DA - L'UNITA'

Bologna ricorda l'Olocausto.

«Fu anche un delitto italiano. Troppi silenzi»
di Andrea Carugati

BOLOGNA. La cenere grigia, sparsa dal vento, che copre la neve caduta su Auschwitz. È solo una delle immagini, dei colori, delle persone che ieri mattina Liliana Segre, deportata a 13 anni, ha raccontato agli oltre 7 mila studenti che hanno stipato all’inverosimile il palazzo dello sport di Bologna. Studenti di 54 scuole, provenienti da tutta l’Emilia Romagna, ma anche da altre regioni (da Benevento, Pistoia, Varese...), hanno ascoltato in silenzio per oltre tre ore e hanno animato con i loro volti attenti una mattinata speciale, in cui è emerso il senso più profondo del giorno della memoria. Il senso di un passaggio di testimone da chi c’era, chi ha visto e subìto l'Olocausto, ai ragazzi di oggi. Un passaggio necessario perché la Shoah, come ha detto Furio Colombo (primo firmatario della legge con cui la Giornata è stata istituita nel 2000) rivolto agli studenti, «quello di cui stiamo parlando è la vostra vita in questo momento, non una lapide o un monumento». «Perché ricordare proprio questo tra i tanti fatti atroci di cui è piena la storia?» si è domandato Colombo. «Perché si tratta di un delitto italiano, che si è realizzato anche a causa dei tanti che, per conformismo, hanno accettato qualcosa di incredibile facendolo apparire normale». Colombo ha raccontato di una mattina, nella sua scuola elementare di Torino, «quando nell’aula magna è entrato l’ispettore della razza e ha letto la lista dei bambini che avrebbero dovuto uscire e non sarebbero mai più tornati: nessuno dei maestri si è mosso, nemmeno il direttore». Poi Colombo ha mostrato la prima pagina del Messaggero del 3 settembre 1938, il titolo dell’articolo: «Insegnanti e scolari di razza ebraica esclusi dalle scuole di ogni ordine e grado». E il titolo dell’editoriale: «Un passo avanti». «È così che si compiono i delitti» ha detto Colombo. E ha aggiunto: «Il silenzio è complice della malvagità: cosa sarebbe successo se il mondo della cultura italiana avesse risposto in modo diverso, senza voltarsi dall’altra parte? Quanti si sono poi vergognati di quel silenzio?». «Non siate mai complici - ha concluso rivolto ai ragazzi-. La storia è qui, è adesso e comprende l’orrore di cui stiamo parlando». Il palasport ha applaudito a lungo, molti ragazzi si sono alzati in piedi.
Poi è toccato a Liliana Segre raccontare il film della "sua" Shoah, iniziata a Milano a 12 anni con le umiliazioni seguite all’esclusione da scuola, le dita che la indicavano per strada, il silenzio indifferente «più violento della violenza». La vita normale che si sgretola poco a poco, i soldi che iniziano a scarseggiare, gli amici e i parenti che emigrano, e la voglia testarda di pensare che passerà, che «è solo una burrasca». E invece, dal 1943, inizia la caccia all’uomo di nazisti e repubblichini, la necessità di nascondersi e assumere nuove generalità, «che non volevo imparare a memoria». E poi il viaggio della speranza verso la Svizzera, attraverso le montagne dietro Varese, la corsa «in un’alba gelida con i vestiti da città», l’incontro con gli agenti di frontiera svizzeri, che li rimandano indietro e li consegnano nelle mani dei finanzieri in camicia nera. E le manette per il padre Alberto, i 40 giorni a San Vittore, rinchiusi nel 5° braccio, «l’ultima casina in cui abbiamo vissuto insieme»: i muri della cella, con i segni di chi era passato prima, «maledizioni, benedizioni, addii, firme». L’immagine di Alberto che piange di notte, inginocchiato di fianco al suo letto a chiederle «scusa per averla messa al mondo». E poi il giorno in cui arrivò un tedesco con la lista del trasporto, 600 ebrei tutti in fila