Alla Spa-Stura assemblea sul terrorismo,
sbandamento nella “base” sul caso Moro
e tanta rabbia verso i governi della Dc
Fiat: il sindacato alle prese con “l'indifferenza operaia”

Salvatore Tropea, la Repubblica 29 aprile

TORINO, 28. - Nel grande capannone della Fiat Spa-Stura, dove ieri mattina Bruno Trentin ha parlato a circa cinquemila operai riuniti assemblea per discutere dei terrorismo, c'era un grande cartello sul quale si leggeva: "Contro ogni terrorismo per migliorare questo Stato". Ma è possibile migliorare lo Stato facendo i discorsi ascoltati in quella assemblea? E' ciò che Trentin si deve essere chiesto lasciando la Spa-Stura. Il cronista che rilegge sul taccuino gli interventi annotati nel corso di quel dibattito ha l'impressione che nelle fabbriche si stia diffondendo un pericoloso senso di indifferenza, qualcosa di simile alla neutralità nel confronti del terrorismo. E' vero? Di certo le voci contro il terrorismo appaiono sommesse e anche se non lo si ammette ufficialmente ciò è dovuto alla paura che a Torino ha indubbiamente una sua comprensibile ancorché umana giustificazione. LA CONDANNA ufficiale non manca, ma fa pensare più a una specie di rabbia contro il governo o meglio contro i governi che si sono succeduti in questi ultimi trent'anni. E questa rabbia sovente porta a confondere irrazionalmente lo Stato col governo, dimenticando che il primo, come dice Norberto Bobbio, per quanto degenerato, può essere sempre modificato "sine effusione sanguinis" e che fuori da questa strada c'è il dispotismo e la guerra civile. Dal che, come avvenuto ieri mattina, può capitare di veder nel silenzio la notizia dell'ultimo attentato delle Brigate rosse contro un dirigente Fiat. Il rappresentante del consiglio di fabbrica non ha dubbi sul fatto che le Brigate rosse e il terrorismo in generale tendono a sovvertire le istituzioni democratiche e può gridare alle Br che "le loro imprese non ci rappresentano oggi né ci rappresenteranno mai". Ma l'operaio che prende la parola subito dopo afferma che "queste istituzioni non meritano il nostro appoggio". Forse non c'è convinzione nelle parole di quest'ultimo, ma solo rabbia, delusione, amarezza per questa Italia e per i suoi problemi e per i problemi che sembrano doverla sommergere da un giorno all'altro. E' una voce isolata? Non sembra poiché l'intervento che segue è quello di un operaio per il quale "da trent'anni noi subiamo il terrorismo nelle fabbriche, con i capi fascisti, con la pensione che si aspetta per mesi, con l'emigrazione selvaggia". E' quasi uno sfogo che approda a dichiarazioni pericolose e ad affermazioni contraddittore. "Io non condanno le Brigate rosse e non condanno nessuno. Sono contro il terrorismo, ma so che bisogna subito fare le riforme". Dalle tenebre di questo oscuro malessere affiora la linea del movimento sindacale, il desiderio di rinnovamento del paese. Un desiderio così forte che induce un operaio a ipotizzare una assurda applicazione della legge del taglione. "Se non liberano Moro e lo uccidono allora lo Stato deve fare altrettanto con i tredici per i quali è stato chiesto lo scambio". E' possibile che un operaio sindacalizzato e politicizzato della Fiat faccia una simile proposta? "Non ci credo neppure io a una soluzione di questo genere - aggiunge lo stesso che l'ha fatta - . E' che non si sa come uscire fuori da questa situazione". Certo si avverte uno sbandamento che però non dovrebbe essere difficile recuperare, poiché alla base di tutto c'è una diffusa insoddisfazione e la volontà di rifondare questo Stato. "Questa situazione drammatica - osserva un altro operaio- non è nata ieri: essa è la conseguenza del non governo, delle storture di questo Stato. Non si può assolvere Ordine nuovo e poi dire che si vogliono battere le Brigate rosse". Altri ancora chiedono che siano processati i politici colpevoli, che si ponga fine al fenomeno tutto italiano dell'insabbiamento degli scandali, che sia cambiata questa classe politica corrotta e corruttibile. "Il processo di Torino - tuona un operaio non più giovane - deve andare avanti, ma devono andare avanti anche i processi di Catanzaro, della Lockheed e tanti altri". Forse alla Spa Stura hanno parlato solo gli “arrabbiati”, ma nessuno li ha certamente contestati; mentre il rappresentante della Democrazia cristiana è stato fischiato anche quando ha detto che Moro è un uomo che ha avuto riconoscimenti da tutto il mondo.

