Resistere alla sfida.
Benigno Zaccagnini, Il Popolo 19 marzo

Siamo chiamati al momento più difficile della nostra storia. Aldo Moro, per la cui sorte siamo in trepidazione, sta vivendo un momento terribile. Gli siamo vicini e tutti sanno con quale spirito; ma dobbiamo esserlo anche con la esemplare fermezza e la cristiana serenità che ci viene indicata dalla sua consorte e dai suoi figlioli. Abbiamo reso omaggio alle salme dei tutori dell'ordine, caduti in un agguato che ha unito la ferocia alla più fredda preparazione e determinazione. I sentimenti umani sono, io credo, facilmente comprensibili da tutti. Ma siamo anche un Partito democratico al servizio dello Stato e della libertà dei cittadini. Ed in questo momento, non solo il servizio non può interrompersi, ma viene richiesto al di là di ogni nostro umano limite. Viene richiesto e va offerto alla repubblica, alla Costituzione, alla democrazia. Certo, non avremmo voluto mai che il riconoscimento del ruolo democratico di Aldo Moro e della Democrazia Cristiana assumesse questo terribile volto. Eppure è così. Ce lo dice tutto il suo insegnamento, tutto il suo appassionato esempio. Dobbiamo essere coerenti con il suo alto monito, essere una forza cristiana e democratica al servizio della libertà e dell'Italia. La imponente risposta di tutto il Partito, in ogni angolo del Paese, ha costituito una sicura prova non solo della intatta forza della Democrazia Cristiana, ma della saldezza degli ideali su cui essa si fonda. Abbiamo sempre saputo che la libertà non è un valore comodo, non coincide con egoistiche tranquillità personali, ma è una continua e rischiosa battaglia da combattere con grande forza morale per il bene di tutti. Siamo chiamati a trarre da noi stessi, da ciascuno di noi, il massimo di questa forza morale, e sappiamo dove e come chiederla, sappiamo che c'è una fonte inesauribile alla quale attingere. La storia del nostro Partito è tutta una testimonianza alla quale in questo momento dobbiamo riferirci. Ci sono è vero, come in ogni vicenda umana, mancanze ed errori che ci pesano ma che non possono certo cancellare quanto la D.C. ha fatto per il progresso e per la libertà del Paese, come non possono intaccare, nella sostanza, ciò che in questo secolo ha rappresentato la battaglia dei cattolici democratici. Non siamo soli e non abbiamo mai voluto essere soli. Sono con noi tutte le forze democratiche del Paese, tutti gli uomini, le donne, i giovani, i lavoratori, tutte le forze sociali delle quali i partiti sono interpreti ed espressione. I punti di certezza e di riferimento restano, per questa nostra società, per questa nostra provata Italia, le istituzioni repubblicane. La Repubblica deve e può essere salvata col pieno funzionamento delle istituzioni stesse, del Parlamento, del Governo e delle forze dell'ordine che hanno il compito di garantire la sicurezza. Il Parlamento ha dimostrato un alto senso di responsabilità e una reale capacità di interpretare la commozione e lo sdegno del Paese, assicurando al Governo, con rapidità ed efficacia, la pienezza dei suoi poteri. Così si è potuto affrontare immediatamente il grave problema posto dalla terribile escalation della guerriglia. Si tratta di reagire con misure organiche e proporzionate al terrorismo e di far trionfare, ancora una volta, le ragioni della libertà e della convivenza civile. La D.C. ha dimostrato di sapersi mobilitare ed io sono grato a tutti gli iscritti, a tutti gli elettori, a tutti i cittadini che sono con noi. Siamo tutti insieme con Aldo Moro, per la sua salvezza e per il suo ritorno alla famiglia, all'Italia e al nostro Partito. E siamo particolarmente con tutti i cittadini, gli agenti di PS, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti, gli uomini politici che sono stati più direttamente colpiti da questo tentativo di devastazione. La D.C. è anche in questa tragica ora punto essenziale di riferimento - come paradossalmente riconosce lo stesso volantino delle Brigate Rosse - per la salvezza della libertà e per fare il suo duro dovere affinché la Repubblica non si pieghi al terrorismo.