indiana, accarezzati dalla pietà dei detenuti comuni che gridavano preghiere e lanciavano frutta e cioccolata. L’affetto del signor Bianchi, un omone che le gridò: «Abbi forza, ce la farai: e ricordati di me». E il viaggio «verso il nulla», lungo una settimana, stipati nel vagone «come vitelli che ansimavano per la sete alle inferriate»: «Buttavamo biglietti, chiedevamo acqua ma nessuno ci rispondeva». Il viaggio visto da dentro, con le lacrime, e i salmi di un piccolo gruppo raccolto al centro del vagone, fino al «silenzio assoluto delle ultime cose». Intanto il paesaggio che cambia attraverso le inferriate: le colline, le montagne, cartoline veloci e lontane.
All’improvviso il «rumore osceno e assordante di Auschwitz», dove «rimasi sola per sempre, quando anche la signora Morais, a cui papà mi aveva affidato, non superò la selezione e fu mandata al gas insieme ai suoi due figli». Per Liliana, invece, ci sono la svestizione, la depilazione, il tatuaggio del numero 75190, la trasformazione da persone a «pezzi numerati, quello che siamo diventati più di ogni altra cosa, perché i nazisti sono riusciti a privarci della nostra dignità».
Il grigio di Auschwitz: «dei volti, del cielo, delle baracche e della neve». E «l’odore dolciastro della carne bruciata che impregnava tutto». «Cominciò una vita che scelsi subito di non buttare via - ha detto la Segre, stretta nel tailleur marrone, ogni parola scandita con pacatezza e dignità -. Scelsi la vita, questo dono enorme che non si può mai buttare via». Dietro di lei piange la senatrice Daria Bonfietti, mentre le lacrime invadono i visi delle insegnanti appoggiate sul parquet. E alcuni ragazzi sdraiati guardano verso il soffitto, quasi uno schermo su cui passano le immagini: il corpo «avvilito e scheletrico, le piaghe, il freddo, le botte». «Mi sono dovuta sdoppiare, con l’anima non ero lì, volevo stare sola e non guardavo i mucchi di cadaveri accatastati. Inventavo immagini di prati, nuotavo nel mare della Liguria».
Segre ha trasmesso ai ragazzi la paura fisica che ha provato durante le tre selezioni che ha subìto in un anno di prigionia: come se ognuno dei settemila di Bologna, per qualche minuto, si sentisse al suo posto. Con lo «sguardo indifferente, mentre il cuore batteva forte e mi dicevo: voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere». Liliana alza il tono della voce, la sala trattiene il fiato. Lei continua: «Il medico si stupì di come fosse brutta la cicatrice della mia appendicite e disse: "Io l’avrei fatta meglio"». Liliana ce la fa, non la sua amica Jannine, una biondina francese di 20 anni. Poi ci fu l’arrivo dei russi, l’evacuazione del campo, l'inizio della «marcia della morte», la felicità quando «potevamo mangiare qualcosa da un letamaio», le ore di cammino nella neve rossa di sangue. «Eravamo dei piranha - dice Liliana - a Ravensbruck siamo arrivate solo in tre, io e due sorelle di Genova. Dalle baracche vedevamo la primavera, sognavamo di toccare i fili d’erba. E ci dicemmo: se torniamo a casa andremo insieme al ristorante. È successo davvero».
È quasi mezzogiorno, le parole si interrompono e gli studenti si alzano in piedi, in un applauso che sembra non finire. Elisa, una studentessa di Bologna, si avvicina con un mazzo di fiori: «Posso darti un bacio?» chiede Liliana. Elisa si mette a piangere. Mentre Myriam Cohen, dell’associazione «Figli della Shoah» che ha organizzato l’incontro, dice: «È da novembre che lavoriamo per questa mattinata: ho contattato personalmente le scuole, ho parlato con studenti, insegnanti e genitori. Alessandro Cuccaro della Consulta provinciale degli studenti mi ha aiutato moltissimo. E la partecipazione dei ragazzi è stata sorprendente per l’intensità».

