Aldo Moro fu rapito 25 anni fa, il 16 marzo 1978 alle ore 9.02

COSSIGA: La mattina mi svegliavo pensando: l’ho ucciso io

16 marzo 2003

di Aldo Cazzullo

NEL salotto, tra la foto con dedica della regina Elisabetta e quella della Thatcher, ce n’è una in un portaritratto d’argento: «A Francesco Cossiga, con vivissima riconoscenza e grande cordialità. Aldo Moro». Di Moro Cossiga non vorrebbe parlare. Accetta dopo lunghe insistenze. E lo fa per un pomeriggio intero, interrotto solo dal latrare elettronico del suo cane interattivo di nome Aibo, e dalle telefonate, che sbriga rapidamente, di D’Alema, Bertinotti e altri leader della sinistra che vogliono sapere della mozione che sta preparando in caso di guerra. Poi riprende. «Per giorni, per mesi, dopo via Caetani e le mie dimissioni, mi sono svegliato di soprassalto dicendo: “Io ho ucciso Aldo Moro”. E ne ero consapevole, sin dall’inizio».

Che cosa significa questo, presidente?

«Che fin da quando, nell’edicola di Monte Mario dove stavo sfogliando riviste di elettronica, appresi dalla radio dell’auto di scorta collegata con il capo della polizia che Moro era stato rapito, fui certo che sarebbe stato ucciso».

Perché?

«Perché scegliendo la linea della fermezza, noi stabilivamo la sua condanna a morte. Così scrissi subito due lettere di dimissioni: una nel caso le Br l’avessero ucciso; l’altra nel caso, che mi pareva remoto, l’avessero liberato».

Escludendo così che Moro avrebbe potuto essere liberato dalle forze dell’ordine?

«Assolutamente sì. Lo Stato era impreparato. Con servizi segreti sputtanati, investiti dalla riforma, a tal punto che mi chiedo se il loro indebolimento non sia stato una delle migliori operazioni del Kgb. Con la polizia che due anni prima i socialisti intendevano disarmare; e rammento che proprio Moro, in una riunione nella sala verde di Palazzo Chigi, si oppose alla richiesta di De Martino. Ricordo una vignetta di Forattini successiva alle mie dimissioni: ci sono io che consegno al ministro dell’Interno ad interim Andreotti le armi di cui dispongo: un elastico».

A un certo punto però la linea della fermezza entrò in discussione.

«E io scrissi la terza lettera di dimissioni. Il giorno in cui fu trovato il corpo di Moro, Fanfani avrebbe proposto alla direzione Dc di convocare il consiglio nazionale, per decidere se avviare la trattativa».

E come sarebbe finita?

«Di sicuro la trattativa sarebbe stata avviata. Sancendo la fine della linea della fermezza e del compromesso storico. E in tal caso io mi sarei dimesso, non tanto per protesta, ma perché al Viminale non avrebbe potuto sedere un intransigente».

Di recente Andreotti ha escluso questo scenario.

«Su questo punto Giulio, che ricordo come uno degli uomini più angosciati e più impegnati nel tentativo di salvare Moro, sbaglia».

Lei però non era alla direzione Dc. Come apprese la notizia dell’assassinio di Moro?

«Dalla polizia, che intercettò la telefonata di Moretti a Tritto. I telefoni dei familiari e dei collaboratori di Moro erano sotto controllo. Me lo dissero mentre nella mia stanza c’era Signorile».

Lei non ha mai creduto a grandi vecchi, non ha mai dato credito a dietrologie. Restano da spiegare molte circostanze poco chiare. A cominciare dal ruolo dei piduisti al vertice dei servizi o nel comitato d’emergenza che lei riuniva al Viminale. Santovito, Grassini, Pelosi.

«Tutti devoti a Moro. Così come altri piduisti, uno dei quali Moro impose contro il suo consigliere personale alla segreteria generale della Farnesina. L’Unità scrisse che ero stato plagiato da Gelli. In realtà Moro scrive che ero plagiato da Berlinguer, per motivi di sardità, e perché credevo davvero al compromesso storico. La prima ragione era falsa. La seconda, no».

È possibile che Igor Markevic abbia avuto un ruolo?

«Uno dei capi delle Br mi disse un giorno: se mai facessimo i nomi dei nostri fiancheggiatori, di tutte le classi sociali, che ci diedero asilo, vi meravigliereste molto».

E il falso comunicato che indicò il corpo di Moro nel Lago della Duchessa?

«Fui depistato dal fatto che tutti gli esperti di polizia, carabinieri e procura mi dissero, in buona fede, che era autentico. Oggi si può pensare a un’operazione per dare impulso al partito della trattativa, o per far uscire le Br allo scoperto. Certo non per per perdere Moro».

C’è chi sostiene che Moro fu ucciso dai democristiani, chi dagli americani.

«Moro fu ucciso dalle Br, di cui fu il primo a comprendere la natura non di brutali terroristi, ma di eredi di una linea di sovversione che discende dalla Resistenza».

Cosa sarebbe stato di lui in caso di liberazione? È vero che sarebbe stato portato in clinica?

«No; alla Cattolica. È il piano “Mike&Victor”, di cui fui considerato responsabile, sino a quando non mostrai che era scritto su carta intestata della procura della Repubblica. Nella versione originale, prevedeva che Moro avrebbe dovuto essere sottratto alla famiglia. Ne parlai con uno psichiatra che era anche politologo, Pieczenik, mandatomi dagli americani, il quale mi suggerì di affidare Moro a uno psicoterapeuta che parlasse italiano ma non fosse italiano, e si impegnasse a distruggere il nastro delle conversazioni».

Quale fu il ruolo degli americani?

«All’inizio si disinteressarono: Carter aveva ordinato alla Cia di occuparsi di operazioni antiterrorismo all’estero solo qualora riguardassero interessi nazionali».

E se Moro avesse rivelato segreti Nato?

«Fu la prima cosa che chiedemmo: se Moro fosse a conoscenza di segreti. Ci risposero: non di segreti vitali. Comunque, io insistetti, chiesi l’interessamento del residente della Cia, e ottenemmo così la collaborazione di un ufficiale dell’ufficio antiterrorismo del dipartimento di Stato».

Le carte Cia rivelate dalla «Stampa» indicano una viva preoccupazione Usa per l’avvento dei comunisti al governo. Quale era per Moro l’approdo del compromesso storico?