La risposta di Andreotti il Popolo 5 aprile

Ecco il testo della risposta del presidente del Consiglio alle interrogazioni parlamentari sul rapimento dell'onorevole Moro. A diciannove giorni dal tremendo avvenimento di Via Mario Fani, si presenta oggi al Governo la prima occasione di parlarne pubblicamente, e proprio dalla tribuna parlamentare, più di ogni altra qualificata ad esprimere i sentimenti della Nazione. Vero è che se durante le dichiarazioni stesse di presentazione del nuovo Governo nella seduta del 16 marzo, ancora sconvolti dalla notizia della tragedia compiutasi poche ore avanti, ci sentimmo dominati da un'angoscia indicibile che influì anche - ma con una risposta di alto valore politico - sull'ordine dei nostri lavori. Le informazioni che ci avevano agghiacciati, ancora incalzanti e quasi tumultuose, erano indistinte nei particolari, nella successione dei tempi, nella possibilità di una ricostruzione dei fatti. Ma nemmeno oggi, a quasi tre settimane dal tragico evento, siamo purtroppo in grado di poter fornire alla Camera sicuri elementi conoscitivi sui responsabili, sull'estensione della rete di complicità, sull'ubicazione del tenebroso luogo dove è tenuto sequestrato l'on. Moro. I competenti Servizi, in possesso di significativi dati di orientamento, stanno battendo piste che si ha ragione di sperare possano condurre a risultati positivi, ma è ovvio che venga mantenuto in proposito il più rigoroso riserbo. A suo tempo il Parlamento sarà messo a conoscenza di ogni utile particolare di questa indagine, i cui limiti vanno certamente oltre il tragico caso che l'ha provocata. Si riferirà anche sugli accertamenti conseguenti ai fermi e agli arresti attuati nel corso di queste settimane. Il 29 marzo per il tramite di uno dei collaboratori dell'on. Moro - ai quali era pervenuta in modo tale da non potersi rintracciare il latore - è stata consegnata al Ministro dell'Interno la lettera a lui diretta che poche ore dopo (in difformità dal suo carattere riservato) veniva clandestinamente resa di pubblica ragione ad opera dei rapitori. Il collaboratore dell'on. Moro comunicava al ministro Cossiga di aver ricevuto contemporaneamente altre due lettere, indirizzate l'una alla famiglia e l'altra allo stesso collaboratore che ne riferiva. Un'attenta e competente valutazione della lettera indirizzata all'on. Cossiga ha indotto gli esperti a ritenere che la lettera è stata materialmente scritta da Aldo Moro, ma non è “moralmente a lui ascrivibile”. Giorno per giorno sentiamo che l'attesa dell'intera Nazione si fa più acuta ed ansiosa, ma possiamo assicurare, per avere avuto diretta testimonianza, che l'impegno di tutti è offerto diuturnamente con il massimo di puntigliosa tenacia e con grande spirito di sacrificio. L'impiego di persone e di mezzi è stato e continua ad essere di eccezionale ampiezza, con l'affiancamento, alle forze dell'ordine, Carabinieri, Guardie di PS e Guardie di Finanza, anche di reparti delle Forze Armate che hanno dato prova della loro volenterosa disponibilità e di una viva compenetrazione della responsabilità a cui sono stati chiamati. Questo senso di responsabilità è condiviso anche dalla popolazione che accetta con spirito di comprensione i disagi provocati dai controlli e dalle ispezioni. A tutti va rivolto il nostro apprezzamento, così come manifestiamo gratitudine per la cooperazione specializzata offertaci e dataci da Paesi alleati, associati ed amici, in uno spirito di solidarietà comunitaria e internazionale nella lotta contro il terrorismo. E' falsa invece la notizia che in precedenza fosse stata trasmessa da qualsiasi parte un'informazione che potesse comunque far prevedere quanto accaduto nella mattinata del 16 marzo. La paternità del misfatto è stata assunta da quelle cosiddette Brigate Rosse che - attraverso la rivendicazione di ormai innumeri episodi, luttuosi o no, ma tutti caratterizzati da una crudele spietatezza - sembrano contestare integralmente il sistema politico della Costituzione repubblicana in nome di un esasperato massimalismo classista che come tale dovrebbe sovvertire dalle radici ogni pluralismo ed ogni metodo di democratica evoluzione. Non spetta al Governo di entrare in polemiche ideologiche: quello che noi dobbiamo rilevare è che esistono uno o più gruppi di persone che operando nel buio seminano morte e rovine, colpendo freddamente secondo un crudele calendario del terrore. Questo fenomeno, sulla cui esistenza le forze politiche si divisero a lungo, quasi fosse un'invenzione della propaganda interpartitica, obbliga ad un migliore coordinamento operativo e ad un ripensamento e aggiornamento anche sulle tecniche di lavoro degli apparati della pubblica sicurezza, da adeguare alla pericolosità di questi nemici della società civile, avvantaggiati purtroppo dal privilegio dell'attaccante: di scegliere cioè il come, il dove e il quando dei loro sanguinosi, barbari delitti. Gioverà al riguardo anche la riorganizzazione dei Servizi di informazione e di sicurezza militare, che è in avanzato corso e alla quale si dedicano le dovute premure. In un sistema di ampie garanzie di libertà quale è quello che in attuazione della Costituzione siamo andati costruendo e che dobbiamo ad ogni costo salvaguardare contro ogni tentazione involutiva, il ruolo delle forze dell'ordine si esplica in modi particolarmente difficili. Talvolta, nel passato, ingiuste polemiche e dannose diffidenze lo hanno ulteriormente complicato. Oggi si è tutti concordi nel riconoscere la funzione insostituibile degli uomini che dedicano la loro vita a prevenire e combattere la criminalità, la quale assume in determinati momenti, come dicevo, i connotati di una vera e propria lotta armata contro lo Stato e le sue regole democratiche di civile convivenza. Il 16 marzo, con l'efferato assassinio di cinque persone e la cattura dell'on. Moro la gravità della situazione ha raggiunto oltre ogni dubbio il suo acme impressionante. Questa chiara consapevolezza della realtà italiana comporta che alle insidiose difficoltà del momento si risponda innanzitutto respingendo nel modo più fermo ogni accettazione di ricatto. Quale mai patteggiamento potrebbe essere tollerato - oltre che inibito dalla coerenza della nostra identità costituzionale - verso gente le cui mani grondano del sangue di Coco e della sua scorta, di Croce, di Palma, di Berardi, di Casalegno e delle cinque vittime di Via Fani? Il Governo considera suo impegno inderogabile l'applicazione della legge, con la ricerca dei responsabili e la loro punizione secondo i principi di legalità e certezza del nostro sistema giuridico in applicazione di tutte le leggi dello Stato, comprese quelle che offrono indulgenza a chi, in modo attivo, receda dalla sua attività criminosa e collabori al ripristino dei diritti offesi. Ma va poi contrapposta al disegno eversivo un'effettiva volontà di dare sempre maggior vigore alla costruzione di uno Stato giusto e idoneo a garantire il progresso sociale attraverso le leggi, nel rispetto generalizzato delle norme giuridiche, sia costituzionali che comuni. La grande compattezza, che su questi propositi si è manifestata tra i partiti politici, è un elemento determinante di equilibrio. Come pur importante è il ruolo dei partiti che non fanno parte della maggioranza, senza dei quali l'opposizione potrebbe svilupparsi fuori del Parlamento, assecondando proprio quelle tendenze negative cui va la nostra deplorazione. E' impossibile che, organizzando meglio l'apparato statale e raccogliendo le eccezionali opportunità di un momento parlamentare quanto mai responsabile, non si riesca a restituire tranquillità alla vita degli italiani. Vi sono anche esigenze formative ed educative per corrispondere alle quali chiediamo il concorso di tutti ed in particolare degli intellettuali. Non pare corrispondano a queste necessità del nostro popolo coloro che vanno farneticando di un funesto sistema repressivo che esisterebbe in questa Italia la quale, semmai sta pagando in tanti campi gli effetti di romantiche tendenze permissive. Naturalmente il nostro impegno di prevenzione e di vigilanza deve volgersi in tutte le direzioni. E' esatto ad esempio che su elementi in possesso della magistratura sono state attivate alcune indagini verso elementi di estrema destra di cui è cenno, in senso critico, nell'interrogazione Rauti. Gli stessi processi agli eversori che si stanno faticosamente celebrando in parecchie Corti di Assise ed in altre sedi di Giustizia attestano da un lato la imparzialità dello Stato e dall'altro la pericolosità di varia estrazione di questi nuclei, purtroppo anche armati, di attivismo antirepubblicano. Vorrei in proposito, senza sconfinare nell'ambito di altri ordini statutali, o invadere altrui valutazioni di merito, che dal Parlamento partisse un responsabile appello ai giudici perché i tempi dei processi non siano tali da far perdere alla giustizia quel magistero orientativo che è un fattore determinante di equilibrio civile. Da parte nostra, abbiamo di recente legiferato per impedire intollerabili ingorghi e una defatigante cavillosità contro i quali urtano anche la buona volontà e il senso di responsabilità dei giudici. Parecchi colleghi, riecheggiando voci raccolte dalla stampa, chiedono se il Governo sia a conoscenza di interferenze o appoggi di origine straniera ai tentativi di eversione in Italia. Posso assicurare che ogni indagine in proposito è stata ed è esperita con la massima cura e con l'utilizzazione di tutti i mezzi possibili. Allo stato degli atti non abbiamo però elementi documentabili da comunicare al Parlamento, al quale non possono certo riferirsi voci o confidenze. Poiché peraltro nei giornali di alcuni paesi dove tutta la stampa ha ruolo almeno ufficioso si sono rivolte - talora in polemica tra di loro - precise accuse di corresponsabilità estere nelle vicende italiane, abbiamo invitato le sedi diplomatiche responsabili ad offrirci dati e collaborazione. Se ne avremo al momento giusto (rispetto alle loro utilizzazioni) ne daremo conto alle Camere, insieme con le notizie certe di altra provenienza. Se è vero che la missione politica è un servizio che si rende alla comunità, in un momento così complesso e tormentato quale è quello che stiamo attraversando, la dedizione di ognuno di noi deve essere totale nella certezza di corrispondere ai massimi interessi del popolo italiano che ci ha eletto a suoi rappresentanti. Di fronte a chi presume di alzare una bandiera di guerra contro la Repubblica dobbiamo opporre una limpida coscienza di costruttiva difesa democratica, impedendo ogni abuso nell'evocazione del nome del popolo e della sua giustizia. Chi osa dire che questi crimini vengono operati in nome di una giustizia del popolo pronuncia un'atroce bestemmia. Il popolo italiano nulla ha da spartire con questi nefandi misfatti. L'autentico popolo è quello che va rinnovando giorno per giorno, nella triste Via Fani, divenuta ormai un luogo votivo, l'omaggio spontaneo di fiori e di preghiere. E' quello che il 18 marzo si è affollato fino a gremirlo, nello sterminato piazzale di San Lorenzo, per rendere l'estremo omaggio ai servitori dello Stato caduti in questa assurda battaglia. Quel popolo che all'apparire dei cinque feretri, accolti dapprima da un impressionante silenzio, non ha saputo trattenersi dall'esplodere in un applauso inatteso, espressione travolgente di una irrefrenabile commozione. E' questo popolo che reclama da noi volontà e fermezza, nell'adempimento di tutto intero il nostro sacro dovere.