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DA - L'UNITA'

Per non dimenticare Auschwitz
di Valentina Petrini

Il 27 gennaio 1945 Auschwitz fu liberata dalle avanguardie del 62° Corpo d'armata sovietico. Restavano solo poche centinaia di creature in vita delle centinaia di migliaia di donne e uomini che vi erano transitati.

Il 27 gennaio è il Giorno della memoria. In tutta Italia si ricorda un squarcio di storia che ci appartiene e fa parte del nostro presente. Dibattiti, proiezioni, mostre, incontri nelle scuole. Ovunque, dal nord al sud, per ricordare lo sterminio di un popolo intero.

Auschwitz è forse il simbolo più atroce della barbarie nazista.

Il 20 gennaio 1942 un piccolo gruppo di gerarchi nazisti si riunì in una località alla periferia di Berlino, Wannsee, per deliberare sulla cosiddetta "questione ebraica". Fu qui che venne decisa la "soluzione finale" la Endlösung, ovvero più brutalmente lo sterminio definitivo di un intero popolo.

Fu Himmler capo delle SS e comandante della Gestapo, a dare l’ordine di costruire un campo della capacità di almeno 100 mila persone. Il primo Auschwitz nacque nel 1940, vicino alla città polacca di Oswiecim. Rudolf Höss fu nominato comandante del nuovo Konzentrationslager (KL). L'enorme riciclo e affluenza di deportati spinse i tedeschi alla costruzione di Auschwitz II-Birkenau a 3 km di distanza. Nel 1942 fu costruito Auschwitz III-Monowice. Non fu abbastanza. Fra il 1942 e il 1944 sorsero altre 40 filiali di Auschwitz, dipendenti da Monowice, collocate vicino a fonderie, miniere e fabbriche.

Migliaia di prigionieri cominciarono ad affluire ad Auschwitz, per contribuire ai lavori, per lavorare a loro volta nelle aziende agricole e nelle fabbriche che sorgevano come funghi intorno al campo. Si trattava di imprese allettate dai bassi costi di produzione, dato che la manodopera era quella pressoché gratuita fornita dal Lager. Poi c'erano i vantaggiosi contratti di appalto, dai quali l'Amministrazione delle SS ritagliava generosamente la propria fetta di guadagno.

Le camere a gas hanno inghiottito interi convogli di ebrei, provenienti dalla Germania, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Ungheria, dal belgio, dall’Olanda, dalla Grecia e dalla Germania. Treni e treni di uomini, donne e bambini, stipati in carri bestiame, scaricati sulle rampe dei Lager ed avviati alle finte docce dove venivano uccisi con un gas letale, il famigerato Zyklon B. Veniva utilizzato nella disinfestazione dei pidocchi e fu utilizzato su larga scala per l'uccisione di massa nelle camere a gas.

Loro, i deportati di ogni età, servivano anche ad altro nella folle visione nazista. Erano cavie, corpi da sperimentazione. Gli specialisti delle SS studiavano gli effetti delle infezioni, degli aborti, delle pratiche di sterilizzazione, usando come cavie uomini, donne, bambini attinti dai convogli, prima di mandarli nelle camere a gas. Quando il crematorio non riusciva a smaltire la razione giornaliera di cadaveri, questi venivano bruciati in grandi cataste nei dintorni del Lager.

I numeri, difficili da raccontare perché troppo grandi. Sicuramente più di 2 milioni e mezzo di morti solo ad Auschwitz. Forse sei milioni in tutto. Di certo l'ecatombe continuò fino agli ultimi giorni, e cessò solo con la chiusura del campo. Per quantità e qualità, Auschwitz è stato il Lager dove l'inventario dei crimini, degli orrori e della morte ha assunto dimensioni apocalittiche.

Il 17 gennaio 1945 il campo fu sgombrato perché le armate russe stavano muovendosi in direzione di Cracovia. Migliaia di uomini e di donne furono abbattuti a colpi di mitra, quando non riuscivano più a muoversi.