Il giornalismo come servizio
Andrea Barbato, La Stampa 25 aprile

All'improvviso, in pochi lunghissimi giorni (ma quanti anni sono passati da quel 16 marzo?), per noi che facciamo il mestiere dell'informazione, due filosofie della notizia sono diventate egualmente e simmetricamente inservibili: da una parte, l'astratta rivendicazione di un diritto liberale, cronaca a tutti i costi, quarto potere, il mito del giornalista anglosassone, l'illusione della neutralità professionale, il rifugio nella tecnica, il giornale come specchio imparziale del mondo. E dall'altra parte, l'ipotesi di una società in libertà condizionata, e di una stampa che possa essere forzata entro una grata di discipline e di regolamenti, seguendo una strategia di contratti silenzi in nome di un piano più generale. Questo povero mestiere è rimasto a nudo, per quel che è: non una scienza, ma un servizio che richiede ogni giorno, ogni minuto, l'esercizio della ragione, l'intervento della coscienza morale e sociale, la capacità di scelta. Un mestiere fatto da uomini legati ad altri uomini da un foglio o da un microfono. Ma davvero è così importante, il “caso di coscienza” dei giornalisti, mentre ci si interroga se domani vivremo ancora in una società civile? Siamo turbati come cittadini, non come giornalisti. Nel mestiere che facciamo, il “caso di coscienza”, sia pure fortunatamente in casi meno tragici, è quotidiano. Ogni giorno, e non sempre senza passi falsi, dobbiamo percorrere il sentiero strettissimo fra astratte libertà e spontanei doveri, fra ciò che sappiamo e ciò che scriviamo. E ciò non per autocensura, ma perché sappiamo che il nostro taccuino non potrà mai contenere tutta la verità. Non è tempo di orgogli corporativi. Non abbiamo altro strumento, ogni giorno, che l'attenzione critica. E' questa che ci fa distinguere, senza indurci al silenzio, fra le inefficienze e le responsabilità del potere e l'aggressione del terrorismo, senza confonderne i segnali così diversi. Nel dibattito di questi giorni, così teso ed intenso, è sembrato che il mondo politico abbia scoperto quasi con stupore la delicatezza del problema dell'informazione e il grande senso di responsabilità dei giornalisti: ma stupisce lo stupore, perché il buon giornalista, anche quando - in tempi quieti - critica o denuncia, non lavora per distruggere, ma per riformare. E la società delle piazze e delle fabbriche ha trovato motivi di solidarietà che sono stati evocati anche dai mezzi di comunicazione. Perciò il dibattito “tecnico” su cosa pubblicare e cosa tacere mi sembra opaco, laterale. Certo, ci vuole senso di responsabilità, rifiuto della propaganda involontaria e del sensazionalismo, valutazione di ogni significato, correttezza anche grafica. Con poche eccezioni, il mondo giornalistico italiano ha risposto unanime, invocando insieme la propria capacità di decisioni, la maturità del pubblico, il dovere di una democrazia di riflettere su se stessa, anche sulle proprie debolezze e sui propri errori. Ma non è sempre così? Foto e messaggi dei terroristi non sono certo un materiale neutro, eventuali nastri o verbali emergono da una fonte tanto oscura quanto segnata da un'origine infame. E questo lo sappiamo noi, lo sa la gente che legge i giornali o guarda la televisione. Dannati giorni di marzo, giorni sospesi che non si sarebbe voluto vivere, e meno che mai seduti su una sedia da dove bisogna invece addirittura raccontarli agli altri, ora per ora, con il timore di sbagliare, di non essere abbastanza lucidi e freddi, senza emozioni né impazienze. Giorni di rabbie, insonnie, convinzioni aggredite, riflessioni disordinate che faticano a diventare ragione, speranze invecchiate in pochi minuti, la voglia di vivere in una società luminosa, efficiente, dove ciascuno fa il proprio mestiere in pace con se stesso e con gli altri, per un progetto comune… E invece, l'incubo privato che si sovrappone a quello collettivo, il passaggio quotidiano di fronte a quei grigi quartieri di Monte Mario, e i soldati dietro i sacchi di sabbia sulle vie consolari: la macchina è vuota, e chi la controlla con cortese efficienza non sa che anche noi, come tutti, ci portiamo dietro, invisibile, un bagaglio di partecipazione frustrata, di impotente voglia di fare qualcosa, di capire… Cuori gonfi, e parole che non vengono. Un sentiero stretto, dicevamo. E cosa ci può guidare, se non il lume, esposto a tutti i venti, del senso critico e della ragione laica? Vorremo scrivere lettere, forse lettere private. No, non bisogna mai “staccare la spina”, vorrei dire in risposta alle sciocchezze di Marshall McLuhan, che vuole negare a tutti la capacità di sapere, di capire, di partecipare, di non subire l'oltraggio da soli, di non essere messi sotto tutela. Il mezzo non è il messaggio, e solo il silenzio è freddo, allarmante e popolato da fantasmi. No, non bisogna mai sentirsi “estranei”, vorrei scrivere a Moravia, nemmeno con dolore per questa scissione, nemmeno quando la tentazione è forte: perché allora vuol dire che si è già patito il ricatto che vuole opporre la violenza del terrorismo alle colpe del potere. E chi non le vede, quest'ultime? Chi non si accorge che viviamo all'ombra di un Palazzo inefficiente, autoindulgente, vittimistico? Ma ciò non produce estraneità. E anzi, una cultura critica che voglia modificare il potere, non è l'arma migliore contro la violenza armata di chi quel potere vuol solo distruggerlo? E vorrei scrivere a Sciascia che il silenzio non è accettabile, nemmeno quando è eloquente e raziocinante come il suo: anche lui “stacca la spina” e il buio fa grigia ogni cosa. Solo quella ostinata fiammella ci può far vedere il sentiero. Viaggiamo fra gli errori della democrazia, e nervosi rimedi più funesti degli errori. Sappiamo bene quale cultura distruttrice abbia prodotto oscene e grottesche caricature della classe dirigente, ma sappiamo quali mali verrebbero dalla fine della libertà d'espressione. Assistiamo all'uso distruttivo delle libertà, ma non possiamo smettere di batterci per esse. Le leggi appaiono inefficaci, ma non possono alterare la nostra vita istituzionale senza fare il maggior regalo ai terroristi. E dovremmo chiudere le Università di Trento e di Bologna perché vi hanno studiato Curcio o, molto diversamente, Bifo? Concordiamo con chi accusa le nefandezze di certa sottocultura d'appoggio, l'odio che è stato allevato in alcune culle antropologiche: ma possiamo smettere di consentire agli altri di avere idee diverse dalle nostre? La fabbrica, crogiolo della democrazia industriale, può diventare un luogo sotto accusa, pattugliato dalle ronde? La strada è strettissima, ma è l'unica percorribile. Per l'informazione, ai due lati del sentiero ci sono due voragini: la prima è il silenzio imposto, l'altra è il mito astratto della notizia. Efficienza e ragione non sono strumenti da tempi di emergenza, ma da ogni tempo. Il buon governo è un confine mobilissimo, che richiede menti duttili. Una chirurgia da mani leggere, che deve estirpare il male senza uccidere il malato. Cosa si è fatto contro i cortei duri, le assemblee d'odio? E perché nessun ministro ha “staccato la spina”, quella sì, di quelle radio che hanno tenuto per anni lezione di violenza? La ragione non è uno strumento d'indulgenza, ma di rigore. Non ammicca, non giustifica, non perdona, non idealizza. E nel nostro mestiere dell'informazione, messaggio di cittadini ad altri cittadini, può guarirci dal mito del giornalismo e delle libertà astratte, ma anche dalla tentazione del silenzio.