«Il compromesso storico avrebbe dovuto essere una fase transitoria verso la democrazia dell’alternanza. La visione di Moro era quella del cardinal Casaroli: il comunismo non poteva essere vinto sul piano politico; i barbari non si potevano respingere; li si poteva semmai, con pazienza, battezzare».

Lei ha denunciato lo stravolgimento postumo della figura di Moro.

«Ritengo che Moro debba essere inquadrato tra i grandi teorici del pensiero politico e tra i grandi operatori della politica, non tra i grandi uomini di Stato. Moro non appartiene alla schiera dei Cavour, dei Giolitti, dei Mussolini, dei De Gasperi. Semmai a un’altra categoria, composta da personaggi intellettualmente e forse anche moralmente più alti come Gioberti, Cesare Balbo, Mazzini, Cattaneo, don Sturzo, più attenti alle ragioni della politica intesa come arte di sviluppo della società civile che come arte di governo dello Stato. Le ricordo che quando De Gasperi chiese a Montini un giovane della Fuci per fargli da sottosegretario, il futuro Paolo VI indicò Andreotti, non Moro».

Nel suo libro «La passione e la politica» lei sostiene che vent’anni prima Moro avrebbe potuto essere un grande uomo politico fascista.

«Sì, se il fascismo, anziché degenerare nella follia filonazista e antisemita, fosse diventato un lungo regime nazionale. Moro era un cattolico sociale più che un cattolico liberale. Più Mounier che Maritain. Respingendo ogni suggestione liberale e idealista, Moro considerava lo Stato una sovrastruttura tecnica della società civile, e quindi non considerava lo Stato titolare di un prestigio più importante della salvezza della sua famiglia, come di qualsiasi altra famiglia, o dell’interesse del suo Luca, come di qualsiasi altro Luca».

Si riferisce alle lettere inviate dalla «prigione del popolo»? Ma quello non era forse il tentativo disperato di salvarsi la vita?

«Non è così. Il modo con cui Moro affrontò il problema della sua carcerazione è coerente con la sua visione della società e dello Stato, e lo pone appunto non tra i grandi statisti ma tra i grandi teorici politici. Ho commesso un errore, sia pure in buona compagnia, dal cardinal Pellegrino a monsignor Riva al professor Scoppola, a non considerare autentiche moralmente e intellettualmente le lettere di Moro. E ho cambiato idea per due motivi. I giudizi sui politici sono gli stessi che Aldo mi confidava nel suo studio di via Savoia, di fronte alla bottiglia di whisky che aveva comprato per me. Ed emerge, nel suo respingere la linea della fermezza, il disprezzo per il prestigio dello Stato democratico; da cui la condanna senza appello che l’avrebbe colpito da parte dei comunisti qualora fosse sopravvissuto».

A cosa si riferisce?

«Quando mi arrivò la prima lettera di Moro, venne da me Pecchioli. E mi disse una frase terribile: “Qualunque cosa accada, per noi da questo momento Moro è politicamente morto”. Conoscendo Pecchioli, escludo parlasse a titolo personale. Eppure Moro fu leale durante la sua prigionia. Ai brigatisti parlò di segreti di Stato, ad esempio di Gladio, ma in modo che loro non potessero capire. E infatti non capirono».

Quindi l’immagine del Moro progressista con l’«Unità» in tasca è un falso storico.

«Moro fu un grande conservatore democratico. Non si è mai definito di sinistra. La gente ignora che Moro stracciò il progetto di riforma sanitaria in faccia al ministro proponente, Tina Anselmi. Che si oppose sempre alla riforma della scuola e dell’università. Che fu, insieme con Taviani, il politico che più si avvalse dei servizi segreti. Per uomini come Martini il mito era Moro, seguito da Craxi e, in secondo piano, da me e da D’Alema».

I grandi democristiani parlano ancora oggi di Moro con rimpianto se non con rimorso. La sua previsione - «Il mio sangue ricadrà su di loro» - si è avverata?

«Sì. E non si capisce quella maledizione se non la si collega alla difesa che egli fece della Dc: “Non ci processerete sulle piazze”. Quella di Moro non era un’intimazione, ma una profezia. Moro conosceva i comunisti e sapeva bene che potendo ci avrebbero processato sulle piazze; come poi hanno fatto. Quanto a me, l’ossessione mi è passata solo quando ho saputo distinguere tra rimorso psicologico e rimorso morale. Tra quel che passa, e quel che resta».

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Intervista al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre

"Ma la verità vera ancora non c'è"

di SILVANA MAZZOCCHI

ROMA - "Da allora, ci ho pensato tante volte, e con rammarico: Quel mattino avrei potuto salutarlo meglio, parlare un po' con lui... invece - saranno state le otto, le otto meno un quarto - passai dinanzi al bagno distrattamente, lo vidi che si stava facendo la barba, con sapone e pennello, come sempre. Dissi appena un ciao e uscii". Un'ora dopo, Aldo Moro sarebbe stato rapito e gli uomini della scorta massacrati. Era il 16 marzo 1978. Giovanni Moro, suo figlio, aveva vent'anni. Adesso ne ha quaranta e s'immerge nei ricordi con qualche riluttanza: "Era un giovedì, mia madre era andata a tenere la sua lezione di catechismo nella parrocchia lì vicino... in famiglia solo mio padre si alzava tardi, del resto a casa non tornava mai prima di mezzanotte e dunque...".

Dalla strage sono ormai trascorsi due decenni e sono arrivati i giorni delle memorie e dei bilanci. Giovanni Moro accusa: "Non c'è ancora verità, nè quella storica, neè quella giudiziaria, e tantomeno quella politica. Moro non fu colpito perché era un simbolo, come si disse, ma per fare un'operazione chirurgica sulla politica italiana, per fermare il suo progetto. Anche i brigatisti non hanno detto la verità: perché non hanno reso pubblico tutto ciò che ha raccontato mio padre? E perché lo uccisero proprio quando nella Dc si era aperto uno spiraglio? E, infine, perché lo Stato non fece nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico ... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell'Interno a cui fosse capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello Stato".

Come venne a sapere, quel 16 marzo, che suo padre era stato rapito?

"Ero arrivato da poco nella sede del Movimento Febbraio '74, in via Gregorio VII, avevamo appena traslocato e non c'era ancora il telefono. Verso le 9 e 30 qualcuno me lo venne a dire di persona. Ma le notizie erano incerte, confuse. Non si sapeva che cosa gli fosse successo, nè dove fosse, nè si sapeva dei morti. No, non ricordo chi fu ad avvertirmi, forse un uomo della mia scorta. Tutti noi della famiglia eravamo scortati".