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DA - LIBERAZIONE

Dell'attualità di Auschwitz

Annamaria Rivera

Avevo dieci anni quando uno zio antifascista e socialista, tanto giovane quanto impegnato, mi mise in mano il "Diario di Anna Frank", con poche decisive parole di commento. Fu la scoperta dell'orrore assoluto, incisiva e penetrante per il fatto che mi veniva rivelata da una adolescente nella quale mi identificavo. Ho sempre pensato retrospettivamente che da quel gesto in apparenza così minuto siano discesi l'orientamento e l'impegno a sinistra, la partecipazione al ‘68 e al femminismo, l'inclinazione antirazzista della mia ricerca antropologica. Non so se oggi vi siano ancora zii che trasmettono ai nipoti, in modo così sobrio ed efficace, l'eredità della memoria: viviamo un tempo di lacerazioni e fratture, ingarbugliato e opaco, in cui esile o reciso è il filo della comunicazione fra le generazioni, in cui sommovimenti epocali e dislocazioni degli schieramenti e degli attori politici hanno reso più arduo orientarsi e scegliere. Ma proprio oggi si fa più urgente il lavoro della memoria e più necessario il tentativo di rintracciare le mappe che trascendono la contingenza per restituirle più nitide e leggibili. E' a questo che può servire il Giorno della memoria, opportunamente quanto tardivamente istituito dal Parlamento italiano, data di un calendario civile che, nella ricorrenza della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ci ricorda che lo sterminio, prodotto tanto terrificante quanto coerente della modernità europea, non è una ferita rimarginata: come ha scritto fra gli altri Zygmunt Bauman (Modernità e Olocausto) sulla scia di Horkheimer e Adorno (Dialettica dell'illuminismo), oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che lo rese possibile «e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi».

E' questa la lezione di Auschwitz e la sua bruciante attualità: lo sterminio, «gigantesco esercizio di ingegneria sociale», per usare ancora le parole di Bauman, è figlio della "civiltà" europea, un figlio partorito dalla razionalità strumentale e alimentato dai mezzi potenti, la burocrazia e la scienza, messi a disposizione dalla modernità. In quanto tale, esso non è archiviabile, non appartiene al passato ma al nostro presente. Esso ci dice che la lunga storia europea dell'antisemitismo e del razzismo non è chiusa una volta per sempre: ce lo ricorda ogni giorno non solo lo stillicidio "ordinario" e/o istituzionale di dichiarazioni, discriminazioni e atti razzisti contro gli stranieri, ma anche l'allarmante ripresa a livello internazionale di una "destra plurale" (per usare la formula di Guido Caldiron, nel libro che ha lo stesso titolo), la quale ha come cifra comune il negazionismo e l'antisemitismo, impliciti oppure del tutto espliciti, rivendicati, addirittura propagandati rumorosamente e impunemente.

Le leggi razziali, la persecuzione e lo sterminio delle popolazioni ebraiche, e con esse dei rom e dei sinti, mai sufficientemente ricordati, la segregazione e l'annientamento degli omosessuali, degli oppositori politici, dei soggetti sociali indocili, deboli o malati, compiuti dal nazismo con metodicità burocratica e serialità industriale, certo furono resi possibili da una temperie e da circostanze storiche ben definite. E dunque opportuno è il richiamo di chi ci invita a non fare della persecuzione e dello sterminio un'essenza metafisica sottratta alla storia e all'interpretazione storiografica. Nondimeno, l'antisemitismo continua ad essere un modello paradigmatico che ci consente di comprendere non poche cose intorno al razzismo dei nostri giorni. Infatti, come ci ricorda Alberto Burgio nell'introduzione a un volume collettaneo (Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia: 1870-1945), gli ebrei hanno costituito la "perniciosa sintesi" di tutte le dimensioni che assume la razzializzazione dell'altro. L'antisemitismo è dunque il paradigma non solo del razzismo biologico, ma anche del "razzismo senza razze". La tendenza propria al razzismo dei nostri giorni, non a caso definito differenzialista, ad abbandonare l'argomento della "razza" in favore di un culturalismo che in realtà naturalizza le stesse culture (come le "etnie", le "identità", le "differenze", le "civiltà"…) ha il suo antecedente esemplare nella definizione degli ebrei come "razza storica" o "razza mentale", fatta propria da Hitler ed enfatizzata fra gli altri da Julius Evola, ideologo del razzismo fascista (vedi P. A. Taguieff, La forza del pregiudizio). L'odierna riduzione dell'immigrato musulmano a "estraneità radicale", a tipo «culturalmente ed etnicamente inintegrabile» (così lo definisce il politologo liberal Giovanni Sartori, in un inquietante libretto, Pluralismo, multiculturalismo e estranei) ha il suo prototipo nella definizione dell'ebreo data dall'antisemitismo nazifascista. Infine, la stessa struttura mentale paranoica che vede l'altro come il nemico interno, annidato nelle pieghe della nostra società, ove complotta e attenta all'ordine sociale - si pensi all'attuale ondata di islamofobia, esacerbatasi dopo l'11 settembre e la guerra permanente - è rappresentata esemplarmente nell'antisemitismo.