Difficile non impossibile
Bettino Craxi, 4 maggio

Continuano ad apparire sulla stampa notizie e riferimenti inesatti in relazione alle posizioni assunte dal PSI di fronte al rapimento dell'on. Moro ed alle possibili vie di soluzione. E' necessario perciò tornare a sottolineare come esse si siano sin dall'inizio sviluppate in coerenza con i principi della nostra tradizione e con il nostro senso democratico dello Stato. La risoluzione adottata dalla Direzione del Partito il 21 aprile 1978 era sotto questo profilo un documento chiaro, impegnato e privo di doppi sensi. In tale risoluzione possono essere ritrovati infatti tutti gli elementi di principio e di metodo che hanno ispirato ed ispirano la condotta dei socialisti. In essa si escludeva ogni “cedimento al ricatto” ma anche “ogni sorta di immobilismo pregiudiziale ed assoluto”, ogni rifiuto “persino alla ricerca di ogni ragionevole e legittima possibilità”. La risoluzione socialista affermava che “possono esistere altre vie che, in forme diverse diversi Stati democratici non hanno esitato ad esplorare” e sollecitava in questo senso “la responsabilità di tutte le forze democratiche” confermando “la sua fiducia nello spirito di sacrificio e di fedeltà alle istituzioni che contraddistingue le forze dell'ordine”. Da questo ambito rigorosamente delimitato è derivata l'idea di una “iniziativa autonoma dello Stato” ispirata da finalità umanitarie, non suscettibile di provocare gravi lacerazioni nel tessuto della legalità e perseguita sulla base di scelte che siano tali da imporsi a chiunque conservi un minimo di ragione e di umanità. Esaminata, nella cornice della legittimità, una pluralità di ipotesi, la nostra attenzione si è concentrata sull'eventualità di un atto di clemenza che non potrebbe essere rivolto a chi, direttamente o indirettamente, si sia macchiato di delitti di sangue. Indicata in linea di principio e di metodo la via di una iniziativa umanitaria, il PSI si è limitato sino ad oggi a formulare consigli quando espressamente richiesti spettando in primo luogo alla DC il compito e la responsabilità d'iniziative che essa ha già assunto e intende ancora assumere. Questa condotta di riservatezza e di rispetto non ha eliminato la esigenza della massima concretezza. La concretezza deve potersi ricavare dai dati della realtà. Uno di questi, significativo, è parso ricavabile dall'ultima lettera dell'on. Moro nella quale si legge un riferimento ad “altra persona” che dovrebbe riacquistare la libertà mentre l'innocente potrebbe avere salva la vita. Hanno un senso queste due parole “altra persona”? Non lo sappiamo. In ogni caso l'atto di clemenza è una via praticabile che va approfondita ed eventualmente regolata con la possibile e ricercata soluzione del caso. Se si dimostrasse una via illusoria, e speriamo che così non sia, solo un animo malvagio potrebbe imputare allo Stato di aver tentato, sino all'ultimo e con ogni mezzo consentito, di salvare la vita di un suo cittadino così come imperativamente prescrive un principio fondamentale della Costituzione. Le polemiche di questi giorni, pregiudiziali, astiose e forsennate non hanno risparmiato nulla di ciò che abbiamo letto o fatto o solo pensato. E' il caso del problema delle carceri speciali. Così come ci hanno accusato di volere la rovina dello Stato, il nostro interessamento al problema delle carceri speciali ci è costata l'accusa di voler tornare al regime delle “evasioni facili” che precedette la loro istituzione. La verità è che il nostro interessamento preesisteva al caso Moro ed era mosso da ragioni giuridiche ed umanitarie proprie. L'affermazione dei brigatisti secondo cui queste ultime sarebbero assimilabili a “lager” è semplicemente grottesca. Tuttavia, l'esistenza di discriminazioni verso i detenuti nelle carceri più sicure è un fatto incontestabile, un fatto che ha sollecitato severe denunce da parte dei magistrati di sorveglianza (l'ultima, a carattere collettivo è stata presentata al Consiglio superiore della Magistratura il 14 aprile), allarme nella pubblica opinione più avvertita e l'interessamento di Amnesty International. Correggere talune storture senza ridurre la vigilanza esterna, che ha dato buona prova, è dunque doveroso e rappresenta un obbligo di legge. La legge di riforma non consente infatti, trattamenti differenziati e fa riferimento a una concezione sempre umana del carcere su cui talune prassi possono incidere negativamente. In ogni caso lo Stato ha il dovere di muoversi in questa direzione applicando scrupolosamente le sue leggi. Un confronto più diretto della nostra iniziativa con le opinioni di altre forze politiche ha fatto emergere ieri elementi che giudichiamo in modo positivo. Noi appoggiamo l'iniziativa che la DC ha avviato. Ciò che importa è che ogni iniziativa, oltre che legittima, si muova nella giusta direzione e risulti efficace. Siamo tornati ad assicurare il nostro appoggio al Governo che deve essere consapevole di avere una altissima responsabilità. Non è da noi che in questi giorni sono venute minacce di crisi. Abbiamo vivamente apprezzato le posizioni assunte dal Presidente del PSDI Giuseppe Saragat coincidenti con le nostre e quelle del Segretario Romita che si muovono nella stessa direzione. Ci sforziamo di comprendere meglio la posizione attuale del PCI. Apprezziamo la pacatezza di una nota repubblicana di oggi, comprendiamo alcune preoccupazioni, ma non possiamo accogliere l'invito a desistere. Anche quando questo è sembrato un peccato mortale noi non abbiamo perso la speranza che continuiamo a tenere viva anche se tutto è così difficile e così assurdo come ci ha scritto l'onorevole Moro che speriamo possa leggere di questa viva e diffusa speranza.