Perché?

"Noi... ce l'aspettavamo prima o poi".

Riprenda il filo del suo ricordo.

"Mi avviai verso casa, con la mia macchina. Quando arrivai all'angolo di via Fani, vidi tutto bloccato, la polizia, le volanti... compresi che era successo qualcosa di veramente grave. A casa trovai mia madre. L'aveva saputo subito, in parrocchia. E di lì a piedi si era precipitata in via Fani. Aveva visto la scena, il sedile di dietro che non era sporco di sangue... capì che lo avevano rapito. Ma solo ad un certo punto della mattinata se ne ebbe la certezza... venimmo a sapere che gli uomini della scorta erano stati uccisi. Fu un grande dolore, eravamo tutti molto legati. Loro, le loro famiglie, stavano spesso con noi, la domenica, in vacanza...".

La prima rivendicazione dell Br delle 10.10...

"Non ricordo cosa disse mia madre... in casa c'erano anche le mie sorelle. La nostra impressione fu comune: tutti insieme sentimmo che non si era voluto colpire un simbolo, come poi si disse. Ma che si stava facendo un'operazione chirurgica sulla politica italiana. Moro era l'artefice dell'incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. E del resto basta guardare agli anni delle bombe... e fare una considerazione. Che quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano. La sua politica è strettamente collegata a questo pezzo di storia italiana".

Quella mattina, il progetto di suo padre doveva andare in porto con il governo di solidarietà nazionale, temevate qualcosa?

"Non si era mai parlato esplicitamente dei rischi. Ma lui, già qualche mese prima, aveva insistito moltissimo perché tutti noi fossimo scortati. Aveva cominciato a preoccuparsi soprattutto dopo il rapimento del figlio di De Martino, l'anno precedente... lui non diceva mai niente di concreto, ma in quel periodo in famiglia c'era una grande tensione, un clima che si tagliava con il coltello. Infine, accadde".

Che cosa ricorda di quelle prime ore?

"Eravamo tutti un po' sbandati, soprattutto non riuscivamo a capire fino in fondo che cosa fosse davvero successo. Ci sentivamo nell'occhio del ciclone, ma separati. Intorno a noi succedevano le cose più incredibili. E noi lì, insieme, in calma apparente a leggere i giornali, a vedere i telegiornali".

Dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie....

"Sì, ma era un rapporto molto... insomma, nella vita famigliare, Moro non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due di notte. Non c'era la domenica, nè le feste... Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non esisteva la dimensione quotidiana".

In una lettera a Zaccagnini, suo padre accennò a gravi problemi famigliari...

"In famiglia c'erano i normali conflitti. Ma, al di lè di questo, lui era molto preoccupato per tutti noi e probabilmente aveva le sue ragioni... mia sorella Anna stava aspettando un bambino, insomma un insieme di preoccupazioni, anche per la nostra sicurezza".

A lei, suo padre scrisse mai dalla prigione?

"Due lettere per me vennero ritrovate a Milano, solo nel '90, in via Montenevoso. In una mi avvertiva sul che cosa fosse la politica... forse voleva dire che dentro la politica c'era anche quello che gli stava capitando".

Che cosa ricorda dei giorni precedenti all'agguato?

"In quel periodo sembrava molto stanco, provato. Aveva 62 anni, pensava di aver avuto già tutto dalla politica. Io non so se lui pensasse alla presidenza della Repubblica. Credo che lui non lo desiderasse. Ma ritengo anche che sarebbe stato pronto a farlo... ed era nell'ordine delle cose. E forse anche questa stata una delle cause scatenanti di questa vicenda. Insomma in quei giorni era scocciato, irritato dalle difficoltà... dalle risse tra quelli che volevano entrare nel governo. E poi convincere la Dc a quell'operazione, convincere il Pci, era stato davvero duro. Durante la conduzione di quella crisi c'era stato uno scambio di battute molto pesanti con Andreotti".

Moro prendeva molte medicine? E' vero che le teneva in una borsa, tra quelle che si portava dietro? A proposito, quante erano veramente le borse? I brigatisti dissero di averne prese due.

"Un po' lui aveva la tendenza a preoccuparsi per le malattie, un po' aveva anche dei reali problemi di ansia e di stress. Sì, aveva una borsa piena di medicine, ma quante borse si portasse dietro, non lo so. Ce ne era una con i materiali dell'Università, e poi aveva altre carte. Che riguardavano, per esempio, lo status dei servizi segreti. Faccio notare che quelli erano i giorni caldi dello scandalo Lochkeed. Proprio quella mattina Repubblica era uscita con un titolone: Moro Antelope Cobbler. Si cercava di buttare addosso a Moro lo scandalo... Lui non c'entrava niente, ma il punto era che la vicenda veniva usata per ostacolare il processo politico che aveva avviato".

Moro era un democristiano, ma anche un uomo nuovo, di frontiera...

"Per questo, forse, al di là della sua appartenenza, era considerato pericoloso. Mi sono spesso chiesto perché non sono mai stati ritrovati gli elenchi completi del piano Solo, dello scandalo Sifar del '64. E mi rispondo che, probabilmente, la ragione è che non c'erano solo i comunisti, i sindacalisti e i socialisti, ma perché era pieno di democristiani amici di Moro che dovevano essere presi. Lui aveva intuito che la guerra fredda era destinata a diventare marginale, era stato per anni ministro degli esteri... Dall'interpretazione di quello che accade nel '68 da noi e nel mondo, lui capisce che le società civili tendenzialmente diventano autonome dai poteri politici... E forse capisce troppo".

Suo padre aveva un buon rapporto con Berlinguer?

"Sì, stima e rispetto, anche se Moro aveva un disegno politico diverso. Berlinguer guardava al confronto tra due grandi potenze che si dovevano in qualche modo impegnare per salvare la democrazia. Moro credeva che si dovessero creare le condizioni sociali, culturali e politiche della democrazia dell'alternanza. Lo voglio ripetere: mio padre era l'uomo del superamento della guerra fredda. E c'era un sacco di gente, in Italia e fuori di Italia, che lo considerava un pericolo. Questa è una spiegazione che rende conto di tanti possibili coinvolgimenti".

Nel '78, il terrorismo già era molto diffuso, Moro ne parlava?