Tutto ciò ci imporrebbe una seria riflessione sulle rotture e le continuità, le analogie e le differenze fra i razzismi, una riflessione che purtroppo non fa ancora parte della coscienza civile italiana. Infatti, in Italia, come più volte ha rimarcato fra gli altri David Bidussa, la vicenda dell'antisemitismo e del razzismo è stata considerata come un corpo estraneo e analizzata come un evento non legato alla storia nazionale. Di qui, anche, discendono tanto la difficoltà e la riluttanza della società italiana a riconoscere, prendere coscienza e analizzare il "proprio" razzismo, quanto la sua debole reattività verso le forme, anche le più scoperte, di xenofobia e di antisemitismo. L'una e l'altro sono oggi in allarmante crescita, anche grazie a un governo che ha incorporato gli imprenditori politici del razzismo e alla polarizzazione che si è determinata dopo l'11 settembre e la proclamazione della guerra illimitata e permanente.

E a questo proposito, io ritengo che le polemiche, legittime anche quando massimamente aspre, sul ruolo del governo israeliano in carica dovrebbero attentamente guardarsi dal rischio di assumere l'ideologia e il lessico che è alla base di ogni razzismo: interpretando le vicende storiche in termini di "scontro fra civiltà", assumendo il linguaggio della "razza" o dell' "etnia", leggendo gli eventi presenti in chiave di scontro fra essenze metafisiche immutabili, imputando indistintamente agli "ebrei" come ai "musulmani" responsabilità politiche che vanno attribuite a ben precisi soggetti e interessi storici che si scontrano nell'arena internazionale.

Anche a questo dovrebbe essere utile il Giorno della memoria: non solo a rammemorare le vicende dello sterminio, ma anche a compiere un esercizio di interpretazione critica del presente, sobria e rigorosa, attenta a decostruire le visioni, i linguaggi, le strutture simboliche che tendono a naturalizzare la storia e la società, e a fare dell'Altro - un altro mutevole che di volta in volta si incarna in questi o quegli indesiderabili - l'indistinto capro espiatorio di tensioni e conflitti sociali, di interessi e scontri geopolitici (vedi R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L'imbroglio etnico). Così che "mai più Auschwitz" non resti retorico esorcismo, ma divenga quotidiano impegno intellettuale, civile e politico.

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DA - LIBERAZIONE

Storie di donne nel lager

di Ravensbruck

A Ravensbruck, campo di concentramento destinato, almeno nominalmente, alla rieducazione delle prigioniere (testimoni di Geova, zingare, antinaziste di vari paesi) e via via trasformato in campo di sterminio, morirono novantaduemila donne. Una delle donne che furono deportate in quel campo, Lidia Beccaria Rolfi, insieme a Anna Maria Bruzzone, ha raccolto in Le donne di Ravensbruck già pubblicato da Einaudi nel 1978 e riproposto oggi in occasione del "giorno della memoria", le testimonianze di alcune prigioniere sopravvissute a quella terribile esperienza, che descrive una parte importante della storia dell'universo concentrazionario nazista troppo spesso dimenticato.

