniaco sessuale; Peck fu plasmato in un involontario genio del Male, un impostore psicopatico che si spaccia per il nuovo direttore di un manicomio e ne approfitta, en passant, per insidiare quel pezzo di ghiaccio (tale la considerava Hitchcock, absit iniuria: e gli piaceva proprio per questo) di Ingrid Bergman. Peck aveva solo 29 anni e il ruolo era più grande di lui, anche perché il film era tutt´altro che perfetto (tutti ricordano le bruttissime sequenze in cui Hitchcock chiese a Salvador Dalì di visualizzare gli incubi dei personaggi) e il regista lo padroneggiava meno del solito. Fu comunque un inizio di carriera ricco, intenso, problematico: Peck seppe tirar fuori corde simili, tutt´altro che eleganti e «borghesi», in altri film. In fondo anche in Duello al sole non era certo il Buono, e i suoi duetti con Jennifer Jones erano sufficientemente torridi da far definire il film di King Vidor come il western più sexy della storia. Come sempre, Martin Scorsese ebbe l´occhio lungo, da quel profondo conoscitore di cinema che è: quando girò il remake di Cape Fear con Robert De Niro, volle per dei cammei entrambe le star dell´originale diretto da Jack Lee Thompson nel 1962, Peck e Robert Mitchum; ma li schierò in ruoli da contro-casting, il primo in un personaggio perfido il secondo in un ruolo da buono. Inutile dire che erano entrambi talmente bravi da poter fare qualunque cosa: Mitchum avrebbe potuto interpretare un santo, Peck non avrebbe sfigurato nei panni di Jack lo squartatore. Peck era una vera icona americana e in questo senso, accanto ad Atticus Finch e ai ruoli western (fra i quali ricorderemo anche Il grande paese, Bravados e Romantico avventuriero), dovremmo porre anche il capitano Achab del Moby Dick diretto da John Huston nel 1956. Peccato che il film non fosse un capolavoro, e che nel cast - nel piccolo, ma imponente ruolo di Padre Mapple - ci fosse un signore come Orson Welles che poteva rubare la parte anche a gente assai più combattiva di Peck. E allora leviamoci uno sfizio cinefilo, e diciamo, per chiudere, che il vero capitano Achab nella filmografia di Peck è lo scout Sam Varner interpretato in La notte dellagguato, ancora di Mulligan (1969). In quel terrificante western/horror, Varner/Peck compie un viaggio nell´incubo tentando di sottrarre una donna bianca, e i suoi figli mezzosangue, alla vendetta di un ferocissimo capo Apache. L´indiano non si vede mai, se non nel finale - come la balena bianca -, ma la sua presenza aleggia su tutto il film, su un universo di sangue e follia che pare davvero uscito dalla fantasia cetacea di Melville. Quello è un piccolo ruolo, torbido e notturno, che a Peck non doveva dispiacere: perché lui, come altri americani democratici e coraggiosi, aveva scrutato nel buio oltre la siepe, e l´aveva sconfitto. Ma sapeva che il buio può sempre tornare. ------------------------DA - L'UNITA' Il fascino dolce di quella Roma appartata
Ma, come a bilanciare l'ufficialità rigida dove il conformismo dettava legge, la dolcezza dell'estate, delle lunghe interminabili estati delle vacanze scolastiche di allora, giugno, luglio, agosto, settembre. D'estate Roma si spalancava, ancora sostanzialmente vuota di automobili, offrendosi alla nostra immaginazione -bastava cercare, ed il meraviglioso urbano appariva. Due cose a Roma mi apparivano allora meravigliose. In primo luogo il Tevere non ancora trasformato in autostrada urbana, dove, soprattutto nel lungo tratto tra il ponte Margherita ed il ponte del Foro Italico, si poteva scendere in basso -e si scopriva tutta una vita nascosta. Se non c'era più chi, magari riunito in tribù urbane, la tribù della tintarella o la tribù dei piedi neri (come accadeva ai tempi di mio padre), si tuffava nelle sue acque e dava prova di virtuosismo fumandosi insieme una sigaretta o mangiando un piatto di pastasciutta tenuto sulla pancia nella posizione del morto a galla -c'erano però ancora i barconi (che qualcuno ad intervalli ricorrenti cerca di far risorgere), punto d'appoggio per i canottieri la mattina, trasformati in balere la sera. E poi i suoi monumenti, che conservavano ancora l'aura
della sorpresa urbana per cui erano stati concepiti, per