Unità e rigore.
Enrico Berlinguer, l'Unità 19 marzo

Viviamo giorni gravi per la nostra democrazia. Abbiamo parlato di pericolo per la Repubblica. Non è un cedimento all'emozione, è un giudizio politico che parte dalla consapevolezza delle forze potenti, interne e internazionali, che muovono le fila di questo attacco spietato contro lo Stato e le libertà repubblicane. Il Paese ha capito e milioni di uomini si sono mobilitati dando la risposta giusta, la più ampia e la più unitaria. Comunisti, socialisti, democristiani, cittadini e giovani di ogni fede politica si sono ritrovati in piazza con le loro bandiere e con una comune volontà di difendere la democrazia. E in Parlamento le forze politiche democratiche hanno dato vita ad una maggioranza nuova per la presenza in essa, dopo più di trent'anni, del partito comunista italiano: fatto che ha assunto particolare significato per il momento in cui è avvenuto, superando di slancio dubbi e incertezze di ogni parte che pur erano presenti dopo la conclusione della crisi di governo. E' facile immaginare quale sarebbe oggi la situazione, quale lo smarrimento, se non vi fosse stata questa risposta del Paese e del Parlamento. E' chiaro adesso perché abbiamo lavorato così tenacemente per evitare uno scontro lacerante che avrebbe provocato l'ingovernabilità del paese, la paralisi dei pubblici poteri e lo scioglimento delle Camere. E' chiaro perché abbiamo posto al centro di tutta la nostra azione la necessità di fronteggiare l'emergenza attraverso una collaborazione chiara tra le forze politiche fondamentali. Si è affermato che Aldo Moro è stato rapito proprio per colpire un simbolo, tra i più significativi, di questo sforzo, teso a impedire lo scollamento politico e istituzionale. Ma al di là della persona di Moro - (al quale rinnoviamo, in questo terribile momento, la nostra stima e solidarietà) - si è voluto colpire l'insieme della democrazia italiana. Il terrorismo e la violenza politica mirano a questo: a sostituire la presenza, l'iniziativa, la partecipazione, e quindi la crescita della coscienza politica di masse sempre più grandi di popolo, con la guerriglia di bande di fanatici a colpi di spranga e pistola. E' la conquista più grande del popolo che viene minacciata. Si vuole impaurire la gente, disperderla, svuotare le istituzioni rappresentative e preparare così il terreno a nuove dittature. E' giunto il momento di decidere da che parte si sta. Noi la scelta l'abbiamo fatto. Essa è scritta nella nostra storia. Il regime democratico e la Costituzione italiana sono conquiste decisive e irrinunciabili del movimento popolare, delle sue lotte, del suo cammino, non ci sono stati regalati da nessuno. Molto c'è da rinnovare nella società e nello Stato, ma guai ad allentare la difesa delle conquiste realizzate e delle istituzioni repubblicane. Non c'è oggi compito più urgente e più concretamente rivoluzionario che quello di fare terra bruciata attorno agli eversori. Facciano il loro dovere, fino in fondo, i corpi preposti alla difesa delle istituzioni. Faccia il proprio dovere ogni cittadino democratico. Nessuno si lasci prendere dalla sfiducia, tutti contribuiscano, quale che sia la loro funzione, a mandare avanti la vita del paese in tutti i campi. Faccia il suo dovere la classe operaia che sta diventando sempre più la forza che in concreto garantisce gli interessi fondamentali della nazione e la capacità di reggere a tutti gli urti. Come partito comunista continueremo a fare la nostra parte. Ma questa mobilitazione straordinaria, questa vigilanza di massa del nostro popolo chiedono, sollecitano, una guida politica nuova del Paese. Ha colpito tutti, giovedì, l'assonanza tra Paese reale e Paese legale, tra società civile e il Parlamento. Tutti capiscono che ben altro governo sarebbe stato necessario, un vero governo di unione democratica. Ma il rischio di una grave lacerazione è stato evitato, una nuova maggioranza parlamentare si è formata e vi è un programma che consente di fronteggiare l'emergenza secondo linee che vanno al di là dell'immediato. Si tratta di un passo avanti, che attende ora la prova dei fatti. Il nostro proposito è che la più ferma difesa della convivenza democratica si accompagni, finalmente, al rigore, alla pulizia, all'efficienza. Bisogna risanare lo Stato. La cosa pubblica deve essere amministrata seriamente. E questo vale per tutti: per i più alti funzionari e dirigenti delle imprese statali come per i più umili impiegati. La carta fondamentale che viene giocata contro le forze del rinnovamento è la disgregazione, il lassismo, il non governo. Il rigore è una scelta nostra, come lo è l'austerità: è la leva per cambiare le cose e non soltanto per impedire il collasso. Ciò è reso possibile dalla presenza nella maggioranza dei partiti delle classi lavoratrici. Il PCI reca in questa maggioranza anche un modo nuovo e più alto di sentire gli interessi nazionali, una nuova moralità. Già da tempo la classe operaia influenza, più o meno ampiamente, l'indirizzo politico nazionale. Oggi può esercitare tale influenza politica in modo più diretto. Il passo avanti realizzato nell'unità delle forze fondamentali del nostro popolo reca il segno dell'emergenza. Noi staremo in questa maggioranza parlamentare con la lealtà e fermezza. Daremo il nostro sostegno, ma eserciteremo un incisivo e metodico controllo. Ci adopereremo perché ogni decisione sia coerente col programma e anzitutto con le sue priorità: ordine democratico, salvezza della scuola, occupazione, Mezzogiorno. C'è però chi concepisce la soluzione attuale della crisi come una semplice tregua. Troppo grandi sono i problemi che la nuova maggioranza dovrà affrontare, troppo alta è la posta in gioco per poter giustificare un atteggiamento puramente attendista e passivo qual è quello di tregua. E' il momento dell'iniziativa e dell'azione solidale con il Paese: altrimenti tutti ne pagheremmo lo scotto. Molto dipende dunque dallo sviluppo nel profondo del Paese di movimenti che rafforzino il tessuto democratico e rendano più salda ed estesa l'unità tra le forze popolari.

