Un caso di coscienza
Pubblicare o no i documenti dei terroristi?
Colloquio con Eugenio Montale

Editoriale, Corriere della Sera 21 marzo

Domenica scorsa, a denti stretti, dopo molti dubbi, la direzione del Corriere ha deciso di pubblicare come hanno fatto tutti i mass media, la fotografia di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse. E' un'immagine crudele pur nella stoica dignità dell'uomo, un'immagine che i terroristi avevano mandato ai giornali con la certezza che sarebbe stata riprodotta. Abbiamo anche riportato il lungo messaggio di guerra che accompagnava la foto. Eravamo, e siamo, divisi tra due obblighi di coscienza: da una parte quello di negarci ad ogni manipolazione della verità, di non nascondere ai lettori alcuna notizia, di non imboccare mai la strada inclinata e maledetta della censura; dall'altra, quello di non collaborare in nessun modo, sia pure inconsapevolmente, a un disegno ribelle che vuole devastare l'equilibrio dell'opinione pubblica. Quali sono le armi dei terroristi? Le Nagant, le Tokarev, le Beretta, e poi la propaganda, e quel terribile amplificatore della propaganda che talvolta forse rischiamo di essere tutti noi, giornali, televisione, radio. Possiamo disarmare anche della propaganda i terroristi, senza rinunciare al nostro ruolo di giornali - e di giornalisti - liberi? E' una difficile domanda. Resta chiaro che le Brigate rosse vogliono trascinare il Paese fuori dal terremmo naturale della democrazia: e una stampa che limitasse, condizionasse, ritagliasse l'informazione intorno a un fatto, atroce ma enorme, come questo, sarebbe una stampa già fuori dalla normalità democratica, quasi imbavagliata. E un bavaglio, anche quando ce lo mettiamo da soli, sarebbe sempre un bavaglio. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare le conseguenze dei nostri gesti, delle nostre scelte: i brigatisti stanno conducendo il loro assurdo "processo" ad Aldo Moro nel chiuso di quattro mura, che non sono una "prigione del popolo" ma un oscuro covo criminale. Rilanciando a milioni di persone le immagini e le parole di quel "processo", noi lo dilatiamo, ne rendiamo testimone davvero tutto un popolo, ingigantendo anche l'umiliazione che lo Stato subisce. Scriveva ieri l'altro l' 'Unità' che la foto è "l'immagine di un uomo che i rapitori si ripromettono di martirizzare, in una di quelle tragiche farse cui danno il nome di processi; e ciò per far durare più a lungo la sfida alla Democrazia italiana e all'onore di questa repubblica. Ma per far questo hanno bisogno che giornali e Tv si trasformino in cassa di risonanza dei loro farneticanti messaggi. Questo è, purtroppo accaduto". Perché ciò non si ripeta, aggiungiamo, è necessario guardare dentro le nostre coscienze e trovare la risposta che sabato nessuno di noi ha saputo darsi. Che fare? Senza la presunzione di conoscere una formula certa, il Corriere ha trasferito la domanda al suo giornalista più nobile ed illustre, a una voce senza sospetti: Eugenio Montale, redattore per tanti anni del Corriere, senatore a vita, Premio Nobel, uomo che seppe dire di no, con coraggio e povertà, agli anni della censura, agli anni di altri odiosi brigatisti. Tu, Montale, avresti pubblicato la foto e il messaggio delle Brigate rosse? "Forse sì. Pensate di aver fatto male?" Ce lo stiamo chiedendo. "Certo, giornali e Tv hanno portato davanti a milioni di occhi due messaggi - una foto, un comunicato ideologico - che, senza questo concorso, le Brigate rosse avrebbero potuto far circolare, ciclostilati, al più duecento copie". Ormai è andata così. D'altronde non era la prima volta. "Per il futuro, i giornalisti dovrebbero darsi un codice. Non dimenticate che quel testo, soprattutto il testo, può aver trovato degli ammiratori: dei giovani ammiratori, anche fuori dal mondo intorno alle Brigate rosse. Pensandoci, sarebbe stato meglio non pubblicarlo. E' scritto da un ideologo, in buon italiano, sarà certamente un laureato... Il terrorismo è una cosa ancora non ben studiata nei suoi veri motivi psicologici: esisteva già al tempo degli zar l'ideologia di far fuori, uccidendo, come se fosse una cosa santa, sacrosanta...". Parlavi, Montale, di un codice. Ma quale? Non certo una censura. "Non si può creare una regola di comportamento basata su ipotesi. Si dovrebbe piuttosto trattare di un codice che tutti i giornalisti dovrebbero cercare dentro di loro stessi. Ma sì, non li pubblicherei questi messaggi delle Brigate rosse. Bisogna averne la forza. Che poi sia facile proprio non lo so. Per fortuna non dirigo alcun giornale". Non pensi che così facendo si potrebbe finire per trascinare i giornali in un regime di libertà vigilata? "Non credo. Basterebbe dire per quali motivi non si pubblica il messaggio, non ritenendo opportuno di alimentare le fantasie di qualche altro potenziale delinquente. Insomma, una formula adeguata. Dire che mediante la pubblicità alle Brigate rosse potrebbero venire le adesioni degli imbecilli... E d'imbecilli ce ne sono tanti". E per la foto? "M'ha fatto tanta pena. E' l'immagine dello Stato umiliato". Allora, la foto l'avresti pubblicata? "Quella sì". Potrebbe aver provocato anche delle reazioni positive? "Qualcuna: ne viene un senso di pietà e di rabbia. Una soluzione per il futuro, il minimo che si possa fare, potrebbe essere non dare per intero gli argomenti di carattere ideologico dei brigatisti. La stampa è indubbiamente un potere, anche micidiale, questo è certo. Ma riusciremo a risolvere mai questo grande caso di coscienza?".