Come non subire
R. Rossanda, il manifesto 25 marzo

Va dunque preso sul serio l'avvertimento delle Brigate rosse dopo il sequestro di Moro, che in questo momento sotto il mirino è soprattutto la democrazia cristiana. Questo, non solo la dimostrazione che in piena mobilitazione della polizia, possono colpire dove vogliono, mi sembra il vero senso dell'attentato a Picco. Nel mirino è quel che definiscono non solo lo stato, ma la sezione italiana d'uno stato imperialista. Poiché certo non credono che siffatto superstato si distrugga con la soppressione, uno per uno, dei suoi quadri principali o medi, è evidente che l'obiettivo è di spingerlo a una reazione come si usa dire, destabilizzante, provocarne una mossa, uno scarto. Fin quando la democrazia cristiana resisterà ad avere sequestrato il suo presidente e impallinati i suoi uomini, senza dividersi liberando le sue proprie tendenze eversive, in un processo cileno accelerato, o senza chiedere, per mantenere sotto controllo l'area di interessi e di corpi separati che essa copre, un prezzo altissimo ai suoi alleati? A questa difficile domanda mi par difficile sfuggire. Tanto più che c'è chi soffia sul fuoco. L'onorevole La Malfa, se ben intendiamo l'editoriale di ieri le rimprovera troppa flemma. Una così straordinaria inefficienza della polizia sembra calibrata per eccitare i riflessi alla De Carolis. La stupidità delle leggi d'eccezione, forcaiole e inefficaci, persuaderà immancabilmente qualcuno che ci vuol ben altro. Nel giro di alcune settimane il quadro politico può degradare rapidamente. Prima di ritrovarci tutti a dover sfilare in processioni antifasciste al minimo denominatore comune sarà bene che ci poniamo questo problema. E' tanto sciocco sfuggirgli, quanto difficile indicare una soluzione che non sia il rispondere fino in fondo alla possibilità e alla domanda che è venuta dai presidi operai di questi giorni. Sono, dicono, un intellettuale anch'io, e provo tanto fastidio verso l'ingiunzione del Pci a pronunciamenti nei quali si esige che la condanna al terrorismo, per essere insospettabile, comporti il silenzio su quel che c'è di marcio in Danimarca, sia l'insoddisfazione per la risposta: “io al ricatto: o con lo stato o con le Br non sto”. Neanche io ci sto, ma è sicuro che lo subisco, se non trovo qualcosa di più della denuncia dell'arretramento del fronte dell'offuscamento di un'idea di democrazia, di cui è stato essenziale nel nostro paese la critica risoluta, non all'idea dello stato - che non siamo di fronte a un concetto - ma a quella formazione storica precisa che è lo stato italiano e al ruolo che in esso ha avuto la democrazia cristiana. La questione è “come” arrestare una deriva a destra che domani può diventare più grave. “Come” impedire che ne resti macinata una sinistra che sembra non saper far fronte a pressioni sempre più squilibranti e dalle quali è sempre più squilibrata. Oppure il guasto è tale, che siamo ormai nelle mani di un gruppo di terroristi da un lato, della prevedibile risposta selvaggia del sistema dall'altro? Io credo che no. Che differentemente dalla Germania, in Italia possiamo ancora chiederci “come”. In nessun paese, che io sappia, è infatti avvenuto che in forme diverse di golpismo - giacché di questo si tratta - si sia avuto una risposta operaia come quella dei giorni scorsi. Per quel che mi consta, le masse in circostanze analoghe sono ammutolite, salvo nell'onda crescente del 1970 in Cile, di fronte all'uccisione del generale Schneider. Qui non ammutoliscono. E quel che dicono è determinante in due direzioni vitali: la prima è il prosciugamento d'un'area di rassegnata complicità con le Br, la seconda è l'avviso alle loro organizzazioni storiche che nulla può essere fatto senza tenere conto che le fabbriche sono all'erta, in qualche modo difendendole da una tentazione di totale cedimento alla crociata d'ordine. Questo comporta una maturazione politica di grande importanza. Coloro che hanno scioperato per Moro sanno di aver scioperato per il sequestro d'un avversario, non di un amico; hanno fatto cioè un ragionamento di secondo grado, non morale o difensivo, ma politico e aggressivo, rifiutando un certo tipo di attacco portato all'avversario perché in esso vedono la forma in cui il capitalismo può tentare una fascistizzazione, altre volte tentata e fallita. Se questo è vero, non solo vuol dire che in Italia esiste la possibilità di sfuggire al ricatto non con una fuga, ma con un salto in avanti; ma che ne esiste la richiesta di massa, e che questa è più avanzata che negli stessi distaccamenti d'avanguardia della sinistra. Ai quali, per essere a livello della pressione operaia, è richiesta l'elaborazione teorica e politica e la pratica del comportamento, anche in sede di una nuova idea delle “norme”, d'una società davanti a un lembo eversivo che le si leva contro, permettendole non solo di sfuggire alla tenaglia terrorismo-repressione, ma di usare in modo offensivo invece che difensivo del vuoto che si è aperto. Non è, credo, un tema diverso da quello della conservazione delle forze e dei varchi della rivoluzione italiana dopo gli anni sessanta. Se non vogliamo trasformarci solo in Cassandre della rivoluzione tradita e della democrazia che se ne va, dobbiamo sapere, per esempio, che a questa risposta il garantismo non basta e che il modulo leninista è finito. Ma in un quadro di rapporto di forze democratiche più debole o più forte che trent'anni fa? Io dico “più forte”. Mi chiedo in quanti di coloro che giustamente protestano sul ricatto d'ordine del Pci, la risposta sarebbe diversa da quella del Pci: “più debole”. Ma se è più forte non dobbiamo chiedere che il “presidio operaio” non si limiti ad emergere, ma si organizzi ed estenda? Se l'Italia diventa ora una rete di quei consigli di zona, che i riformisti hanno avversato e i rivoluzionari disprezzato, non solo il terreno del terrorismo sarebbe ridotto, socialmente e perfino come operatività tecnica, ma il compromesso istituzionale sarebbe sotto difesa, per quel che contiene di “patto democratico”, e sotto controllo per quel che alimenta come luogo di degenerazione autoritaria. E se, insieme, gli intellettuali della sinistra avanzassero la formazione di nuove trincee, anche d'analisi e di teoria, a sorreggere l'ossatura d'un principio di stato di transizione? Gli stati non cambiano se non quando un movimento di massa e di idee si innesta nel corso di una loro crisi. Lo sanno le Brigate rosse. Lo sa la risposta operaia. Non dovremmo saperlo anche noi, intellettuali di sinistra di professione?