Il terrorismo non è soltanto un complotto
e combattere ogni forma di violenza".

Giuliano Ferrara, l'Unità 24 marzo

Esso trova coperture ed è anche un prodotto della crisi italiana I giorni della rivolta popolare all'eccidio di via Mario Fani e al rapimento di Aldo Moro suggeriscono qualche riflessione. Visti da Torino, forse, qualche riflessione in più. Questa è la città in cui nuclei armati delle BR hanno alzato il tiro tre volte in un anno: Croce, Casalegno, Berardi. Ogni volta colpendo un obiettivo, direttamente o indirettamente collegato alla tormentata vicenda del “processo”. E' la città in cui più massiccia si è fatta, nei mesi trascorsi, la offensiva militare e ideologica diretta a esautorare la Repubblica seminando, prima di ogni altra cosa, la sfiducia, la rassegnazione, la passività operaia: propaganda nelle fabbriche, incendi nei reparti, ferimenti a catena dei capi officina di Mirafiori e Rivalta. Qui ha avuto un esito solo parziale lo sciopero di protesta indetto per l'attentato a Carlo Casalegno. Ma il 16 marzo in questa città è cambiato qualcosa. Piazza San Carlo era già quasi piena mentre le fabbriche si svuotavano ancora. E questo è accaduto nelle cento città. A Torino però, si è registrato uno scarto sensibile e significativo, un avanzamento illuminante nell'identificazione della classe operaia con le istituzioni democratiche. Lo si è visto, oltre che nella sua compattezza, nelle mille forme della mobilitazione, nella discussione minuta, nell'orientamento univoco e dei pronunciamenti. Restano zone d'ombra e settori dell'organismo sociale ancora impermeabili, nella inerzia, alla influenza delle idee forza che hanno determinato un alto grado di unificazione civile. Ma se è vero, come ha scritto “Nuovasocietà”, che la manovra dipanatasi a Torino, a ridosso del processo delle BR, è consistita nel fatto che “gruppi e classi hanno perduto (o stanno perdendo) la proprietà esclusiva dello stato si servono della diffusa estraneità al vecchio equilibrio istituzionale per impedire la nascita del nuovo”, bene, il 16 marzo ha dimostrato come questa insidia può essere schivata. Detto questo, vale la pena di osservare che la strada dell'espansione in ogni ambito della società civile organizzata di una lucida consapevolezza dei pericoli e dei caratteri di questa nuova fase dell'offensiva terroristica è ancora lunga e disseminata di indicazioni fuorvianti, per certi aspetti vere e proprie trappole. Ritengo utile segnalarne almeno due. La prima consiste nella riemersione, in forma rozzamente schematica e meccanica, di una teoria del complotto capace di spiegare ciò che accade. Si tratta di una soluzione logica. E questa “soluzione”, in verità la più facile, sembra favorita da una serie di concomitanze che hanno colpito la nostra fantasia anche al di la del loro rilievo “oggettivo”: la tecnica dell'attentato, il giorno scelto per metterlo in atto, la spavalderia che allude a condizioni di sicura impunità, lo stesso ambizioso obiettivo (l'uomo più rappresentativo, oggi, del sistema politico italiano, il centro del centro di tutti gli equilibri possibili). Forze che operano per dissestare i nuovi equilibri della democrazia Certo, quello italiano è un caso unico di debolezza dello Stato congiunta all'apertura di spazi istituzionali, sempre più larghi, entro cui sembrano “assestarsi” nuovi equilibri di potere fra le classi. Ciò che la democrazia italiana produce in termini di trasformazione, in una parola il suo segno avanzato e aperto agli esiti di un processo socialista in occidente: tutto questo incute paura e induce forze potenti, interne ed internazionali, a lavorare per “dissestare” questi nuovi equilibri. Evocarle, queste forze, non è affatto sbagliato. Ma se questa giusta considerazione delle cose dovesse condurre a una sottovalutazione del grado cui sono insieme giunti la crisi del paese, la degenerazione del tessuto sociale nei suoi punti più deboli e lo scollamento grave della sua stessa identità culturale, l'effetto sarebbe disarmante. Per troppo tempo abbiamo indugiato a considerare i gruppi terroristici che operano nel paese come una variante qualsiasi di un disegno di destabilizzazione che avrebbe potuto avere basi, consensi, diramazioni solo a destra e solo come prodotto di una “provvidenziale” astuzia reazionaria. E per questo ci siamo spesso voluti stupire di fronte alle forme più subdole di reclutamento, di propaganda, di radicamento delle formazioni terroristiche in limitatissimi emblematici segmenti di sottoproletariato, di gioventù di classe operaia. Marcare dunque, nel giudizio sul rapimento di Aldo Moro, un segno di novità, un salto brusco in avanti della strategia della provocazione non deve significare l'abbandono di un giudizio sul fenomeno terroristico in quanto tale, sulla sua storia, sulle sue radici nell'attualità sociale, politica e culturale della società italiana. D'altra parte, le stesse schizofreniche reazioni di settori di punta dell'estremismo politico, del partito armato e del movimento armato (“né con lo stato, né con le BR”, “né una lacrima, né un minuto di sciopero per Aldo Moro”) dimostrano secondo me ampiamente, che ideologia e pratica delle formazioni terroristiche mantengono, nello stesso momento in cui sono aspramente combattute e recisamente isolate dalla maggioranza del popolo, una loro indubbia quanto perversa efficacia per lo meno psicologica e si configurano, nei punti di più profonda degenerazione degli effetti di crisi, come un messaggio persuasivo. Per certi versi è incredibile, ma è così. Sottovalutare questo aspetto della questione è dare per risolto una volta per tutte (e per tutti) il problema della lotta al terrorismo come l'iniziativa di un'unica linea di iniziativa contro l'imbarbarimento della vita civile, contro le posizioni nulliste e le blaterazioni giustificazioniste, sarebbe un secondo, pericoloso errore. Il messaggio dei rapitori, sbrigativamente liquidato come semplice testimonianza di una miseria intellettuale e morale infinita (Dio solo sa se non è anche questa), appare come arbitraria semplificazione sociologica del concetto economico, politico e filosofico determinante per la nostra epoca: la lotta delle classi. Forse quel messaggio, come dice De Mauro, è tradotto dal francese, o scritto da un uomo che pensa in spagnolo, come suggerisce Arrigo Levi. Ma è vergato in italiano, sulle modulazioni di un gergo marxista impazzito, il volantino del comitato autonomo tale o tal'altro (di cui si ha diretta testimonianza in molte località) che proclama compagni i brigatisti rossi, che organizza il crumiraggio antioperaio in nome delle vittime degli omicidi bianchi. Infine sarà anche questa una semplificazione: ma non è stata derivata dal fallimento della legge Anselmi. La possibilità di un terrorismo come estrema risorsa della disperazione e dell'illusione romantica? E non si è aggiunto, più tardi, che tra la legalità illegale di uno Stato che si arroga il diritto di fare un processo e la rivoluzione garantista di una combriccola di collegiali è impossibile scegliere?