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Bibliografia dell'orrore

Tonino Bucci

Se si volesse disegnare un percorso nella mappa dei libri dedicati alla memoria e alla storiografia sul nazismo e gli stermini, si dovrebbe partire dal premio Nobel per la letteratura, assegnato nello scorso anno allo scrittore ungherese Imre Kertesz. Di questo autore è stato pubblicato in Italia, nel 1999, Essere senza destino, un romanzo "esistenziale" ma con un forte profilo autobiografico. Sullo sfondo di un tema filosofico - la gratuità e il venir meno di ogni senso nell'orizzonte dello sterminio - Kertesz racconta la sua esperienza di bambino nel lager di Auschwitz. La proietta sul piano della finzione narrativa nel protagonista non ancora quindicenne Gyurka, costretto a separarsi dal padre in partenza per l'Arbeitsdienst (lavoro forzato). Alla domanda perché agli ebrei venga riservato un simile trattamento, il ragazzo rifiuta di condividere la risposta religiosa, «questo è il volere di Dio». Perché dovrebbe esserci un "senso"in tutto questo? Poco tempo dopo, anche Gyurka viene arruolato al lavoro forzato presso la Shell, e da lì, un giorno, senza spiegazione, viene costretto a partire per la Germania. Tuttavia, l'impulso vitale che domina la sua adolescenza è così forte e prorompente che ingaggia una lotta con gli eventi privi di senso in un mondo di arbitrio assoluto. La quotidianità nel lager è fatta di ordini e imposizioni che non vengono motivati, ai quali si obbedisce prima ancora di averli compresi. La sopravvivenza non può che essere - come tutto il resto - frutto di casualità e circostanze fortuite. La salvezza arriverà nelle vesti di un infermiere.

Altra pubblicazione rilevante, stavolta nel campo della saggistica, è il volume Lager, totalitarismo, modernità, una raccolta di interventi di storici e studiosi a un convegno genovese dall'omonimo titolo, uscito per Bruno Mondadori editore (pp. 308, euro 21,90). Il filo conduttore che lega le riflessioni è, innanzitutto, lo sforzo di offrire un panorama il più esaustivo possibile del sistema concentrazionario, concepito e attuato dal nazionalsocialismo. In secondo luogo, la dimostrazione del nesso non casuale tra il totalitarismo nazista e il sistema dello sterminio, da cui emerge come il lager non sia un effetto transitorio legato semplicemente alla guerra. Più recente è il volume, d'impronta nettamente storica, Hitler e l'Olocausto di Robert Wistrich (edizioni Rizzoli, pp. 320, euro 16,50). Qui, la «soluzione finale» e l'attuazione dello sterminio sono visti come un lungo processo, iniziato con la privazione di diritti nei confronti degli ebrei tedeschi prima e di quelli nei territori occupati dopo. Intervento giuridico, repressione e sterminio sono momenti di un unico percorso congenito nella struttura del potere nazista. Questo fattore strutturale si intreccia poi con lo stereotipo culturale negativo dell'ebreo, il quale affonda le radici nell'antisemitismo cattolico e protestante. L'ideologia nazista intercetta questi umori latenti nello spirito tedesco e intorno ad essi costruisce in maniera organica un progetto politico di dominio della società fondato sullo sterminio. Altre sezioni del volume sono dedicate all'atteggiamento degli Stati Uniti e dell'Inghilterra che non valutarono a sufficienza ciò che stava accadendo; ai fenomeni di collaborazionismo delle popolazioni locali allo sterminio, soprattutto nei paesi orientali occupati dai tedeschi; infine, alle forme attive di resistenza nei ghetti.

La rappresentazione dello sterminio non si esaurisce, però, nella ricostruzione storica. C'è anche il problema di studiare i meccanismi di distorsione che avvengono nei processi collettivi della memoria, sotto l'influenza di stereotipi, credenze, miti, semplificazioni. In Shoah (edizioni Net, pp.181, euro 7,00), Bruno Segre si occupa proprio della «alterazione della memoria», intesa come capacità di ricordare attivamente nel presente. Il genocidio ebraico non è solo un evento storico, ma la chiave di comprensione della modernità - poiché è nel cuore di essa che si è consumato - e del nostro tempo storico.