L'album di famiglia
R. Rossanda, il manifesto 2 aprile

Non soltanto la politica e la lotta di classe sembrano fuori corso di questi tempi, ma perfino il buon senso. Non avessi mai osservato che la requisitoria delle Br contro la dc, nel loro secondo messaggio, ricalca stilemi veterocomunisti, mirando a trovare consensi nello spazio lasciato aperto dalla cessazione d'una analisi seria e d'una seria lotta del partito comunista alla democrazia cristiana. Su questo si sono gettati come leoni tutti i partiti dell'unità nazionale. Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché. L'uno e gli altri strumentalizzano e falsificano allegramente. Vediamo. Non parlerò del Giornale, perché sono una veterosettaria e voglio morire senza parlarne. Il Popolo mi fa dire che non solo è veterocomunismo, ma che “affonda le radici nelle trame internazionaliste del Cominform”. Povero Cominform, fiacca e spiacevole larva della defunta internazionale: scommetterei che della dc non ebbe neppure tempo di accorgersi, nella breve vita impiegata ingloriosamente a cercare di abbattere Tito. Il Corriere fa scrivere a Ronchey che l'abbandono da parte del Pci di quel giudizio sulla dc coincide con la fine del leninismo. E perché? Intanto, va a vedere come, se, quando, e in che senso Togliatti abbandonò il leninismo davvero. E poi, perché Lenin dovrebbe essere il simbolo dello schematismo? I suoi giudizi politici sono lucidamente articolati. E quanto alla dc, solo una veggente avrebbe potuto informarlo di questo squisito e tardivo prodotto del secolo. Soltanto Enzo Forcella sembra aver letto le nostre righe sull'album di famiglia, del resto poco originali, con la consueta lucidità. Questa è mancata davvero ai compagni comunisti. Lasciamo andare l'editoriale odierno di Tortorella, dove mi accusa nientemeno che di aver detto che il terrorismo è figlio di Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti: qui siamo proprio nella polemica deliberatamente falsificatoria, giacché Tortorella sa benissimo che il Manifesto ha, fin dall'uccisione di Calabresi, come esso sia una pratica veneranda della piccola borghesia, e più recentemente abbia negato che il “partito armato” possa trovare appigli nel Bolscevismo. Ma vediamo il lungo articolo di ieri del compagno Macaluso: “non so quale album conservi R.R.. E' certo che in esso non c'è la fotografia di Togliatti, né l'immagine di milioni di lavoratori e comunisti che hanno vissuto le lotte, travagli, contraddizioni di questi anni”. Che importa che io abbia scritto che non tutta la politica del Pci stava in quelle formule? Che fortunatamente c'era l'intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una diversa pratica di massa, insomma la “doppiezza” di cui più tardi Togliatti avrebbe parlato? No. La Rossanda parla come il Giornale, come gli esponenti della Dc, come i redattori del Popolo. Diavolo. Mi domando perché il Pci si sia tenuto in seno per quasi trent'anni un serpente come me. Ma usciamo da una polemica miserevole e ragioniamo. Perché il partito comunista è così agitato? Perché si sente sulla difensiva? Perché sembra volersi disperatamente scrollare di dosso una paternità dell'estremismo, che nessuno, in Italia, gli attribuisce? Galloni non spara sulla segreteria o sulla linea comunista, ma se mai su una retrovia sociale, su una base operata non cedevole, sul sindacato. Anche Carli, a suo tempo, cercò di individuare una continuità fra insorgenza operaia, nel senso di non accettazione del patto sociale, ed eversione. E' una vecchia trappola. Il Pci non solo farebbe bene a rispondere per le rime a chi cerca di stabilire un filo fra terrorismo e lotta di massa, ma avrebbe anche facile gioco. Glielo offrono sia le Br, che fanno il contrario d'una lotta operaia di massa, sia la risposta operaia, che le isola. Che cosa fa imbarazzata la replica comunista, che cosa ne spinge due esponenti ad attaccare più noi che Galloni? Indebolisce il Pci l'incertezza della sua collocazione nei confronti della democrazia cristiana. Questa “lo fa codardo” rispetto al mio e al suo album di famiglia, che è un album niente affatto da buttare. In esso sta (e non potrebbe essere diversamente) il variare della stessa definizione del nemico storico che si oppone al partito comunista fin dalla rottura dell'unità antifascista, e la democrazia cristiana. Nella quale giustamente, il fronte principale, anche rispetto al fascismo. Compagno Macaluso, prendiamo un anno qualsiasi della collezione di Rinascita, per esempio il 1952. Siamo in piena restaurazione capitalistica. Chi la dirige? La dc. Siamo in piena guerra fredda. Chi ne è lo strumento in Italia? La dc. Siamo in pieno tentativo di mutare la rappresentazione popolare nel paese. Chi ordisce la legge truffa? La dc. In quella fase si attenua la complessità del giudizio togliattiano su De Gasperi e la sua scelta “democratica”. Felice Platone scrive che la fascistizzazione del tempo nostro sta nel tipo di società americana, e in quel particolare unanimismo bloccato, e che “l'americanizzazione” della vita italiana è il vero veicolo d'un periodo fascista, e il veicolo dell'americanizzazione è la dc. Togliatti torna, a proposito di Gramsci, due mesi dopo sullo stesso giudizio: “Non nei gruppi che vivono di nostalgia” ma nel maggiore partito di governo sta il pericolo più grave, “nei rapporti sociali non svecchiati, nelle oligarchie economiche risorgenti e risorte, nella tracotanza dei ceti privilegiati, nella prepotenza e corruzione” che esso garantisce. Poco dopo, una risoluzione del Comitato centrale contro il totalitarismo clericale afferma che la dc vuole fondare “un vero e proprio regime totalitario, in connessione con manovre internazionali, appoggiandosi a forme d'eccezionalità. Gli esempi possono moltiplicarsi, ma a che vale? Vale a chiedersi se quel giudizio, che forse appiattisce una ricerca iniziata durante e subito dopo la resistenza, è negli anni cinquanta giusto o sbagliato. E perché si forma. E' giusto, io credo, anche se si giovò di qualche forzatura nella propaganda e nella formazione dei quadri; la denuncia che il partito comunista faceva alla dc, anche mettendo da parte l'interrogativo sulla sua natura “popolare” che pur allora esisteva, bloccò una svolta reazionaria nel paese e in qualche modo costrinse la stessa democrazia cristiana a quella sempre imperfetta scelta “democratica” che avrebbe fatto precipitare con la crisi prima del centrismo, poi di Fanfani, poi di Tambroni, tutte le contraddizioni interne d'una borghesia che in una società mutata e in mutati rapporti di forza cercava la sua espressione politica. Senza questa denuncia di movimento delle masse sarebbe gravemente arretrato. Perché Tortorella si giustifica: “Fummo settari, ma difendemmo sempre la costituzione”? Dovremmo dire “Fummo settari perché dovemmo a tutti i costi e in condizioni internazionali terribili difendere la costituzione e impedire la sconfitta del movimento”. E Macaluso dovrebbe riproporre le pagine di questo album all'Unità: sono state ingiallite da una storia che il Pci ha potentemente contribuito a fare, mutando realtà e quindi schemi di interpretazione, una grande storia. Il giudizio sulla dc che allora si venne formando non mutò finché non mutarono la fase internazionale e i rapporti di classe interni, nella seconda metà degli anni cinquanta. Ancora nel 1956 - dove Ronchey condonerebbe, penso, l'abbandono del leninismo - il giudizio sulla dc così suona nelle Tesi: “Cedendo alla duplice pressione (dell'imperialismo e dell'unità delle classi abbienti, ndr) il partito democristiano, presentandosi all'inizio con un programma di rinnovamento, diventò lo strumento politico d'un piano di conservazione sociale all'interno e di asservimento a interessi stranieri in campo internazionale”. Anzi, allora “la democrazia cristiana diventa partito politico dirigente della borghesia”. Sono definizioni del 1956, quando si lancia la vita italiana al socialismo. Che per la prima volta, contraddittoriamente all'affermazione sicuramente forzata d'una avvenuta “totale clericalizzazione della società”, aggiunge la questione della dc come partito popolare, e vede in questa sua natura un principio di possibile squilibrio. In verità, lo squilibrio sarebbe avvenuto dalla impossibilità della vecchia dc di integrare, nello sviluppo capitalistico, il movimento operaio italiano e da tutto il rinnovamento del quadro, e della strategia che ne deriva agli inizi degli anni sessanta. Allora, anzi, la questione della dc diventa un perno della discussione nel partito comunista, luogo dove si confronta una visione “democratico-laicista” e una visione di classe, che mette l'accento e sui soggetti di dominio di classe e sul tipo di aggregazione sociale che il partito cattolico rappresenta; e vede in questa aggregazione una specificità del “caso italiano”, il luogo su cui passare per una ricostruzione del blocco storico. Tutto questo, nel corsivo che ha suscitato tanti allarmi, lo abbiamo ricordato, ma sta scritto nei testi di anni recenti. Perché così accesi nervosismi, nella dirigenza comunista, al solo ricordarlo? Il fatto, ho scritto e ripeto, che quella fu l'ultima analisi seria della democrazia cristiana che il Pci abbia compiuta. Con la morte di Togliatti cessa. L'ambiziosa operazione del compromesso storico è partita su concetti approssimativi (le grandi correnti, i grandi filoni) separata da un'analisi appena complessa della collocazione della democrazia cristiana nel contesto delle forze politiche borghesi, italiane non, e della sua impossibilità a separarsi dal ruolo di “partito di fiducia della borghesia”. E' parsa vicina a perderlo qualche anno fa, perché per un momento la borghesia ha puntato altrove; ma la conversione di tendenza s'è subito verificata. Quando già era tornata ad esserlo in modo inequivocabile e centrale il Pci è andato - in piena crisi - a un accordo politico con un corpo sociale, storico, ideologico, clientelare che non sa più bene come definire, se avversario o amico. Che non sa “leggere” più. Che non analizza più. Che spera “diverso”. Questa debolezza presente gli fa scrollare violentemente la criniera di fronte al ricordo del passato, gli fa gridare “al terrorista” contro chiunque dica che, sì, la democrazia cristiana era ed è il partito della borghesia italiana e che il Pci, smettendo di dirlo, porta una responsabilità anche dell'oscurarsi del fronte di lotta, dell'intorbidirsi della vita politica. Sono verità sgradevoli. Non è detto che, nei momenti difficili, bisogna astenersi dal dirle.