Responsabilità degli intellettuali.
Eugenio Garin, l'Unità 24 marzo

Il filosofo prof. Eugenio Garin è intervenuto mercoledì al convegno su “Intellettuali e libertà” organizzato dal Comune di Firenze. Dal suo intervento riproduciamo qui un'ampia parte in cui lucidamente egli delinea il ruolo e le responsabilità della cultura nella lotta per la difesa e l'espansione dei valori fondamentali della democrazia. Chi visse le esperienze della distruzione delle libertà da parte del fascismo emergente soffrendole, talvolta non senza debolezze o errori, ha imparato a proprie spese varie cose: e, innanzitutto, le gravi responsabilità degli uomini di cultura, sia per la pretesa di alcuni di sottrarsi al preciso dovere di partecipare alla lotta, sia per le complicità aperte o equivoche di troppi con l'ideologia dominante. Ma altro ancora si e venuto dimostrando: la inscindibilità di educazione umana e libertà; la vocazione delle classi emergenti alla difesa della libertà proprio perché la loro liberazione è legata alla rottura della situazione, rottura che non può maturare se non nella dinamica delle antitesi e nella forza di nuove idee. Non a caso le squadre fasciste d'azione furono largamente alimentate dai figli di una piccola borghesia inquieta e insoddisfatta, o di gruppi privilegiati tesi a difendere posizioni in pericolo. Non a caso la violenza di rivoluzioni immaginarie, esaurite nell'esaltazione verbale della fantasia, è riuscita solo a bloccare di fatto le ascese reali. Per questo quelli che lavorano sul serio, che hanno imparato a riconoscere la severa logica delle cose, e che il mondo vogliono cambiarlo davvero, e farlo più giusto, sono in tutto alieni dagli infantilismi velleitari e, mentre costruiscono nella strategia dei tempi lunghi la loro forza, rifuggono dalla violenza sopraffattrice e incomposta. Per questo, purtroppo, anche se destinati a vincere alla fine, possono essere sorpresi e sconfitti, dall'attacco improvviso nella guerra lampo. E se è vero, come è vero, che democrazia è - come dice la parola - regime di popoli liberi, è pur vero che essa è terribilmente fragile. E' fragile perché vuole educare nella libertà, e col metodo della libertà, anche i negatori della libertà che rifiutano le regole del giuoco. Mentre “la libertà” - come ci ha insegnato Cattaneo - “è l'esercizio della ragione”, i nemici della democrazia, e della libertà, rifiutano la ragione ed esaltano l'irrazionale nelle sue forme più seducenti e insidiosi. Di qui la necessità di una ragione capace di riconoscere la funzione anche dell'irrazionale, così da combatterlo e superarlo dialetticamente nella sua sempre risorgente presenza; di qui la necessità di una forza capace di vincere la violenza senza farsi violenta: di una libertà, di una ragione, di una cultura. Insomma, sempre armata come Atena.… Gli intellettuali troppo spesso hanno mancato, sia sotto il fascismo che dopo, fino a ieri, fino a oggi. Se infatti l'attuale situazione italiana, con la sua drammaticità, invita tutti a precise prese di posizione, costringe anche a rigorosi esami di coscienza. Coloro a cui spettava per competenza la difesa, e prima ancora la determinazione di quei fini e valori, dove erano e che cosa facevano quando saliva la marea dell'intolleranza - quando, prima del terrorismo armato, imperversava quello delle parole e delle ideologie, quando minoranze rissose e tracotanti soffocavano con generiche condanne ogni sia pur pacato dissenso - e questo nelle aule degli stessi massimi istituti di cultura? E' giusto rivendicare la libertà, combattere la violenza, proclamare l'identità di libertà e cultura, di libertà e ragione, esecrare atti che rievocano oggi le punte estreme della barbarie nazista, con la totale degradazione dell'uomo a animale da macello, da uccidere a freddo per diffondere terrore. Tutto questo è giusto e noi siamo qui anche per manifestare condanna ed esecrazione - ma non solo per questo. Verremmo meno proprio alla funzione che ci e propria, se non ci domandassimo perché. Perché in fondo a ognuna di queste vie dell'orrore - droga, violenza, morte - troviamo tanti giovani e scuole e studenti: e scuole più che fabbriche? Perché angoscia e colpa, e atteggiamenti