"Era preoccupato. Anzi, credo sia stato il primo a coniare l'espressione 'partito armato' per definirne la complessità. Per lui significava una forza politica, con una intenzionalità e con delle strategie. Non solo un agire politico. Ricordo che rimase molto colpito dall'omicidio di Casalegno. Disse di avere la percezione che costituiva il salto di qualità del terrorismo".

Torniamo ai 55 giorni, Cossiga era il ministro dell'Interno, guidava le ricerche di suo padre. Venne mai in casa vostra?

"Due volte, mi pare. Sicuramente il 17 marzo e poi il giorno in cui fu scoperta la base brigatista di via Gradoli, il 18 aprile. Ne ricavammo la sensazione che non sapessero dove sbattere la testa. Anzi, sin dall'inzio, si ebbe l'impressione che fosse in atto una strategia della rappresentazione, un conflitto simbolico. Che usava le forze dell'ordine per mettere in scena una lotta simbolica alle Br. E cinque processi non sono riusciti a chiarire questo aspetto della vicenda".

Il 18 aprile, poco dopo la scoperta della base di via Gradoli, arrivò il falso comunicato di Lago della Duchessa che annunciava la morte di Moro. Vi sembrò attendibile?

"Ci venne detto che si era tardato ad andare in via Gradoli, dopo la segnalazione, perché la strada non era sulle pagine gialle. Si era andati al paese Gradoli... soltanto in seguito si apprese che in quella via c'erano stati, ma che, avendo bussato alla porta e non avendo trovato nessuno, se ne erano andati. Quanto al falso comunicato, no... non ci credemmo, si ebbe l'immediata impressione che non fosse autentico. Non lo interpretammo come una prova generale, come poi si disse, ma genericamente come un'interferenza, come un tentativo di qualcuno di forzare la situazione".

La Dc (ma non solo la Dc), sostenne che le lettere che venivano dalla prigione non potevano essere state scritte da Moro, lei riconosceva suo padre?

"Sì, completamente. E senza alcuna ombra di dubbio. Addirittura dal punto di vista linguistico ... e poi la continuità del pensiero, dell'espressione. Era lui, non c'è discussione".

In quei giorni, lei, voi credeste davvero che Moro poteva tornare libero?

"Pensammo fino alla fine che potesse essere salvato, lo abbiamo sempre creduto, e ci siamo battuti con tutti i mezzi e fino all'ultimo. Certo non era una speranza fondata su chissà cosa. Ma abbiamo sempre agito in questa direzione, fino alla fine. Ed eravamo uniti. Capivamo che la situazione era grave. La lettera del Papa era stata terribile, quel 'liberatelo senza condizioni...'

Il 30 aprile le Br al telefono sollecitano l'intervento di Zaccagnini. E' vero che lei lo chiamò e fu lei a darsi da fare?

"Sì, lo chiamai dalla casa del portiere, perché il nostro telefono si era bloccato. Gli riferii l'ultimatum dei brigatisti, fu una conversazione piuttosto tumultuosa... noi avevamo una sensazione di impotenza. Altro che canali privilegiati... Di recente Cossiga ha dichiarato alla commissione stragi che la famiglia Moro, all'epoca, ebbe informazioni che non ha messo a disposizione... ma quando mai... la storia che noi avevamo un canale di ritorno privilegiato, è una sciocchezza. E in ogni caso di noi si sa tutto, perché eravamo microfonati".

Qualche giorno dopo il rapimento fu diffusa la foto di suo padre nella prigione, in camicia, con la stella a cinque punte alle spalle. Che impressione le fece?

"La guardai a lungo. Mio padre lo rivedevo lì, vestito come Aldo Moro non si sarebbe mai mostrato in pubblco, la camicia aperta, la canottiera. Sul suo volto lessi una sottile smorfia di ironia, ma soprattutto rabbia. Forse per la natura della vicenda, un po' da commedia tragica, tragicissima. Gli è stato rimproverato di non essersi comportato come un eroe della Resistenza. Ma lo si capiva anche dalle lettere: lui era consapevole che quella non era la resistenza, che si trattava di una faccenda molto meno seria. E le Br non erano l'esercito di Hitler".

In quei giorni in casa vostra venne spesso Tina Anselmi, in seguito andò a presiedere la commissione P2. Che cosa vi diceva, che cosa vi disse in seguito?

"Lei si convinse molto della correlazione tra i due eventi: il caso Moro e la Loggia di Gelli. Del resto, a parte le dietrologie, leggendo certi storici, come Franco De Felice, viene fuori che la realtà del doppio Stato ha attraversato decenni di storia repubblicana del nostro paese".

Suo padre aveva delle verità democristiane che avrebbe potuto rivelare ai brigatisti?

"Certamente nella prigione br, Moro non dice tutto quello che sa. Dice quello che gli interessa dire. E porta avanti anche una riflessione politica. Ma di Gladio parla per la prima volta e racconta molte altre cose. Perché non sono state rese pubbliche? I brigatisti hanno diffuso episodi ben meno pregnanti: quelli che pure avrebbero potuto creare imbarazzo alla Dc, li tennero segreti. Guardando le carte ritrovate nel '90 in via Montenevoso, viene spontaneo chiedersi il perché. Con la rivelazione di Gladio, le Br avrebbero distrutto l'immagine dello Stato che si voleva saldo e integro. Sono sicuro che su questo punto i brigatisti mentono ancora oggi".

Lei ha mai avuto interesse a incontrarli?

"Per carità... Non ci tengo. Mi sono arrivate varie richieste, negli anni. L'ultimo è stato Maccari, ma non mi interessa".

Lei continua a chiedere verità. Vent'anni dopo, qual è il pezzo di verità che ancora lei cerca?

"La verità è un fenomeno complesso. E' a strati. C'è una verità storica e riguarda il perché Moro. Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico, ma non basta essere d'accordo in tre o quattro, deve diventare la verità di tutti. Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un'operazione politica. E l'hanno fermato per questo, altro che simbolo... Poi c'è una verità politica. Che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d'accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno. Ed è la questione principale, ancora tutta aperta. Se non si riconosce questo, se non si riflette su questo, non arriveremo mai veramente alla seconda Repubblica. Non c'è stata alcuna autocritica all'interno della Dc sui comportamenti di allora, nè c'è stata riflessione all'interno del mondo che all'epoca era il Pci. Ormai i comunisti chiedono scusa di tutto, perfino di aver sternutito nel 1921, ma di questo... non se ne parla. Non hanno ceduto neanche di un millimetro".