Quali sono i padri del terrorismo?
Colloquio con Emanuele Macaluso,
Rossana Rossanda e Rosario Romeo

Ugo Stlle, Corriere della Sera 23 marzo

Roma - Onorevole Amendola, se il terrorismo dilaga di chi è la colpa, chi si deve battere il petto?

"Naturalmente tutti, governo e opposizione. Nella nascita del fascismo le responsabilità furono del gruppo dirigente liberal democratico, ma non mancarono anche quelle nostre".

Questa frase autocritica appare in un intervista di Giorgio Amendola a Rinascita che il settimanale ideologico del Pci pubblicherà nei prossimi giorni. Anche se è solo un momento di un'analisi complessa e articolata e che non risparmia colpi alla Dc e alla sua gestione del potere, il riconoscimento di Amendola arricchisce un dibattito che dal giorno del rapimento di Moro agita e angoscia soprattutto la sinistra. E' una specie di esame di coscienza che parte da lontano, addirittura dal '52, quando in una lotta senza esclusione di colpi e in piena guerra fredda Togliatti bollava la Dc con formule che oggi troviamo ricalcate nei messaggi delle Brigate rosse. A sinistra ci si interroga sugli "eccessi" della contestazione, su quella operaia e studentesca, sul dopo '68, sull'estremismo. E' possibile che quella ventata impetuosa di cambiamento che dieci anni fa cominciò ad investire la società italiana, trascinasse con sé anche i semi velenosi del terrorismo? Maturata nei giorni successivi all'agguato di via Fani, la polemica sulle responsabilità della sinistra è affiorata pubblicamente sabato scorso quando Emanuele Macaluso su l'Unità ha risposto con asprezza a Galloni, attribuendo al vicesegretario della Dc il tentativo di far discendere da certe impostazioni "staliniane" del Pci le azioni del terrorismo e della violenza. Ancora più irritata la risposta a Rossana Rossanda. Leggendo il secondo messaggio delle Br la Rossanda, esponente del Manifesto, aveva scritto che le sembrava di sfogliare un album di famiglia, l'album di quando militava nel Pci ai tempi dello scontro più duro con la Dc. Sui rapporti tra sinistra, estremismo e terrorismo abbiamo interrogato i protagonisti di questa polemica, Macaluso e la Rossanda. Un quesito analogo lo abbiamo posto allo storico Rosario Romeo.