disumani, troviamo così spesso maturati e alimentati dalla scuola, con tutto il seguito di debolezze, di oscure complicità, che costituiscono una sorta di alone sinistro intorno a troppe scuole? Le cui droghe, diciamolo almeno una volta, non sono solo l'eroina e gli allucinogeni, ma troppi discorsi pseudorivoluzionari, troppi “slogans”, troppi cattivi prodotti della industria culturale, dall'editoria allo spettacolo, che sotto il segno della liberazione in realtà hanno contribuito solo alla degradazione dei più indifesi, perché meno esperti e maturi? Non è qui il luogo di analisi lunghe e amare. Ma se vogliamo che la cultura si unisca al moto onesto e chiaro di tanta parte delle forze del lavoro: “se non vogliamo aggiungere solo uno svolazzo retorico” a quella che è una tragedia, allora dobbiamo davvero avviare un'inversione di marcia nel punto decisivo per un'attività culturale degna di rispetto. La forza di una cultura, infatti, si misura nella formazione delle nuove generazioni: si realizza nelle scuole. La sconfitta dell'antifascismo si rivela a pieno nella mancata riforma della scuola, che a cominciare dal 1945 avrebbe dovuto essere radicale è totale, anche se per necessità scandita nel tempo. Voglio credere che le colpevoli compiacenze, le complicità, le viltà, che hanno travolto tanta parte degli istituti scolastici e di cultura - e v'ha, chi, non soddisfatto, non sa ancora parlare che di distruzione - voglio credere, dico, che quanto di male è stato fatto alla gioventù italiana dalle colpevoli indulgenze di tanti dei cosiddetti intellettuali italiani, sia il frutto di una sorta di complesso di colpa per la precedente lunga indifferenza, spesso coperta dal comodo alibi che il fascismo era stato come la famosa invasione dei re pastori in Egitto: una onda di piena che aveva lasciato indenni scuola e cultura. Purtroppo il dramma che oggi ci travaglia ha radici lontane, profonde e molteplici. La reazione unanime di tanta parte del popolo ci offre tuttavia un'occasione da non perdere. Assolva la cultura qualcuno dei suoi compiti. Abbia il coraggio, oltre che di una diagnosi severa, di un'autocritica impietosa, e di interventi decisivi nei campi che le sono propri. Contribuisca a ristabilire i rapporti, in positivo, come in negativo, con quel passato storico che ci condiziona, e che non si cancella con l'ignoranza e col rifiuto isterico. Richiami energicamente al rispetto di quei valori fondamentali che costituiscono la sostanza di ogni società umana. Smascheri gli equivoci nascosti sotto il continuo appello a una crisi di valori, giustificatrice di ogni trascorso. Senza dubbio le tavole dei valori cambiano, come mutano gli istituti sociali, ma non a capriccio, e, soprattutto, almeno finché dall'uomo non sarà nato un essere tanto diverso dall'uomo, quanto l'uomo dalla scimmia, certi principi fondamentali, certe norme, certe condizioni dell'esistenza e della coesistenza, non muteranno; fra questi il rispetto dell'uomo per l'uomo, e per la vita umana. Io rifiuto la pena di morte, e non perché i tribunali possono sbagliare, o perché non serve: la rifiuto perché non riconosco a nessun uomo il diritto di dare la morte all'uomo. Mi sia concesso concludere con un testo di tanti anni fa - della prolusione del mio rettore del 15 novembre 1945, in memoria degli studenti e dei professori dell'università di Firenze morti per la libertà. Sono parole lontane, ma forse non senza qualche eco presente. “Nelle bande partigiane - disse allora Calamandrei - studenti universitari, e contadini e operai erano affratellati: avevano ritrovato di fronte al pericolo questa sensazione di fratellanza umana, questo rispetto della libertà sentita non come individualismo, ma come altruismo, senza il quale è vano sperare in un domani migliore. Questa stessa ispirazione di fratellanza e di solidarietà deve continuare nella vita civile... Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica, ma alla base ci deve essere questo sentimento di fede nell'uomo, di rispetto della dignità dell'uomo, che è poi una grande ed eterna idea cristiana; e gli studenti... bisogna prima di tutto, che non si appartino dai grandi ideali umani che accomunano… tutti gli uomini di buona volontà”.