Lei parla di verità politiche. C'è chi sostiene che le Br non fornirono il bandolo che avrebbe potuto salavare Moro, è così?

"Non vero. Alla fine sarebbe bastata una semplice presa di posizione, un comunicato chiaro. Invece, si è voluto dare per morto Moro dal primo momento".

Si rende conto che è un'accusa gravissima?

"Per interesse, per ciniscmo, qualcuno per calcolo. O perché si pensò che non ci fosse più nulla da fare. E anche per paura, per viltà. Credo che, finalmente, sarebbe giusto distiguere fra quelli che credettero veramente nella linea della fermezza con disperazione e tormento e fecero appunto una scelta disperata. E quelli che invece cominciarono da subito a calcolare quanto avrebbero potuto guadagnare alle prossime elezioni sul cadavere di Moro. In fondo poteva essere un buon affare, togliere di mezzo un personaggio tanto fantasioso.... Insomma la verità è ancora lontana. Se non fosse così, il caso Moro sarebbe chiuso. Invece Moro è un fantasma che continua a inseguirci. E non ci lascia in pace".

Lei ha fatto queste distinzioni? I capi dell'interpartito della fermezza erano Berlinguer, Zaccagnini, uomini interessati alla politica di Moro. Dunque?

"Chi contava a quei tempi erano Zaccagnini, Donat Cattin, Piccoli, Andreotti. Quanto al Pci, penso che dal primo minuto, i comunisti abbiano dato per persa la partita. E abbiano valutato che, se si fossero spostati di un solo centimetro, si sarebbe detto che c'era connessione tra loro e l'area dei combattenti. Vede, io mi sono detto tante volte che la storia del Novecento è piena di omicidi politici che hanno reso la vittima ancor più ingombrante che da viva. Basti pensare a Martin Luther King o a Kennedy, due casi in cui l'immagine rimase ancor più importante... Allora, ecco, forse c'era bisogno anche di distruggere l'immagine di Moro, evitare che potesse essere utilizzata come un simbolo positivo: per questo la sua demolizione attraverso le lettere".

Dal suo elenco di misteri e di verità lacunose, manca quella giudiziaria...

"Cinque processi, due commissioni parlamentari non sono serviti a dare risposta ad alcune domande fondamentali: perché le br non pubblicizzarono tutto il memoriale di Moro? E perché lo uccisero proprio mentre si apriva uno spiraglio all'interno della Dc? Infine, perché agirono proprio quel giorno che mio padre passò in via Fani? Come facevano a saperlo? Lui cambiava spesso itinerario... invece loro erano sicuri che quel giorno Moro sarebbe passato proprio di lì. E poi: la metà dei colpi esplosi in via Fani vengono da un'unica arma che non è mai stata trovata. E restano i misteri della Honda e del camioncino presenti sul luogo dell'agguato. Fin qui ciò che manca dal versante dei terroristi. E per quel che riguarda le forze di polizia: perchè tante omissioni, tante superficialità?".

Lei ha detto che non vuole incontrare i terroristi, ma i leader Dc di allora li incontrerebbe?

"In questi giorni ho rifiutato di partecipare ad una trasmissione televisiva su mio padre, insieme con Cossiga, Andreotti e altri. Io non accetto un piano di parità con i responsabili politici del caso Moro. O con i responsabili delle forze di polizia. Piuttosto sarebbe necessario sottolineare la disparità. Si deve ricordare che qualcuno morto e qualcun altro no. Che qualcuno ci ha rimesso, mentre qualcun altro ha costruito carriere. Per amore della memoria".

E il partito della trattativa? Suo padre ringraziò Craxi...

"Craxi si era dato da fare, e dunque... Anche se bisogna dire che per Craxi quello era un passo positivo, comunque fosse andata a finire. Si metteva in questione l'egemonia Pci-Dc. Era in ogni caso, una questione che valeva la pena affrontare".

Cerchi di spersonalizzare. Lei non ritiene che, se all'epoca si fosse trattato con le br, le istituzioni ne sarebbero state danneggiate?

"Faccio un ragionamento generale e brutale. Quando c'è un rapimento, lo Stato - che ha il dovere di tutelare la sicurezza e la vita dei cittadini - ha due possibilità: o libera il prigioniero o tratta. Se non fa né l'una né l'altra cosa, è corresponsbaile di quel che accade dopo. E' una valuatazione eccessiva? Può darsi. Resta il fatto che dal sequestro Sossi a Soffiantini, passando per Dozier e Cirillo, lo Stato o ha liberato il prigioniero o ha trattato. L'unico caso in cui non ha né trovato il prigioniero, né ha trattato, è stato Moro. Non farei nessun'altra considerazione. E poi, durante i 55 giorni, nel nostro Paese dove si litiga continuamente, si ebbe la sensazione che ci fosse una straordinaria, inedita, inspiegabile unità tra le forze politiche. Le voci di dissenso erano pochissime e ci si sentiva veramente impotenti".

In una delle sue lettere, Moro si era rivolto a Zaccagnini, lo aveva indicato come il responsabile morale...

"Quando Zaccagnini venne eletto segretario della Dc, costrinsero mio padre ad assumere la carica di presidente del partito. Mia madre si oppose, aveva con Moro un enorme contrasto sul fatto che lui continuasse a fare politica. Del resto l'ostilità nei confronti di papà era evidente... come le minacce".

Dalle lettere, specie dalle ultime, sparisce il Moro paludato. Va giù duro con Cossiga Piccoli, Zaccagnini...

"Mio padre non era un muro di gomma. Era un uomo forte, deciso, quando doveva esserlo. Ma le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia".

Che vuol dire? Che lui sa di scrivere profezie, di scrivere per il domani? In una parola sa che l'uccideranno?

"Lui lotta fino alla fine. Certo, man mano, in successione, diminuisce la capacità di resistenza. Arrivano botte. Basti pensare alla lettera del Papa. A quel 'liberatelo senza condizioni'. Il Papa fece la sua parte. Ma quello che produsse... diciamo che sarebbe stato meglio che non l'avesse prodotto. Anche se quell'espressione 'senza condizioni', dicono che gliel'abbiano imposta".

Andreotti?

"Era il capo del governo, il responsabile politico della gestione di questa vicenda. Credo che ci si possa limitare a questo".

Siamo alla fine, il comunicato numero 9 del 5 maggio, annuncia: "Concludiamo la battaglia, eseguendo..."