"Un giorno dopo l'altro"
L. Pintor, il manifesto 4 maggio

Più durerà la prigionia di Aldo Moro, più la vita democratica del paese si frantumerà. E' come se, col sequestro di Aldo Moro, un ordigno micidiale e invisibile fosse stato innescato, una bomba a biglie che spara in tutte le direzioni, e una bomba a tempo che esplode ogni giorno. E il peggio è che le cose possono continuare così per un tempo indefinito. Una prima considerazione riguarda le indagini della polizia. Non si tratta di polemizzare o chiedere le dimissioni di qualcuno. Tuttavia c'è qualcosa di inverosimile nel fatto che una banda, per quanto organizzata, possa restare senza volto e dominare il campo per tanto tempo. Resta infatti senza volto, nel senso che non se ne ha la più piccola traccia, e che non ne è stata fornita neppure una identificazione politica. E domina il campo, calibrando senza inciampi i propri movimenti segreti e pubblici. L'immaginazione della gente ne è colpita, la sfiducia nei poteri pubblici ne viene ingigantita. Un apparato dello stato ridotto così andrebbe riciclato da cima a fondo, in senso democratico. Una seconda considerazione riguarda i comportamenti delle forze politiche. L'intransigenza che tuttora prevale si spiega in molti modi, alcuni nobili e altri meno, ma si spiega soprattutto con la convinzione che un cedimento anche parziale non sarebbe che l'inizio di una frana generale. Gli intransigenti hanno insomma voluto opporre ai terroristi una trincea, innalzare una diga. Senonchè, risolvendo in questo modo il problema politico della risposta da dare ai brigatisti, hanno cancellato il problema altrettanto politico di come sottrarre Aldo Moro alla prigionia e alla morte. Hanno dichiarato guerra ai terroristi, ma non li hanno disarmati. Hanno negato riconoscimento al nemico, ma ne subiscono ogni giorno l'impresa. Hanno alzato la diga a valle, ma non sono intervenuti a monte. La conseguenza è che, anche a valle, la diga si incrina. La distinzione fra umano e politico si rivela fragile, perché con le lettere del prigioniero e con l'intervento della sua famiglia l'umano si fa politico e il politico si fa astratto; la difesa a testuggine regge male l'assedio, perché col partito socialista che si differenzia anche la maggioranza di governo vacilla. Una terza considerazione riguarda il clima psicologico che si diffonde. Tra gli effetti destabilizzanti raggiunti dalle Br, c'è quello di aver fatto perdere il senno o almeno l'equilibrio, a molti uomini pubblici e qualche direttore di giornale. La piaga nazionale delle contrapposizioni di bandiera, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, falchi e colombe, dilaga. O il segretario del Psi è un avventuriero, o il presidente del Pri è un forcaiolo: chi non è con noi è contro di noi. Aldo Moro è oggetto di giudizi impetuosi quanto i suoi carcerieri, il suo nome è ormai per alcuni uno pseudonimo delle Brigate Rosse. Ogni cosa è degradata alla sua parodia, e il dramma degenera in intrigo. Così si diffonde la convinzione che i socialisti siano mossi solo dal calcolo elettorale, o la convinzione opposta che democristiani e comunisti profittino delle circostanze per stringere i tempi del compromesso storico in un quadro autoritario. E' peggio che seminare vento. Un'ultima considerazione riguarda l'incertezza di prospettiva. Se Moro tornerà libero, non si sa in che condizioni ciò avverrà, quali effetti produrrà, se e come tutta questa vicenda potrà essere riassorbita. Non si sfugge all'impressione che qualcuno, pur senza giungere ad augurarsi la morte del leader democristiano, pensi tuttavia che un rischio politico di un suo ritorno in circolazione sia, a questo punto, troppo alto. Ma se Moro fosse invece ucciso? Pochi sembrano credere a questa eventualità, ora che lo scenario sanguinoso di via Fani è distante. Mi auguro che questo ottimismo sia fondato, anche se non mi convince. Ma se così non fosse, non ci vuole molta immaginazione per capire che le ripercussioni di un così tragico epilogo sconvolgerebbero del tutto di quanto resta in piedi dell'ordine democratico. Può darsi che tutte queste conseguenze negative, una volta innescata la bomba del sequestro di Moro, fossero fatali. Può darsi che nessun artificiere potesse disinnescare un simile ordigno. Può darsi che non esistesse un'iniziativa possibile, che la via di una trattativa non si potesse imboccare e che si sarebbe rivelata altrettanto sterile o negativa. Dopo cinquanta giorni, tuttavia, mi sembra più evidente che mai che se il potere politico si fosse proposto, fin dall'inizio, di prendere il toro per entrambe le corna - il dovere di difendere le prerogative di questo stato, ma anche il dovere di farsi carico in termini politici della vita e della dignità di un cittadino e di un rappresentante di questo stato - avrebbe dato di sé un'immagine più convincente, più generosa e civile. E avrebbe forse evitato, se non una sconfitta, quell'ipnosi, quella schizofrenia e quelle lacerazioni cui un po' tutti siamo oggi preda.