Mirafiori: parliamo degli “indifferenti”...
Pier Giorgio Betti, l'Unità 7 maggio

TORINO- Cinquanta giorni da quel tragico 16 marzo e dalla dura, fermissima risposta operaia con lo sciopero spontaneo, i reparti vuoti, i lavoratori nelle strade. Come li ha vissuti la grande fabbrica? Cosa è accaduto “dentro”? Cosa dicono e pensano i lavoratori, ora, dopo lo stillicidio di nuovi attentati, dopo queste settimane di un'attesa angosciosa che sembra non dover più finire? Insomma, veniamo al dunque: quest'area dell'indifferenza o della “comprensione” verso le brigate rosse, di cui si parla spesso, in che dimensioni persiste ancora? Si sta davvero riducendo? E' vero che la “palude” comincia a prosciugarsi? Buttiamo la domanda sul tavolo attorno al quale sono seduti alcuni compagni delle sezioni comuniste della FIAT Mirafiori, la “grande fabbrica” per antonomasia, anzi la più grande in assoluto: una sorta di città di officine nelle quali è passata e passa tutta la storia di questo trentennio, il bene e il male, il vallettismo e la ripresa operaia, il “boom” dai piedi d'argilla e la crisi, le conquiste dell'ultimo decennio e poi le manifestazioni dell'attacco terroristico, i volantini firmati BR, gli incendi firmati BR. Il compagno della “meccanica” comincia da questo dato realistico: “Ci sono punti dove non arriviamo né come sindacato né come partito, e lì le zone di neutralità ci possono essere senz'altro. Secondo me, però, sono molto ristrette, anche perché lo sforzo di recupero a un migliore orientamento è stato efficace”. Alle assemblee con le forze politiche e sindacali che si sono svolte alla “meccanica” dopo la strage di via Fani, la partecipazione è andata da un 55-60% al 70. Più alta di quella per il contratto, e comunque non si deve pensare che gli assenti siano “neutrali”: la coscienza non ha un livello uniforme. C'è chi condanna il terrorismo ma preferisce la canna da pesca alla riunione. La discussione è stata complessivamente buona, non c'è dubbio che ha aiutato a dare consapevolezza, a “far terra bruciata” attorno ai criminali. Alle “presse” - dicono i compagni di quella sezione - la partecipazione non è mai stata inferiore al 70%, la repulsa del terrorismo nettissima, gli operai hanno detto che non ci si deve piegare al ricatto, che non si può trattare con chi ammazza la gente per strada. Problemi di orientamento, però, ne sono venuti a galla. I dibattiti hanno anche mostrato che c'è chi, pur aborrendo il terrorismo, “ha una notevole confusione in testa”. Quei lavoratori che hanno insistito nel reclamare polemicamente “l'autocritica” da parte degli esponenti democristiani intervenuti alle assemblee confermano che permane una diffusa tendenza “a guardare indietro”, senza vedere invece quel che è cambiato, senza vedere l'emergenza e il significato del fatto che “la DC era nella fabbrica”. E chi ti dice: ”Ma qui si parla solo di Moro, ci si occupa solo di Moro, i problemi nostri dove stanno?”, evidentemente non ha ancora misurato tutta la gravità del pericolo, non si rende conto che “se salta la democrazia salta tutto, le conquiste dei lavoratori e la possibilità stessa di difenderle”. I compagni vogliono chiarire bene: reazioni di questo tipo - senza dimenticare che c'è in esse anche il giusto richiamo a non subire la paralisi che il terrorismo vuole imporre - non sono segni di “neutralità”, ma di “modi errati di rispondere a un problema da cui però il lavoratore si sente coinvolto e minacciato, e sul quale ragiona, sia pure sbagliando”. Da cosa dipendono queste “risposte negative”. Chi si pone il quesito deve aver presente che la realtà della fabbrica è complessa, e va vista senza miti. La crisi e le difficoltà ci sono, pesano, in qualche momento possono prendere il sopravvento su una giusta valutazione del cammino percorso in questi anni. Gli impiegati hanno offerto alcune “sorprese” di notevole rilievo. Appena è arrivata la notizia della strage - spiega un compagno della “palazzina” di Mirafiori - una grossa parte hanno immediatamente lasciato gli uffici. Ha giocato, forse, anche una componente di paura, di timore di fronte a un avvenimento di cui non si sapevano prevedere gli sviluppi? E' possibile, ma la cosa importante è stata che gli impiegati si sono poi riuniti nelle assemblee, hanno preso la parola, “si sono pronunciati su questioni rispetto alle quali erano spesso sembrati estranei”. All'assemblea col presidente del Consiglio regionale Sanlorenzo c'erano proprio tutti, anche i dirigenti, anche i “capi” e i tecnici, un fatto mai accaduto prima. In alcuni interventi dominavano confusione, qualunquismo. Qualcuno se l'è presa coi “politici” facendo di ogni erba un fascio. Qualche altro, come era avvenuto in alcune assemblee operaie, ha dichiarato pari pari la sua neutralità. “non mi vanno le BR e nemmeno lo Stato”. Ecco, cosa dicono questi “indifferenti”? Che anche questo stato è violenza, che non c'è giustizia e non si fa giustizia, che si è rubato troppo e troppo in alto.... è, insomma, il discorso di chi parte da alcune verità per giungere ad una conclusione distorta, di chi non distingue tra Stato e modo di gestirlo, chiude gli occhi dinanzi ai mutamenti che pure ci sono stati, non vede il disegno e la minaccia incombente che sono dietro la violenza terroristica. Anche qui c'è un lavoro in profondità da fare perché il malgoverno di tanti anni ha rischiato di scavare un abisso incolmabile tra masse e stato, e “non a caso le BR puntano oggi a mettere i lavoratori in disparte, a staccarli dalla politica”. Il discorso sullo Stato torna spesso, anche tra i lavoratori che neutrali non lo sono affatto. Dicono: “Noi abbiamo scioperato contro i terroristi, siamo pronti a rifarlo se dovessero tentare ancora qualcosa. La parte nostra la facciamo, ma gli altri devono fare la loro”. E allora devi spiegare che il rinnovamento dello Stato, lo Stato che funziona, la polizia efficiente, i tribunali che fanno giustizia non sono, non possono essere obiettivi degli “altri”, ma sono obiettivi della classe operaia che vuol elevarsi a classe dirigente. “Ma su questo terreno pesa ancora un ritardo storico del nostro movimento”. Del processo di Torino alle BR si è parlato molto all'inizio, si temeva che “saltasse”, poi l'attenzione è un po' caduta. Comunque il fatto che il processo vada avanti è salutato come un segno positivo, dà “credibilità” alle istituzioni dopo tante prove negative. “Sì, ma si va per le lunghe, troppo a rilento” obiettano certi lavoratori. Dopo tanti casi che hanno fatto scalpore, si teme “la solita storia all'italiana”, e si vorrebbe arrivare subito alla conclusione, a una sentenza chiara. “Ma i nomi di chi sta dietro - chiedono altri - ce li diranno?”. L'altra settimana, quando è divampato l'incendio appiccato dagli attentatori in un magazzino della Mirafiori, gli operai stavano già uscendo, era notte, sono tornati indietro, di corsa, sono andati loro a spegnere le fiamme, sobbarcandosi un pericoloso “straordinario” senza paga. E questo Primo Maggio così grandioso, coi cortei fitti di lavoratori e di striscioni contro il terrorismo, dimostra anch'esso qualcosa. Le “isole dell'indifferenza”, dunque, si vanno restringendo, ma c'è ancora molto lavoro - come dicono i compagni - per eliminarle del tutto. E occorre, per questo, “un salto di qualità del movimento”, andare al di là della vigilanza e della risposta contingente al terrorismo “per affrontare in concreto, con obiettivi precisi, i nodi del rinnovamento dello Stato”.