"No, non pensai che lo stessero uccidendo. Interpretammo quel gerundio come l'inizio dell'ultima fase. Capimmo che c'era un messaggio, uno spiraglio per agire. La mattina del 9 maggio ci sarebbe stata la direzione della Dc e il dissenso di Fanfani e dei suoi sarebbe stato rappresentato, manifestato. In quel momento non abbiamo cognizione diretta che le cose stiano proprio così, ma lo intuiamo. La telefonata delle Br, in cui si chiedeva l'intervento di Zaccagnini, l'avevamo letta in questo senso. Avevamo sentito i compagni di corrente, i colleghi della dc, avevamo fatto pressioni. Senza grandi risultati. Ma neanche i suoi pochi compagni di corrente furono in grado di fare di più. Certo, alcuni si attivarono per chiedere tramite Misasi la convocazione del Consiglio nazionale. Ma insomma non è che si siano dati fuoco nelle piazze... E tuttavia qualcosa nella Dc si stava muovendo".

Il 9 maggio, invece lo uccisero.

"Io rimasi... non me l'aspettavo. Per due mesi, certo sapevo che sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento. Invece accadde proprio quando le Br stavano ottenendo qualcosa..."

Dove si trovava quel giorno?

"A casa. Non ci chiamò nessuno di quelli che avrebbero dovuto farlo, né dal ministero dell'Interno, né da qualsiasi altra parte. Ci telefonarono amici, forse Gianfranco Quaranta, il capo del nostro Movimento. Ma è pazzesco che nessuno si volle prendere la responsabilità ufficiale di comunicarcelo. Appena saputo, andammo all'obitorio, mia madre, le mie sorelle ed io, per l'autopsia. No, non voglio parlare di quello che provai".

Moro era l'espressione della grande tragedia italiana, lei quel giorno vide anche questo o solo suo padre?


"Non è facile rispondere. Tutto insieme. Mi colpì qualche tempo fa un signore anziano che mi disse: 'Quel 9 maggio per me fu come l'8 settembre'. Mi ha fatto pensare: interpretava bene l'idea del tutto che crolla, lo sbandamento".

Alla fine, la famiglia ha chiesto il silenzio, non è andata ai funerali di Stato.

"Si, e non solo perché erano le ultime volontà di mio padre. Eravamo in perfetta consonanza con lui".

Vent'anni dopo ha ancora la speranza che si possa arrivare alla verità?

"Mi conforta che, pur tra tentativi di trovare scorciatoie o versioni di comodo, ritorni sempre fuori la voglia di raggiungere la verità. E' nell'interesse del Paese liberarsi di questo fantasma. Vede, io ho due figli, di dieci e otto anni. Mi hanno chiesto tante volte del nonno. Ho tentato di rispondere e ho spiegato che non è un problema nostro privato, è un problema della democrazia, un problema insoluto che riguarda il nostro paese".

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Parla il leader dell'Autonomia che in quei 55 giorni fu l'unico punto di contatto tra i terroristi e gli uomini dei partiti per tentare di salvare lo statista

«Craxi mi chiese di intervenire, con poca convinzione»

«Il leader psi voleva una prova autografa del rapito. Capii che era finita»
Lanfranco Pace: «Sembrava appagato del risultato politico. Ma anche Morucci e Faranda non lasciarono spazi alla trattativa».
«Incontravo i due br in un ristorante. Non c'erano mai controlli della polizia»
 
Gian Antonio Stella,

ROMA - E Bettino Craxi? «Lo andai a trovare al Raphael, fu sbrigativo. Mi parlò degli ultimi tentativi, dell'ipotesi di graziare un paio di brigatisti malati, del Quirinale che non si sarebbe opposto... In realtà mi sembrò già appagato». Cosa vuol dire, che a quel punto non gli importava tanto che Moro tornasse vivo o morto? «Questo forse no, umanamente forse gli importava.

Ma politicamente quel che voleva, uscire dalla morsa tra la Dc e il Pci, l'aveva avuto. Era riuscito a mettersi alla guida di un movimento trasversale molto più largo di quel 7% che aveva il Psi. Insomma, aveva incassato i dividendi. Politicamente per lui l'operazione era già chiusa».

Venti anni dopo quel tragico 9 maggio, Lanfranco Pace è uscito infine da un tormentone giudiziario durato fino all'anno scorso, fa il giornalista al «Foglio» di Giuliano Ferrara, dice di sentirsi ancora di sinistra anche se sulla giustizia («Cosa sia il garantismo l'ho vissuto sulla mia pelle, questa vicenda mi è costata un anno di galera, più 10 di esilio, più uno di arresti domiciliari, più un via vai di processi: un po' troppo») si ritrova spesso al fianco di esponenti della destra, riesce a rileggere il passato, nonostante le troppe spine, con un pizzico di ironia. La risposta alla domanda centrale (Moro poteva o no essere salvato?), però, non l'ha ancora trovata. Eppure a distanza di due decenni pare confermato che fu lui, durante quei 55 giorni, l'unico contatto diretto tra il mondo della politica e le Br.

Come mai i socialisti vennero da lei?

«Non vennero direttamente da me. Arrivarono a me sondando nell'area grigia del "movimento" in cui tanti giornalisti di sinistra venivano di solito a cercare informazioni. Diciamo che avevo una conoscenza del "movimento", anche quello del '77 che era stato l'alveo di tutte le formazioni armate, superiore a quella che aveva lo stesso Piperno, che spesso era in Calabria. Sapevo più o meno "chi era chi"».

Cioè sapeva chi era rimasto di qua e chi aveva fatto il salto nella lotta armata?

«Chi era pas- sato nelle diverse formazioni dell'epoca. Perché non c'erano solo le Br. Erano cose che facevano parte del "si dice" del movimento e che si venivano a sapere».

Quando avvenne il primo contatto?

«Coi socialisti? Verso metà aprile. Spiegai loro che trovare un collegamento con le Br era una cosa molto complicata. Che i brigatisti avevano una "morale rivoluzionaria" per la quale non si sarebbero mai prestati a giochetti sotto il tavolo. Che bisognava tener conto di quanto dicevano pubblicamente. Ero perplesso a imbarcarmi in questa storia, ma siccome la mia prima reazione alla notizia del 16 marzo era stata di panico...».

Non brindò, come tanti all'estrema sinistra?