Emanuele Macaluso Onorevole Macaluso, sull'esistenza del terrorismo il Pci ha qualche autocritica da fare?

"Su questo punto non abbiamo autocritica da fare".

Ma c'è chi ricorda il linguaggio che il Pci usava negli anni '50, simile a quello usato oggi dalle Br. Allora per voi la Dc era il nemico da battere.

Noi non neghiamo i giudizi dati sulla Dc. Ma nell'analisi di questi giudizi si trascurano fatti essenziali. I comunisti allora erano discriminati e sottoposti a un'azione di persecuzione. Vivevamo gli anni della scomunica vaticana, della legge sull'operazione Sturzo per imporre al comune di Roma il listone con dentro insieme i democristiani e i fascisti. Erano gli anni della guerra fredda tra USA e URSS. Malgrado questa drammatica situazione, il disegno di Togliatti non fu mai quello della ricerca dello scontro con la Dc. Anche nei momenti di maggiore asprezza egli tentò di aprire una contraddizione nella Dc di questo partito".

Il Manifesto ricorda il vostro linguaggio degli anni '50 per sottolineare la "contraddizione" in cui il Pci si trova oggi, alleato di un partito, la Dc, che non sa più bene come definire, se avversario o amico

"In realtà, il vero bersaglio di queste critiche è l'accordo di governo.

Ma se oggi non ci fosse questo quadro di riferimento che è la maggioranza di governo quale sarebbe la situazione del paese?

La verità è che senza l'accordo tra la Dc e le sinistre chi vuole destabilizzare l'Italia avrebbe davvero via libera. Chi ci “attacca da sinistra” dovrebbe ricordare che l'ingresso del Pci nella maggioranza rappresenta lo stato più avanzato, non quello più arretrato, in cui si manifestano i rapporti politici".

Poi ci sono le accuse della Dc. Vi rimproverano di aver contribuito a fare di questo partito il bersaglio della violenza. Vi attribuiscono attacchi gratuiti, immotivati, sbagliati.

"Lo so, ci rimproverano soprattutto le nostre critiche alla gestione del potere. Certo, non ce li siamo inventati noi i Crociati, Lefebre, e non siamo stati noi a nominare i De Lorenzo e i Miceli alla guida dei servizi segreti. E dobbiamo ancora ricordare che sulla vicenda di piazza Fontana non è stata fatta ancora chiarezza. Avevamo il dovere democratico di avanzare queste denunce e di condurre questa lotta. Ma non siamo tra quelli che sono andati nelle piazze: “Abroghiamo la Dc”". Quindi nessun "incitamento" anche indiretto alla violenza. "Anche nei momenti più duri della nostra storia, anche nei momenti di maggior scontro sociale, ci siamo affidati sempre alla forza delle nostre idee, mai ai bastoni o alle armi".

Rossana Rossanda Si vuole addossare alla sinistra e in particolare al Pci la responsabilità della violenza e del terrorismo.

"E' un tentativo infondato e abbastanza volgare al quale il Pci potrebbe rispondere con ampie motivazioni e senza dare in escandescenze. Sotto il profilo storico questa accusa è inesistente: il terrorismo deriva da una matrice ideologica che non ha niente a che fare con il marxismo. Marx è il primo che ha scritto contro il terrorismo. Sotto l'aspetto politico è chiaro che la Dc colpita in uno dei suoi uomini più rappresentativi tenta di far pagare il maggior prezzo possibile alla sinistra".

Allora la sinistra non deve fare alcuna autocritica?

"Dobbiamo prima di tutto chiederci da cosa nasce il terrorismo in Italia. Perché nel tessuto del paese si è creata una degenerazione così profonda. C'è da dire che a differenza di altri terrorismi, quello dell'America Latina, forme di lotta legate a una proposta politica, quello italiano si qualifica solo per il suo messaggio di distruzione. Ci appare come il frutto molto moderno di una crisi sia dell'integrazione capitalistica, sia della speranza di un mutamento. Se il terrorismo ha origine da queste frange di disperazione è chiaro che la sinistra, vecchia e nuova, ha responsabilità di aver lasciato crescere questo ascesso".