Tornando al versante narrativo, va segnalata anche Amici nonostante la storia di Bernat Rosner e Frederic C. Tubach (Feltrinelli, pp. 200, euro 13,50), l'autobiografia di un giovane tedesco e di un ragazzo ebreo ungherese che nella maturità diventano amici in California, nonostante l'irrevocabilità del passato. Fritz Tubach nel 1944 aveva 14 anni e stava per essere arruolato nella gioventù hitleriana del suo paese, Kleinheubach. In quello stesso anno a Tab, in Ungheria, il dodicenne Bernat fu caricato su un treno e deportato ad Auschwitz. «L'Olocausto - scrive Tubach - ha intaccato tutto quello che fa la santità e l'unicità dell'essere umano come individuo. Le nostre memorie sono un tentativo di opporsi e sfidare questo mortale livellamento degli essere umani».

Non si appoggia solo al testo, ma anche a un video Elogio della disobbedienza di Rony Brauman ed Eyal Sivan (Einaudi, pp. 200, libro + videocassetta euro 19,50). I due autori propongono uno scritto sui pericoli aberranti che si nascondono nella cieca obbedienza, considerata una pratica neutra e giustificatrice di qualsiasi azione compiuta in suo nome. E allegano il video sul processo del '60-'61 ad Eichmann, il grigio burocrate dello sterminio, che spinse Hannah Arendt a scrivere: «la normalità di Eichmann è molto più terrificante di tutte le atrocità commesse».

Di sapore letterario è Per violino solo di Aldo Zargani (Il Mulino, pp.237, euro 12,00), memoria ironica e intelligente di un ebreo italiano che nell'età dell'infanzia si trovò nell'inferno della persecuzione razziale. Bambina è anche la protagonista di Al di là del ponte, di Regina Zimet-Levy (Garzanti, pp. 243, euro 12,00). Una bambina ebrea che vaga per sette anni dalla Germania all'Italia, dalla Libia alle montagne della Valtellina, scampata alla morte grazie all'aiuto delle persone incontrate. Ambientato nella vicenda della deportazione degli ebrei romani, 16 ottobre 1943, anche Scappa Armando di Sergio Del Monte propone la storia di un bambino che si salva nella Roma occupata dai tedeschi solo imparando a mentire, raccontando di essere cristiano. Da ultimo, ma certo non per ordine d'importanza, è il testo di Elena Loewenthal, La colpa degli ebrei (Bompiani, pp. 96, euro 6,20), un volume rilevante soprattutto perché suggerisce una riflessione dall'interno dell'ebraismo. Domina qui il concetto di un destino al quale gli ebrei non possono sottrarsi, e dal quale sono costretti a non poter mai prescindere dalla propria storia, dalla Shoah e da quanto oggi sta accadendo in Israele e nei territori occupati.

Il nuovo razzismo in internet E' stato presentato giovedì a Milano l'ultimo numero della rivista della "Federazione Italiana Associazioni Partigiane" Lettera ai Compagni, diretta da Aldo Aniasi, interamente dedicato a un ampio dossier sulle "nuove destre europee in internet". Si tratta di una selezione del lavoro che il ricercatore Riccardo Rudelli ha svolto per conto dell'associazione partigiana consultando migliaia di pagine in rete. Rudelli ha organizzato per aree tematiche il suo studio, costruendo una vera e propria "enciclopedia" dell'estrema destra e del razzismo presente sul web, individuando le linee di continuità storica con il fascismo e il nazismo e le nuove maschere assunte dall'antisemitismo tradizionale.

Questo interessante numero monografico di Lettera ai Compagni contiene anche un intervento di Aniasi e un quadro delle destre radicali italiane, "L'arcipelago nero", stilato da Saverio Ferrari.