«No. Mi si bloccò lo stomaco. Capivo che era una cosa che in qualche modo ci avrebbe travolti tutti. Che avrebbe spazzato via tutti quelli che stavano nello spazio di nessuno, stretti tra il partito armato e lo Stato».

Lei stava in mezzo?

«Come tanti. A partire da Sciascia. Fu una fase molto particolare».

Però lei era stato sul filo di entrare nelle Br, no?

«C'erano state delle riunioni al collettivo dell'Università, alla fine del '77, in cui si era discusso delle varie forme d'illegalità armata. Ma gli spazi per una riflessione non c'erano. I compagni entrati nelle Br si erano in qualche modo "brigatistizzati". Non mi pareva che valesse la pena...».

Una volta deciso di provare a cercare un contatto cosa fece?

«Sondai un po' di persone che più o meno sapevo essere fiancheggiatrici delle Br come Bruno Seghetti (che all'epoca non era neppure latitante), presi degli appuntamenti, feci girar la voce: se vedete Valerio e Adriana ditegli che ho bisogno urgente di parlare con loro».

Quindi puntò subito su Morucci e la Faranda?

«Sì, sapevo che erano entrati nelle Br. Erano stati tutti e due di Potere operaio, li conoscevo da anni. Di Adriana ero stato anche testimone alle nozze, ero amico del primo marito, sapevo che aveva lasciato la figlia e la casa con grande angoscia delle famiglie...».

E Bruno Seghetti?

«Dopo due giorni mi fece avere un appuntamento. E incontrai Morucci e la Faranda in un ristorante di via dei Cerchi».

A cena?

«Mai a cena. I brigatisti la sera non uscivano. Coprifuoco alle 8. Tutti in casa».

C'è chi dice che lei non ci entrò anche per questo.

«Anche. Facevano una vita lontanissima in tutto da me. Mi piacevano John Ford, il cinema americano, giocare a poker, tirar tardi la notte... Quando ne parlavo dicevo che per me la lotta armata era una stronzata, ma se proprio uno la voleva fare tanto valeva andare coi più seri. Le Br. Io però non avrei potuto entrarci mai».

Quanti contatti ci furono, tra lei, Morucci e la Faranda?

«Diversi. All'epoca, vorrei far notare, Morucci aveva solo un problema di renitenza alla leva... Molti br se n'erano andati di casa senza lasciar detto dove andavano, ma non erano affatto ricercati. Il massimo dell'"intelligence" che lo Stato riuscì a mettere in campo fu di incrociare i nomi di quelli che erano spariti dalla circolazione con quelli di presunti brigatisti».

E quei due cosa le dicevano?

«Sembrava, all'inizio, che avessero già vinto la partita. Come se il solo fatto di aver rapito Moro li avesse appagati. All'inizio. Ma poco alla volta parevano sempre più coscienti che fosse necessario trovare una soluzione politica».

L'ultimo incontro quando avvenne?

«Poco dopo la mia visita a Craxi al Raphael. Quando lui mi spiegò, come dicevo, dell'ipotesi di una grazia per la Besuschio. Risposi che, avendo parlato con le Br, mi pareva pochino. Lui disse che voleva un biglietto autografo di Moro, per avere la certezza che fosse vivo, con su scritto le parole "misura per misura". Lì capii che era finita. Che gli spazi tra le due parti, nonostante la buona volontà di qualcuno, si stavano chiudendo».

Eppure lui ed altri pensano che se fosse stata liberata comunque la Besuschio, Moro sarebbe tornato vivo.

«Non credo. Ma certo le Br sarebbero state messe in grande difficoltà. Anche loro un po' si sentivano come chi, comunque vada, ha già incassato quel che voleva. Ma un'apertura li avrebbe costretti a riaprire i giochi».

Se lei andò dritto da Seghetti e in due giorni ebbe un appuntamento con chi aveva nelle sue mani Moro, non doveva poi essere così impossibile: perché non la seguirono?

«Non credo che sarebbe cambiato qualcosa. Morucci e la Faranda mi davano gli appuntamenti volta per volta, facendomi girare a vuoto con itinerari incasinatissimi attraverso budelli di strade finché non erano sicuri che non fossi seguito. Senza contatti telefonici né di altro tipo».

Ma ci provarono almeno, a seguirla?

«No. Mai. Che io avessi un contatto con loro, però, non è che lo sapessero tanti. E poi lo Stato non era preparato. La città, contrariamente a quanto si dice, era del tutto sgombra. Non ne ricordo uno che sia stato fermato a un posto di blocco».

Craxi dice che non la prese sul serio perché, vestito in giacca e cravatta e con un anellone da due etti al dito, lei gli sembrò uno sbirro.

«Non vorrei polemizzare, ma di anelloni non ne ho mai portati in vita mia. Giacca e cravatta sì, è vero. Non sopportavo la "divisa" del sessantottino: l'eskimo, i maglioni lunghi, i jeans... Tra l'altro la giacca e la cravatta mi aiutavano, in qualche scontro di piazza, a passare in mezzo ai poliziotti. Bastava un "buongiorno commissario"».

E allora come fu che Craxi...

«Non lo so. Sono così tante le cose strane... So solo che se avesse avuto il sospetto che io fossi stato uno sbirro avrebbe dovuto incuriosirsi di più. O no?».

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"Dietro il sequestro P2 e apparati che non volevano il cambiamento"

Pellegrino, presidente della commissione Stragi, loda il discorso di Scalfaro

di GIOVANNI MARIA BELLU

ROMA - "Soddisfatto? Certamente. È la prova che non sono pazzo". Giovanni Pellegrino, presidente della commissione Stragi, non s'aspettava l'ingresso del capo dello Stato in carica in quello che l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga chiama "Partito dei dietrologi".

Ultimamente l'organizzazione avversaria, il movimento "Scurdammoce 'o passato" aveva lanciato una offensiva decisa, utilizzando l'artiglieria pesante del sarcasmo e dell'allusione minacciosa. Anche per questo l'uscita di Scalfaro fa piacere a Pellegrino ("Un sostegno, un conforto") che però non è d'accordo su tutto.

Su cosa in particolare?

"Un'unica riserva: non penso che l'individuazione dei mandanti debba essere rinviata al giudizio divino: nelle linee essenziali, sappiamo la verità".

Conosciamo i nomi dei mandanti?

"Intendiamoci sul significato del termine. Se parliamo di persone che hanno ordinato alle Br "Andate, sequestrate, uccidete" non li conosciamo. È anzi assai dubbio che sia avvenuto un fatto del genere. Se invece col termine "mandante" ci riferiamo anche a chi avrebbe potuto impedire il sequestro, o risolverlo positivamente, allora li conosciamo. In un certo senso anche Moro li conosceva".