C'è chi dice che questa ondata di violenza è cresciuta sul terreno della contestazione e dell'estremismo di sinistra.

"Ci si dimentica che l'Italia ha vissuto momenti assai più gravi di violenza. Si dimenticano i fatti di Genova, l'occupazione delle fabbriche, i moti di Avola. Tuttavia se le Br sono davvero di sinistra è probabile che siano cresciute nell'alveo culturale di quella nuova sinistra che si rifà a matrici anarchiche piuttosto che al marxismo. Mi sembra tuttavia superficiale cercare l'origine di questo fenomeno in problemi di cultura invece che nella crisi reale di credibilità del sistema".

Come va combattuto il terrorismo?

"Va trattato come una malattia, come un attacco febbrile grave finche si vuole ma che non può da solo paralizzare un paese. E invece vedo che molti reagiscono irrazionalmente, raggelati come di fronte a un fantasma. Credo che sia questo il danno maggiore prodotto dalle Brigate rosse: sono riusciti a far regredire il paese sul terreno della coscienza politica".

Rosario Romeo Di fronte a certe accuse i comunisti affermano di aver sempre combattuto l'estremismo e la violenza. E' d'accordo?

"E' un discorso complicato. Certamente nell'azione del Pci non è possibile individuare storicamente spinte verso il sovvertimento delle istituzioni. Non va tuttavia dimenticato che dopo il '68, il Pci, scavalcato in un primo momento dalla contestazione, ha tentato di riacciuffare l'estremismo ed è proprio in quel periodo che assistiamo alle degenerazioni, e all'uso diffuso della violenza di piazza. La famosa “battaglia” di Valle Giulia tra studenti e forze dell'ordine mandò all'ospedale 160 poliziotti. Certo, oggi i comunisti sono più impegnati a combattere la violenza ma non si può dimenticare che per anni il paese è stato impregnato da un'atmosfera di odio".

Quali sono le colpe del Pci?

"Io dico che negli anni che vanno soprattutto dal '68 al '72 molti atti di violenza non sarebbero stati possibili senza la copertura politica dei comunisti. Mi riferisco soprattutto alla contestazione nelle scuole e nelle università. Ricordiamoci dell'autunno caldo, degli incidenti di via Larga a Milano. Ricordiamoci delle intimidazioni contro i docenti, delle violenze verbali e morali. E senza un'efficace reazione che questa mala pianta è cresciuta".

Ma è possibile individuare un collegamento tra questa violenza e il terrorismo che uccide e rapisce?

"Io credo che un collegamento ci sia. Chi lo esclude lo fa per un meccanismo di autodifesa. Ma è troppo comodo".