stupire ed appagare chi usciva dalla stretta rete dei
vicoli - come Piazza di Spagna in primo luogo. Anche i monumenti di Roma, non ancora omologati ad un'astratta idea di bellezza esterna alla loro intima essenza ed alla loro storia, partecipavano di quest'aria segreta, nascosta, ma una volta scoperta dolcemente disponibile, della città d'estate. Poi tutto questo è cambiato. Il segnale del cambiamento del Tevere è stato per me una cena che mio cugino Marco offrì - a me e ad altri colleghi di Facoltà di architettura - nei primi Anni Sessanta. Il piatto forte dovevano essere i cefali che aveva pescato con la lenza, come era solito fare, mi pare dal ponte Matteotti. Ma quei pesci erano immangiabili - sapevano di fango e di rifiuti umani. Il segnale del cambiamento di piazza di Spagna è stato invece l'improvvisa intolleranza verso i giovani che si sedevano sulla scalinata. Non l'ho mai capita, mi ha sempre dato fastidio. Ma era anche la conseguenza del fatto che quello che era stato il gioco segreto ed il piacere di pochi si era ormai trasformato in un'altra cosa, in un rito del comportamento di massa. Vacanze romane, il capolavoro di William Wyler, è stato il film che ha fissato per sempre in celluloide quell'effimero incanto. La dolcezza di una Roma che era un luogo invidiabile per il turista proprio perché non era una città turistica - dove si svolge la breve ma intensa e dolce (quasi un a parte dall'obbligato conformismo della vita) storia d'amore tra la principessa Audrey Hepburn ed il giornalista Gregory Peck. La qualità più preziosa di quella città era proprio il suo sottrarsi ancora (e non sarebbe stato più per molto) alle mitologie del progresso, del successo, della carriera, della ricchezza, del consumo. Il suo fascino era ancora un altro - non più quello della città capitale spirituale di Gogol e di Hawthorne - ma almeno quello di una città in cui, contro i miti fordisti dell'intensificazione del lavoro (ed anche contro il mito parallelo di Stakanov) era dolce lasciarsi vivere, affrontare le situazioni non di petto ma di sghembo, nascondersi, sottrarsi. La città che opponeva ancora alla nascente isteria contemporanea del successo un sussurrato ma fermo «Preferisco di no» - come Bartleby lo scrivano di Melville.Non a caso, credo, i due luoghi romani descritti in Vacanze romane che più mi sono rimasti impressi nella memoria sono proprio le sequenze del passaggio in Vespa di Gregory ed Audrey per il centro di Roma - prima a piazza di Spagna, poi a Fontana di Trevi, dove lei entra in un negozio di barbiere per tagliarsi i capelli corti corti, come se con quei capelli potesse tagliare via la sua identità di principessa per diventare soltanto una persona comune, un'individualità segreta che si può nascondere in mezzo alla folla. E le sequenze della loro discesa per ballare in un barcone sul Tevere. La segretezza è un desiderio - è un diritto all'autentico - che Roma afferma contro gli stereotipi della società di massa, dove tutto è invece riproducibile, dove si vive non per vivere ma per affidare la propria immagine all'obbiettivo del fotografo. In un certo senso, questo tema -che segna la trama di Vacanze romane - anticipa il tema del «paparazzo» della Dolce Vita di Fellini, in cui tutto ciò che fino a pochi anni prima era autentico si è trasformato in segnale, in maschera, in parodia di sé stesso. Audrey se n'era andata da tempo - dopo avere eletto proprio Roma, dove viveva appartata, quasi un'ospite segreta, a suo domicilio. Adesso è morto anche Gregory Peck, uno degli ultimi (o forse proprio l'ultimo?) a lasciarci di quella generazione di grandi attori (hollywoodiani ma grandi) che per la mia generazione sono stati il cinema. Attore di grande misura, lontano dall'enfasi, era perfetto per la parte di uomo comune che interpretava in Vacanze romane. Per la dimostrazione che non è lo splendore dell'inautentico, ma la segreta coerenza dell'autentico a misurare la qualità della vita. Con la sua morte, è rimasto solo il film a ricordarci di quel tempo storico che abbiamo vissuto soprattutto contestando e volendo di più - e che adesso, quando ci torna in mente, ci riempie di un sottile rimpianto per non averne voluto (o saputo) gustare le dolcezze. |