Ci spieghi.

"Basta leggere quel che scrive durante la prigionia: Moro individua la provenienza dei mandanti quando, a proposito della strategia della tensione, afferma che ci furono responsabilità istituzionali, interne ed estere, e indulgenze e connivenze all'interno del suo stesso partito; quando dice che tutte le volte che in Italia si è tentato di cambiare rotta si è innescato un meccanismo eversivo...".

Secondo lei era consapevole dell'esistenza della volontà di non farlo tornare libero?

"Non c'è dubbio. Quando annuncia che se verrà liberato abbandonerà comunque la politica, si mostra consapevole del fatto che c'è chi teme il suo ritorno. E vuole rassicurarlo". Ma questo riguarda meccanismi interni al sequestro.

Chi sono i mandanti che "lasciarono fare"?

"Certamente gli apparati che confluiscono nella loggia P2. Non l'intera P2 come organizzazione, ma suoi esponenti. Certamente Gelli, certamente gli uomini del golpe Borghese".

E fuori dall'Italia?

"Non penso che ci sia stato un coinvolgimento diretto dei vertici dell'amministrazione americana. Penso piuttosto a determinate aree dell'oltranzismo atlantico presenti nei servizi segreti occidentali. Del resto, la stessa P2 era un club d'oltranzismo atlantico. Gelli è stato un uomo dei Servizi occidentali, ma probabilmente con qualche legame all'Est".

Lei, insomma, ritiene che fu una convergenza di interessi a condannare Moro.

"Sì. L'interesse alla stabilità, al congelamento del sistema nato con Yalta. Moro in Italia lo metteva in discussione. Per questo io ho il dubbio che in questo "lasciar fare" ci siano stati anche interessi dell'Est. Ma non vorrei delineare scenari alla Le Carrè. Ci sono state anche cause riconducibili a comportamenti di chi lo voleva libero".

Per esempio?

"Penso ai socialisti, al partito della trattativa. Uomini come Craxi, Landolfi e Signorile quando avevano contatti con Pace e Piperno non potevano non capire di essere quasi sulla porta delle Brigate rosse. Se non dissero niente forse fu anche perché una conclusione del sequestro con un intervento militare avrebbe smentito la loro linea".

È una affermazione grave.

"Va collocata in quel momento storico e integrata col diffuso timore che un intervento armato potesse concludersi con la morte dell'ostaggio. D'altra parte sono convinto che gli stessi familiari, per una spiegabile mancanza di fiducia, non diedero tutte le notizie di cui erano in possesso".

Dunque ci furono quelli che lasciarono fare, quelli che non parlarono, quelli che sbagliarono. Dove colloca il ministro dell' Inte rno dell'epoca, Francesco Cossiga?

"Cossiga continua a reagire con disappunto ai dubbi sul sequestro Moro. Anche Gualtieri, che quasi nega la strategia della tensione, sbaglia. Ci sono comportamenti che non capisco. Ma, quanto a Cossiga, io sono convinto che volesse salvare il suo amico Moro e che, soggettivamente, abbia fatto tutto il possibile".

Come spiega le reazioni dure che ha davanti a questo argomento?

"Forse si è reso conto di essersi circondato delle persone sbagliate. A questo errore ha pagato un prezzo umano altissimo".

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"La rivincita dei dietrologi". Flamigni: adesso anche il capo dello Stato dice le cose che anticipammo noi

nostro servizio

ROMA (g.m.b.) - Scherza l'ex senatore Sergio Flamigni: "E' la rivincita dei dietrologi: adesso anche il capo dello Stato è con noi". E' molto soddisfatto l'autore di "Convergenze parallele", il libro che ha riaperto il dibattito sul caso Moro e sui misteri del covo di via Gradoli. Ma non solo per il risarcimento morale che arriva con questa "rivincita". Anche per il merito dell' intervento di Scalfaro.

E' esatto dire che la questione dei mandanti è il nodo centrale del sequestro Moro?

"Sì, certamente. Direi che è la questione che i 'dietrologi' hanno sempre posto..."

Non le dà fastidio essere chiamato 'dietrologo'?

"Se il senso che si attribuisce al termine è quello esatto, no.

Perché guardare 'dietro' le cose, non accontentarsi della verità ufficiale, è un dovere".

Ma non ritiene che in qualche caso ci sia stato un eccesso di ' dietrologia', di sospettosità?

"Ci sarà anche stato. Ma parlo per me e posso dire che tengo i piedi in terra, mi documento, studio. Se ho un dubbio lo esprimo, se commetto un errore lo riconosco. Devo dire che, invece, gli 'antidietrologi' tendono a evitare l'autocritica. Fui accusato di dietrologia per la mia insistenza nel chiedere una nuova perquisizione nel covo di via Monte Nevoso a Milano. C'erano molti elementi per pensare che le carte di Moro fossero ancora là. Ma quando per altre vie quelle carte furono ritrovate, il giudice che aveva respinto la mia richiesta non riconobbe di aver sbagliato a non ascoltarmi".

Lei da parlamentare si è occupato del caso Moro, della P2, è stato anche nell'Antimafia. Secondo lei la categoria giornalistica dei 'misteri d'Italia' esiste realmente?

"Sono questioni diverse tra loro. Ma devo dire che un punto comune esiste, e ci riporta ai dubbi di Scalfaro sui mandanti".

Qual è questo punto comune?

"A un certo punto si finiva con l'imbattersi col modus operandi dei servizi segreti infiltrati dalla massoneria".

Sono stati loro i mandanti del sequestro Moro?

"Se, come ha fatto il presidente della commissione stragi Pellegrino, indichiamo con questo termine anche chi poteva impedire un fatto e non l'ha impedito, allora sì: anche loro".

E chi altro?

"Il potere politico che ha preferito i piduisti ai funzionari onesti. Penso al caso di Emilio Santillo, un uomo di primordine che aveva creato una rete informativa efficiente, capace di dare filo da torcere al nascente terrorismo, e fu allontanato dal suo posto. Poi i servizi segreti stranieri, e in particolare la Cia. C'è una infinità di documenti che dimostrano queste interferenze. Lo stesso Giovanni Galloni pochi giorni fa ha detto che Moro era preoccupato per l'atteggiamento degli americani".

 

 

 

 

 

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