Berlinguer al popolo e agli elettori.
u.b., l'Unità 8 maggio

La democrazia non reggerebbe senza la fermezza del PCI Siamo la forza più unitaria - Senza l'unità democratica la Repubblica non può battere l'eversione né rinnovarsi …La società italiana, il popolo, le istituzioni democratiche stanno attraversando un momento grave e drammatico. Tragico è l'annuncio venuto venerdì dalla banda criminale delle Brigate rosse, con il quale essa afferma di considerare conclusa la sua feroce impresa e di avere deciso di eseguire l'assassinio dell'onorevole Moro. E' sincero ed è unanime l'augurio che questo delitto non sia consumato - ha detto Berlinguer -, ma non ci nascondiamo che si tratta di una speranza sostenuta da un filo ormai assai tenue perché tutti conosciamo assai bene la spietatezza e la fredda crudeltà dei terroristi. Costoro sono gli stessi - ha ricordato il segretario del PCI - che il 16 marzo hanno messo a morte i cinque agenti dell'ordine che scortavano il presidente della DC; sono gli stessi che in questi cinquanta giorni, da quella tragica mattina, hanno seguitato a insanguinare il Paese con i loro assassinii, con gli agguati, i ferimenti, le rapine, gli attentati. Sono, tutti questi, atti che nulla hanno a che fare con la lotta politica e che ancora meno possono essere presentati o scambiati come gesti rivoluzionari al servizio, addirittura, della causa di una migliore umanità. Sono soltanto delitti feroci - ha scandito Berlinguer - studiati e portati a compimento da una organizzazione di fanatici che vuole sovvertire le nostre istituzioni democratiche, fare venir meno ogni possibilità di convivenza ordinata e civile. Ecco, è in questo senso che si può dire che questa banda ha un suo perverso disegno politico: un disegno la cui attuazione verrebbe a colpire, insieme al regime democratico, ogni cittadino, ogni famiglia italiana. Per questa ragione le Brigate “rosse” e simili organizzazioni sono oggi i nemici non solo dei lavoratori, dei loro partiti, dei militanti antifascisti, ma di tutti indistintamente i cittadini: la lotta contro questi nemici è una lotta a cui tutti sono interessati e a cui tutti dobbiamo partecipare. Berlinguer ha detto che queste sono le ragioni civili e politiche, umane e morali che hanno spinto il PCI ad assumere fin dall'inizio e senza la minima esitazione, una posizione di intransigente fermezza democratica di fronte ai ricatti, alle pretese assurde, alle proposte di baratto e di scambio venuto dalla Brigate “rosse”. Non si può scendere a patti - ha esclamato - con chi vuole distruggere la democrazia, con chi non esita a uccidere, a sequestrare e a minacciare di nuove morti. Ogni patteggiamento o cedimento significherebbe, in primo luogo, una offesa ai caduti delle forze dell'ordine, alle altre vittime, alle loro famiglie: in secondo luogo, ogni cedimento renderebbe impossibile chiedere alle forze dell'ordine di continuare a compiere il loro dovere - un dovere svolto spesso a rischio della vita - al servizio della Repubblica, dell'ordine democratico, della sicurezza dei cittadini. Infine qualunque patteggiamento avrebbe reso e renderebbe impossibile arginare la catena dei ricatti dei terroristi verso i poteri pubblici una volta che venisse aperta la breccia, una volta che passasse il principio che chi uccide e sequestra può ottenere una qualsiasi contropartita, un riconoscimento, addirittura un premio. Così noi comunisti, ha detto Berlinguer, abbiamo ragionato: e così non ci siamo fatti interpreti di quel vastissimo ed elementare sentimento di giustizia che anima ogni cittadino: un sentimento che non esprime durezza d'animo, che non è certo sordo ai motivi di umanità, ma che esprime innanzitutto la volontà di vedere ogni cittadino italiano uguale di fronte alla legge, e poi la volontà di mettere al riparo l'ordinamento costituzionale dagli attacchi degli eversori. Il segretario del PCI ha ricordato che anche altri partiti democratici hanno seguito questa stessa linea, sia pure - qualcuno - con qualche oscillazione. Quello che è certo, ha aggiunto, è che la nostra decisione e la nostra coerenza sono stati elementi determinanti per la salvezza e la dignità stessa della Repubblica. Ancora una volta il PCI, il partito più rappresentativo della classe operaia e dei lavoratori, si è dimostrato un baluardo saldo e sicuro della democrazia, così come è stato nella lotta antifascista, nella Resistenza e in questi trenta anni. Anche in forza di questa nostra posizione, oltre che di quella di altri partiti e organizzazioni democratiche e del governo, il Paese, dal 16 marzo, non ha sbandato, non ha ceduto a suggestioni irrazionali, ma ha tenuto. La stragrande maggioranza dei cittadini non soltanto ha fatto sentire alta e forte la condanna, il disprezzo e la rivolta morale contro i terroristi, ma insieme ha respinto i loro ricatti e si è stretta intorno ai partiti e alle istituzioni democratiche. E' stato dimostrato ancora una volta che la democrazia italiana è forte , ha detto Berlinguer: non so quanti altri Paesi avrebbero saputo superare con altrettanta calma e fermezza una prova così dura e così prolungata. Si è dato scacco all'obiettivo principale dei “brigatisti”, che era quello di costringere la Repubblica al cedimento, di farle piegare le ginocchia, di gettare lo sgomento nella popolazione e di rompere la solidarietà fra i partiti democratici. Questo non significa che il problema della lotta al terrorismo non sia tutto ancora aperto nella sua gravità. L'obiettivo di sgominare il terrorismo, l'eversione, la violenza, le trame è anzi oggi più che mai un obiettivo urgente e pressante. Lo dimostrano, ha detto Berlinguer, le vicende seguite a quel 16 marzo e in particolare l'andamento delle indagini che, malgrado la prova di abnegazione data dalle forze dell'ordine non hanno dato i risultati che erano nelle attese. Vi sono stati - ha aggiunto - non solo errori tecnici ma forse anche esitazioni di fronte a personaggi e a ambienti che sono apparsi legati o condizionati in un modo o nell'altro dai terroristi. Queste debolezze o errori, che ci sono stati in varia misura in alcuni organismi e poteri inquirenti, aprono il problema della necessità di una decisa svolta nel senso che è richiesto dall'opinione pubblica e in primo luogo da noi comunisti: cioè nel senso del rigore, della severità, dell'intransigenza verso ogni manifestazione di eversione, di violenza politica, verso ogni copertura e tolleranza a suo favore. Tale svolta, per essere attuata, comporta innanzitutto un ammodernamento di tecniche e attrezzature; e comporta anche un cambiamento di mentalità. Questo al fine di garantire l'efficienza indispensabile per fronteggiare un fenomeno che ha assunto dimensioni nuove, impreviste e sempre più pericolose sia nel campo della delinquenza sia in quello della eversione politica. Bisogna attrezzarsi per una lotta profonda - non breve - che giunga a estirpare e a sgominare la malapianta dell'eversione, del terrorismo e della violenza politica.

 

 

 

 

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