Pomarici: in casi estremi si può usare
il "siero della verità" per Curcio

Leo Valiani, Corriere della Sera 6 aprile

Adriano Sollazzo, Corriere della Sera 7 aprile Milano - Imposto dal rapimento di Moro, il tema della lotta ai terroristi e, in particolare, dei mezzi più idonei per far breccia nel muro di omertà che fa scudo agli organizzatori e agli esecutori del tragico agguato di via Fani è oggetto di accese discussioni al palazzo di giustizia. Ci si chiede, specificamente, se esistono mezzi efficaci per ricavare da Renato Curcio e dagli altri brigatisti attualmente sotto processo a Torino tutte quelle informazioni che possono rivelarsi utili per identificare i "cervelli" che manovrano le fila delle Br, scoprire la loro centrale operativa, arrivare magari a individuare il luogo dove l'esponente Dc è tenuto prigioniero, dato per scontato che Curcio e compagni sappiano la verità in proposito. Il tutto valendosi anche di mezzi che apparentemente potrebbero sembrare un ricorso all'eccezione, ma che in realtà rimangono inquadrati nel più rigoroso ambito legale. Tra questi espedienti potrebbe rientrare il ricorso al cosiddetto "siero della verità", utilizzato come estremo tentativo per far confessare ai terroristi quello che altrimenti non direbbero mai. Va detto subito che l'uso del "lie-detector" per ottenere le confessioni degli imputati o dei testi, consentito in altri paesi, non è ammesso dalla legge italiana. Ad esso, tuttavia, si potrebbe ricorrere in caso di estrema necessità, stati di necessità esplicitamente previsti dal nostro codice penale. Ecco, in proposito, cosa ne pensa il sostituto procuratore della Repubblica Ferdinando Pomarici, uno dei giudici italiani più esperti in fatto di sequestri di persona, noto, tra l'altro, per avere per primo adottato la cosiddetta "linea dura" tendente a bloccare i denari destinati ai ricatti. "Innanzi tutto - spiega Pomarici - c'è un problema di carattere giuridico. L'inoculazione del cosiddetto "siero della verità" non è prevista, né esplicitamente consentita da alcuna norma del codice processuale. Per altro, ove ricorressero determinati presupposti, si potrebbe teoricamente arrivare a tale soluzione applicando l'articolo 54 del Codice Penale. Se ad esempio - rileva il giudice - vi fossero elementi tali da poter ritenere con certezza che Curcio o altri siano a conoscenza di elementi la cui rivelazione potrebbe consentire di liberare il prigioniero, l'inoculazione di tale siero - che costituirebbe astrattamente reato - sarebbe appunto consentita perché per l'articolo 54 l'autore di tale fatto non sarebbe punibile per averlo compiuto a seguito della necessità di salvare l'onorevole Moro dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". "In pratica, cioè - spiega il PM - eventuali reati di violenza privata e altro verrebbero eliminati da tale norma processuale. E' chiaro, però, che si tratterebbe di un precedente molto pericoloso, anche perché bisognerebbe preventivamente accertarsi della reale efficacia e della effettiva innocuità del farmaco da usare, per cui, senza dubbio, occorrerebbe molto coraggio da parte del magistrato o dell'ufficiale di polizia giudiziaria che decidesse in tale senso perché sicuramente si scatenerebbero polemiche di grande portata". Al di là dell'eventuale uso del "siero della verità" (sul poter, concreto, da un punto di vista strettamente scientifico, della narcoanalisi i pareri degli esperti sono discordi, anche se i più ritengono che sia possibile, con questo farmaco, esplorare la psiche umana e ottenere che il paziente si confessi senza riserve o inibizioni), rimane la possibilità, sempre in base all'articolo 54 del codice, di interrogare con il metodo abituale Curcio e gli altri brigatisti e farli parlare sul rapimento di Moro.


Perché non credere alle sue lettere?
Claudio Martelli, Corriere della Sera 1 maggio 1978