Né con le BR né con lo Stato. E poi?...
Marco Boato, Lotta Continua 24 marzo

Dopo Roma e Milano: sviluppare la discussione e l'iniziativa politica di massa. Ancor più che nella fase precedente (20 giugno, movimento del '77, convegno di Bologna, uccisione di Crescenzio, prima, e Casalegno poi), dopo il rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta a Roma, e dopo l'assassinio di Fausto e Jaio e il loro straordinario, imponente funerale a Milano, si è accentrata su Lotta Continua una attenzione spasmodica, perfino morbosa, da parte di una schiera innumerevole di “osservatori”. Quello che viene scritto quotidianamente sul nostro giornale viene analizzato e “vivisezionato” con la cura di una équipe di specialisti. Gli “esegeti” di professione emettono pressoché ogni giorno il loro verdetto: e c'è chi ci paragona a De Carolis e chi ci denuncia, nonostante tutto, come “simpatizzanti” delle BR; c'è chi ci ritiene idealisti e opportunisti per il nostro “umanitarismo”, e chi ci considera avventuristi e militaristi, solo perché ci rifiutiamo drasticamente di allinearci con quella gigantesca operazione di “pacificazione sociale” che coincide col massimo di militarizzazione statuale. L'iniziativa di massa (oltre le difficoltà, il disorientamento e le contraddizioni delle prime ore di sabato notte) dopo lo spietato assassinio di Fausto e Jaio a Milano, la rottura dell'infame cordone sanitario di menzogne e calunnie che tutto il quadro istituzionale aveva tentato di costruirci attorno ai loro cadaveri di giovanissimi compagni del movimento, l'eccezionale partecipazione di massa e di classe ai loro funerali, dopo l'indegno e cinico comportamento soprattutto del PCI e della CGIL, hanno segnato - ma pagato ad un prezzo umanamente intollerabile - l'inizio di una svolta decisiva e profonda nella presenza e nell'iniziativa del movimento rivoluzionario dentro rapporti di forza e un quadro istituzionale drasticamente condizionato da tutto ciò che si muove attorno al rapimento di Moro (la prosa - letteralmente da voltastomaco - di G.F. Borghini sulla prima pagina de l'Unità di venerdì 24 marzo ne rappresenta, paradossalmente e vergognosamente, un sintomo, di cui però avremmo fatto volentieri a meno). Ma credo sia necessario non farsi facili illusioni sulla situazione politica e di classe attuale. Bisogna riprendere con forza il dibattito e l'iniziativa politica di massa - dall'interno delle contraddizioni che attraversano tutti i movimenti di classe e gli strati proletari - senza tentare di “esorcizzare” alcuno dei problemi che abbiamo di fronte oggi, a partire dal rapimento di Moro. I “primi risultati del rapimento di Moro” In primo luogo, dobbiamo “ringraziare” le BR della colossale accelerazione del processo di trasformazione autoritaria dello Stato, di creazione di una “democrazia protetta”, di costruzione di un vero e proprio Stato di polizia, a cui stiamo assistendo ormai con una possibilità e capacità pressoché minima - nei tempi brevi, quotidiani, in cui si sta realizzando - di intervento antagonistico. Ho scritto “accelerazione”, perché non sono certo le BR (né le altre organizzazioni “terroristiche” minori) la causa prima e principale di questo processo, che fonda le sue radici nel rapporto tra le gestione capitalistica della crisi dei rapporti di produzione e ristrutturazione degli apparati di repressione e di consenso dello Stato, in un sistema economico e politico-sociale, come quello italiano, dove permane nonostante tutto un irriducibile antagonismo di classe. Tuttavia le azioni delle BR - e delle altre organizzazioni terroristiche “di sinistra” - non solo hanno accelerato questa trasformazione autoritaria e sostanzialmente annullato (o enormemente ridotto) le contraddizioni all'interno dello schieramento borghese e revisionista, e perfino anche in ampi settori proletari e popolari, ma hanno per la prima volta fornito a questo processo reazionario quella “legittimazione” ideologica, quel consenso sociale di cui era sostanzialmente privo. Dobbiamo “ringraziare” le BR di questa rivoltante “santificazione” della DC e del suo trentennale apparato di potere; di questo varo plebiscitario (dai fascisti-legalitari di Democrazia Nazionale al PCI e alla Sinistra Indipendente, cosiddetta) di uno dei più indecenti e sputtanati governi democristiani che la storia ricordi (per non risalire agli anni '50, l'unico paragone è proprio il governo “extraparlamentare” di Andreotti - anche allora “monocolore DC” - che preparò le elezioni anticipate del 1972); di questa messa in “stato d'assedio” permanente (per settimane, mesi: chi lo sa? a chi lo dobbiamo chiedere: al Governo o alle BR, o a tutt'e due contemporaneamente?) di Roma e progressivamente di mezza Italia; di questa promulgazione, a tempi di record, della più infame infornata di leggi eccezionali e liberticide dai tempi del fascismo; di questo ingresso di massa nella mentalità della “gente” (uso volutamente un termine interclassista) della ideologia della “pena di morte” (non la pagheranno, se non in casi eccezionali, i “clandestini” della lotta armata, ma centinaia di compagni, di proletari, o magari di “piccoli delinquenti”: un massacro già in atto, ma che verrà ora moltiplicato). Nessuno obietti che tutto ciò non è opera delle BR, ma dello Stato: lo sappiamo benissimo (e prescindo, volutamente in questo intervento, dall'analizzare la questione - tutt'altro che irrilevante - della provocazione organizzata, del ruolo dei servizi segreti, dei collegamenti internazionali, che va affrontata specificamente). Ed è proprio perché lo sappiamo benissimo - e abbiamo impegnato tutti noi stessi (alcuni compagni sono morti, per questo) per denunciare, contrastare e tentare di rovesciare queste tendenze, queste realtà - che dobbiamo denunciare con la massima forza chi finge di non saperlo o di poterlo ignorare, o, peggio ancora, chi pensa che tutto ciò sia inevitabile: finché queste parole hanno ancora un senso, essere marxisti rivoluzionari è esattamente l'opposto di essere imbecilli suicidi (oltre che omicidi). Lo Stato borghese “fa il suo mestiere”, e da parte nostra non ci può essere il minimo cedimento nell'analisi, nella denuncia, nella lotta. Ma neppure il minimo cedimento nell'analisi, nella denuncia, nella lotta contro chi farnetica di “colpirlo al cuore” nel momento stesso in cui lo rafforza, lo ricompatta, lo legittima nei suoi peggiori aspetti reazionari e antiproletari. La questione del terrorismo: “non si può processare la rivoluzione”? E' vero: la rivoluzione non si può processare. Ma il problema non è questo, se non per chi ha voglia di fantasticare. Si tratta di capire se il terrorismo “di sinistra”, oggi, e in particolare la teoria e la pratica delle BR hanno qualcosa a che fare con la rivoluzione comunista. Secondo me, no: assolutamente niente. Per usare una espressione tanto cara ai loro testi “ideologici”, si tratta di una teoria e di una pratica assolutamente “controrivoluzionaria” (anche se questo termine non mi piace). Ma soltanto l'analfabetismo di ritorno di S. Corvisieri (che non capisco perché non sia indotto a rimettere un mandato che non gli è stato dato ad personam…) può richiamare l'estraneità alla “tradizione comunista”. Nella “tradizione comunista”, purtroppo, le BR rientrano tranquillamente, anche se il PCI finge di dimenticarlo: rientrano bene nella teoria e nella pratica dello stalinismo, fin nelle sue più infami aberrazioni (o, meglio, logiche conseguenze). Ma che cosa ha a che vedere tutto ciò con noi, con “la nostra storia” (come pure è stato scritto), soprattutto con la lotta di classe e la rivoluzione comunista oggi? Il nuovo ciclo di lotte operaie e studentesche del “biennio rosso” 1968-69, la nascita dell'autonomia operaia (quella vera) e dei nuovi movimenti anticapitalistici di massa, la formazione teorica e pratica di Lotta Continua, non hanno rappresentato propria la principale rottura con quella “tradizione comunista”, con ogni residuo stalinista e terzinternazionalista? Che cosa ha a che vedere, oggi, il terrorismo con il marxismo rivoluzionario? Aldo Moro non è prigioniero in un “carcere del popolo”, non viene processato di fronte ad un “Tribunale del Popolo” (con le dovute maiuscole del volantino), la sentenza, qualunque sarà (personalmente ritengo che le BR non abbiano comunque interesse, dal loro punto di vista, ad ucciderlo), non sarà emessa “in nome del popolo”: il popolo, il proletariato, la classe operaia, i movimenti rivoluzionari di massa con tutto questo non hanno niente a che fare. E' una tragica farsa, che va giudicata come tale. Ma non siamo a teatro (è questo , credo, il motivo dell'incredulità di molti alla prima notizia del rapimento). Questo non hanno capito tutti coloro che sono scesi in piazza fin dal pomeriggio di giovedì 16 marzo anche nel più radicale dissenso dal “farsi Stato” del PCI e della dirigenza sindacale, ai quali ultimi, comunque, le BR hanno fornito una straordinaria occasione per imporre un “riflesso d'ordine” in larghi settori di massa. A Torino, dunque, non si processa affatto la rivoluzione (anche a prescindere dall'estraneità materiale di quei militanti delle BR da questa azione terroristica). Questo non toglie nulla alla natura politica di quel processo, e di tutto ciò che gli sta dietro, e al nostro compito di analizzarne e denunciarne le caratteristiche “di regime” e l'uso reazionario che ne viene fatto. Al pari di qualunque altro “processo politico” che abbiamo affrontato in questi anni, ma senza alcuna identificazione con gli imputati, se non per quanto riguarda la difesa dei loro diritti civili e politici (tra gli imputati, oltre a tutto, ce ne sono molti che non appartengono affatto alle BR e che sono stati coinvolti in ripetute provocazioni di Stato). Terrorismo, lotta armata e violenza Gran parte del disorientamento, delle incertezze, delle difficoltà che si sono manifestate all'interno della sinistra rivoluzionaria e del movimento di opposizione subito dopo il massacro della scorta e del rapimento di Moro sono dovuti non tanto alla “sorpresa” tremenda di fronte ad una situazione inaspettata e totalmente “esterna”, ma soprattutto alla enorme arretratezza e ambiguità del dibattito politico di massa su questi problemi. Personalmente, qui, non entro neppure nel merito (per ragioni di spazio, oltre che di stomaco) di interventi come quello di O. Scalzone sul Quotidiano dei lavoratori del 16 marzo (“Per la critica delle ideologie del movimento”) e quello firmato dai “Comitati comunisti rivoluzionari” ospitato anche su Lotta Continua del 19 marzo: il primo mi è sembrato un trattato di metafisica sulla “nuova era del comunismo” (e sul carattere “storicamente residuale” - “dovesse pur durare un millennio” - del capitalismo); il secondo mi è parso un insulto alla intelligenza collettiva del movimento rivoluzionario (le BR sbaglierebbero soprattutto perché esprimono un livello troppo avanzato di “destabilizzazione” rispetto alle capacità attuali dei movimenti di classe: se facciamo qualche passo avanti, dunque, cosa ci aspetta poi?). Resta il fatto che negli ultimi due anni abbiamo assistito ad una sistematica “distruzione” nella coscienza delle masse proletarie di una autentica concezione della “violenza proletaria” dell'esercizio della forza da parte dei movimenti di classe, della stessa questione della “lotta armata” come aspetto specifico di un processo rivoluzionario di massa. Le forze della sinistra istituzionale, politica e sindacale, hanno fatto a gara per affermare che tutto ciò non ha niente a che fare con la lotta di classe, addirittura con la storia, la tradizione e la pratica del movimento comunista e socialista: un falso storico e teorico di proporzioni gigantesche. Ma nell'ambito di settori - pur assolutamente minoritari - del movimento di opposizione si è fatto a gara per espropriare le masse e i movimenti di lotta della gestione diretta dell'esercizio della forza sul proprio terreno e sui propri obiettivi, col risultato che l'aggettivo “proletario” in molti casi è stato accoppiato alle forme più irresponsabili di violenza gratuita, all'esaltazione più impotente del militarismo avventurista, alla ignobile parodia del cosiddetto “esproprio proletario”. Abbiamo anche assistito ad un farsesco “dibattito a distanza” tra le BR e alcuni settori dell'Autonomia organizzata sullo “spontaneismo armato”, da una parte, e sulle “deviazioni militariste” dall'altra. Recentemente abbiamo persino letto - sotto forma (ma c'è solo la forma) di materialismo - una specie di ontologia della violenza: “Il materialismo storico definisce la necessità della violenza nella storia: noi la carichiamo dell'odierna qualità dell'emergenza di classe, consideriamo la violenza come una funzione legittima dell'esaltazione del rapporto di forza nella crisi e della ricchezza dei contenuti dell'autovalorizzazione proletaria”. (A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, Feltrinelli, Milano, 1978, p.69). Il moltiplicarsi di “sigle” clandestine del “proletariato armato” (o “comunista”, o “combattente”, ecc.) ha avuto un susseguirsi allucinante, anche con reciproche smentite e “conflitti di attribuzione” nella rivendicazione delle varie azioni terroristiche. Ma l'unico “conflitto di competenza” che doveva essere sollevato con forza e fino in fondo - quello da parte dei movimenti di massa, delle forze dell'opposizione rivoluzionaria - è stato invece spesso timido e rituale. E' allucinante, ma anche patetico, leggere questa dichiarazione di Peter Chotjewitz riguardo all'esperienza della RAF: “Baader sospettava che molti dei nuovi gruppi di terroristi fossero infiltrati dalla polizia e dai servizi segreti. Troppi proclami, troppe sigle nuove, alcune organizzazioni chiaramente inesistenti. Arrivò perfino a chiedermi di indagare sull'identità dei nuovi terroristi; nel carcere gli arrivavano poche informazioni, non aveva prove, ma non si fidava”. E di chi dovrebbero fidarsi i proletari e i rivoluzionari, che non fanno parte né della RAF né delle BR? La sinistra storica o lo Stato Per dieci anni noi abbiamo fatto un lavoro sistematico di controinformazione militante e di massa nei confronti del terrorismo fascista, della strategia della tensione e della provocazione di Stato, del ruolo dei corpi armati e dei servizi segreti nelle stragi, negli attentati, nei progetti golpisti. Per anni ci siamo mobilitati per la piena attuazione del dettato costituzionale con la messa fuorilegge del MSI e abbiamo lottato a livello di massa per l'individuazione, la denuncia e l'epurazione dei fascisti, terroristi e golpisti dai luoghi di lavoro e dai corpi dello Stato. Nel frattempo ci sono state centinai di vittime di stragi, attentati e provocazioni, fra cui alcuni tra i nostri compagni più cari. Siamo stati - per tutto questo - attaccati, calunniati, diffamati. Ci si rispondeva che questo non era compito delle forze di classe, ma soltanto dello Stato (quello stesso Stato che risultava - in alcune delle sue principali articolazioni - direttamente coinvolto nella strategia della tensione e della provocazione, come ormai sanno anche i sassi), che bisognava chiedere “allo Stato di fare luce sulle oscure stragi” (con i risultati che abbiamo visto). Ora il PCI e la dirigenza sindacale (CGIL in testa) chiedono proprio controinformazione di massa, inchiesta, denuncia e epurazione contro… il terrorismo di sinistra, a parole, le avanguardie della sinistra rivoluzionaria, nei fatti (il PCI molti degli attuali terroristi li ha avuti al suo interno, e non se ne è mai accorto, proprio perché il militante “clandestino” è l'ultimo a esprimere pubblicamente posizioni “estremiste”). Lama si sta candidando a passi da gigante a divenire il nuovo D'Aragona del sindacalismo italiano (anche il suo “precursore” era segretario generale della CGIL e ce l'aveva a morte con gli “estremisti” che occupavano le fabbriche nel '20): e ciò non nei confronti del regime fascista (che non c'è) ma dello Stato autoritario di polizia (che si sta realizzando, anche col riutilizzo di tutte le strutture ereditate dal fascismo ancora “in vigore”). Pecchioli è da mesi - ora in modo scatenato - accanito sostenitore del rilancio dei servizi segreti, di questi servizi segreti: non si chiamano più SID o “Affari riservati”, bensì SISMI, SISDE e UCIGOS (avevano fatto la stessa operazione di “riciclaggio” col SIFAR), ma con gli stessi uomini, le stesse strutture, gli stessi metodi che hanno insanguinato l'Italia (e che hanno aperto la strada al terrorismo “di sinistra”, che in questo trova una sua legittimazione), eccezion fatta per Miceli, che non sta in galera, però, ma tranquillamente sui banchi del Parlamento. Amendola (poverino) ha imperversato sulla “matrice cattolica” delle BR. Trombadori è la dimostrazione vivente di come si possa arrivare a trasformare la lotta politica in un “caso patologico”, irriducibile a qualunque terapia. Ingrao (che ha tenuto ben altro stile, ma con non molta dissimile sostanza) cita… il “vescovo castrense” (che al funerale della scorta ha parlato, come in effetti è, da ufficiale di polizia) e esprime una sua “fissazione” (così dice): tutto il movimento operaio e democratico unito in un solo compito, la “lotta al terrorismo”, senza una sola parola (una sola!) contro il terrorismo fascista che ha assassinato a Milano Fausto e Jaio. La dirigenza sindacale milanese e nazionale (CGIL in testa) si è ricoperta di fango e di infamia quando ha avuto di fronte i cadaveri di due compagni del movimento di opposizione, e non più due poliziotti. Di Aldo Moro - che pur assomiglia pochissimo al ritratto farsesco che ne hanno dato le BR - hanno dimenticato tutto dagli “omissis” di fronte a tutte le trame eversive che coinvolgevano lo Stato e la DC alle stesse biografie che ne hanno scritto (la scheda di copertina) del libro di A. Coppola, attuale direttore di Paese Sera, recita: “Aldo Moro è la sfinge del cattolicesimo politico italiano. (…) uno dei responsabili (forse il maggiore) dei più gravi fenomeni degenerativi della crisi italiana”. Si sfornano leggi eccezionali (ben sapendo che non serviranno a nulla contro il terrorismo, ma solo contro le forze di opposizione di massa) e si manomette a man bassa la Costituzione, ma con la suprema ipocrisia di dire che è tutto “normale” e rigorosamente “costituzionale” (e, contemporaneamente, i giovani leoni del vecchio “operaismo” economicista, oggi nel PCI, imprecano e calunniano contro il “neo-garantismo” della nuova sinistra, meglio, degli “estremisti”: e non c'è dubbio che il garantismo lo stiamo seppellendo sotto tonnellate di sabbia). La sinistra rivoluzionaria: né con le BR, né con lo Stato. E poi? E' giusto: né con le BR, né con lo Stato. Ma non basta. Tutti abbiamo avvertito in questi giorni una sensazione di tremenda impotenza. Il disorientamento vissuto dai compagni è reale: è esploso di fronte al rapimento di Moro, ma viene da lontano. Sulla questione dello Stato (che sta a monte di quella del terrorismo) il dibattito langue da due anni (e intanto imperversano i libri, grandi e piccoli, di Toni Negri). Per i teorici e i militanti dell'“Autonomia” il problema della democrazia non esiste, anzi è un falso problema. Per noi invece, credo, è un problema decisivo. Questo Stato è di classe, borghese (chi lo nega, “da sinistra”, è perché semplicemente ne adotta ormai lo stesso punto di vista, non solo in termini ideologici, ma anche materiali): ma c'è per noi un abisso tra regime totalitario-fascista e regime democratico-rappresentativo. La classe dominante, quando non riesce a sconfiggere i movimenti antagonistici di massa, tende sempre più ad abbandonare il terreno stesso della democrazia borghese. Non è un paradosso: è una realtà ripetutasi ormai in innumerevoli situazioni storiche (dall'Italia del '22 al Portogallo del '26, dalla Germania del '33, alla Spagna del '37, e così via fino ai giorni nostri in Grecia, Uruguay, Cile, Argentina). L'interesse dei rivoluzionari non è affatto quello che la borghesia “si smascheri” mostrando “il suo vero volto fascista”: questo credeva anche il PCd'I del '22, con le conseguenze che sappiamo. E' fondamentale, invece, il rapporto tra la lotta di classe a livello dei rapporti di produzione, e sociali, e lotta per la democrazia sul terreno istituzionale; così come per la classe dominante la gestione della crisi economica e sociale si salda strettamente con la ristrutturazione autoritaria e reazionaria dello Stato. Non è una questione “sovrastrutturale”, secondo il peggiore dogmatismo “m-l”: è una questione che incide direttamente sui rapporti di forza generali tra le classi, sulla possibilità stessa dell'esistenza di una opposizione rivoluzionaria non clandestina e dei movimenti antagonistici di massa. Non è vero che o si sta con il PCI (e lo Stato) o con le BR: a sostenerlo - da posizioni opposte, ma simmetriche - sono proprio il PCI, da una parte, e le BR, dall'altra. E' falso. Ma le ragioni di questa “falsità”, le ragioni di una opposizione di massa non sono affatto “date a priori”. Il terreno su cui non costruiamo noi, lo occupano e lo gestiscono il nemico di classe, l'opportunismo revisionista, il militarismo avventurista. Né con lo Stato, né con le BR, è solo una delimitazione, necessaria, ma in negativo. Dobbiamo costruire - e riscoprire, senza dare nulla per scontato - una prospettiva e una pratica rivoluzionaria che non si nascondano “nelle pieghe della storia” (magari in attesa di tempi migliori), ma che sappiano saldare da subito il massimo di bisogni proletari con il massimo di auto-organizzazione in prima persona dei soggetti sociali reali. Altrimenti rimarremo stritolati.

 

 

 

 

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