Alcune osservazioni contenute nell'articolo di ieri di Gaetano Scardocchia sulla lettera di Moro ("costretto a trasmettere verso l'esterno solo quei messaggi che obiettivamente coincidono con l'interesse dei suoi carcerieri"; "è inutile cercare di stabilire se Moro vuole davvero le cose che scrive. L'importante è che lo vogliano le Brigate Rosse, altrimenti non recapiterebbero le sue lettere") fanno riflettere. Sin dall'inizio una sorta di disposizione all'incredulità ha accompagnato la disposizione all'intransigenza esibita da molte parti, giornalistiche e politiche. L'incredulità riguardo le lettere di Moro è andata crescendo sino a tramutarsi in ostilità, in rapporto al carattere vieppiù angosciato di ciò che scrive il presidente della Dc ed al crescere delle critiche nei confronti delle forze politiche maggiori, segnatamente rivolte al ristretto gruppo dirigente della Dc che ha seguito l'evolversi del caso. Non doversi prendere in seria considerazione le lettere di Moro è stata la consegna del Pci; consegna suffragata da autorevoli pareri di amici del prigioniero, dell'ambiente accademico e non, che hanno contestato lo "spirito moroteo" dei testi. Costoro sembrano più preoccupati della "memoria" di Moro che non della sua vita, e si disputano l'interpretazione di uno stile e di una vita che non è ancora perduta. Giornalisti e grafologi non si sa quanto improvvisati hanno dissertato non sulla autenticità della calligrafia che tutti riconoscono, ma sulla "pendenza" e sulle "cancellature" e "correzioni" per ricavare stampelle alla tesi della "inautenticità sostanziale". Come la metafisica anche la metagrafologia soccorre chi non ha argomenti. Insomma si dice, le lettere sono di Moro ma non bisogna prestar loro fede perché scritte da un uomo in cattività e sottoposto a condizionamenti di ogni genere. Belle scoperte! E chi non lo sapeva? Più di chiunque sembra aver temuto questo pericolo lo stesso Moro. Il quale ha scritto sin dalla prima lettera a Zaccagnini: "Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità e senza aver subìto nessuna coercizione nella persona; tanta lucidità almeno quanta può avere chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che non sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento un po' abbandonato da voi". Ma è soprattutto nell'ultima lettera alla famiglia che Moro esprime quasi indignazione per questa incredulità. "E' vero (Moro, si osservi, replica direttamente a chi dubita della autenticità delle sue lettere): io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subìto nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono si dice "un altro" e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non l'avrei mai creduto possibile). Il fatto che alcuni amichi, da monsignor Zama, all'avvocato Veronese, a G. B. Scaglia e ad altri, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato della autenticità di quello che andavo sostenendo come se io scrivessi sotto dettatura delle Brigate rosse, perché questo avallo alla mia pretesa non autenticità? Ma tra le Br e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute il fatto che io abbia sostenuto fin dall'inizio (e come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, una scambio di prigionieri politici". Perché non leggere le lettere di Moro come quelle di un prigioniero lucido anche se disperato anche perché oramai da 45 giorni si sente abbandonato? Capisco che è più comodo pensare come sinora si è fatto, più semplice ancora non pensare affatto, presto qualcuno dirà che è meglio non leggerle, e magari, non pubblicarle neppure. E' più comodo ma non è giusto. E poi, fosse anche Moro minorato e minorato nello spirito, questo giustificherebbe di più o di meno un'attitudine ad abbandonarlo al suo destino, cioè ai suoi carnefici? Non siamo di fronte ad un affare di spionaggio, di contraffazioni, di banali raggiri. Se alle lettere di un prigioniero che tutti riconoscono autentiche notiamo ogni capacità di documentarsi delle volontà del prigioniero stesso, è come se estendessimo all'infinito le mura del suo carcere. Se in coerenza al rifiuto di stabilire ogni contatto con i terroristi rifiutiamo il contatto con Aldo Moro, anche il contatto passivo che deriva dall'attenta e intelligente lettura delle sue lettere, è come se lo spingessimo più a fondo e più nel buio nella cella in cui è stretto. Ma ogni volta che scrive Moro dimostra almeno una cosa: che è vivo e che vuol vivere nonostante qualcuno l'abbia invitato al suicidio. Se un appello alla ragione vale ancora per qualcuno almeno, di fronte ad una vita umana in pericolo proviamo a ragionare secondo un'ottica diversa da quella di chi, ormai, semplicemente e direttamente, attribuisce le lettere di Moro alle Br. Né più né meno le vittime dei processi staliniani e poi negli anni seguenti i dissenzienti o venivano piegati o plagiati fino all'autoaccusa o le loro parole venivano presentate come deliri e con l'ipocrita imbarazzo che si assume di fronte ai pazzi. Ora, in Italia, Moro ci dice "si deprecano i "lager" ma come si tratta civilmente un prigioniero che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido?". A convincerci della validità di un ottica diversa nel valutare le lettere non sono solo i ragionamenti giuridici che qualcuno può respingere ma che non sono privi di peso né attribuibili alla logica delle Br: "La dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona ma allo Stato". Il costante riferimento al comportamento di "altri stati in circostanze analoghe di fronte al problema della salvaguardia della vita umana innocente". Il discutibile ma acuto rilievo dei vantaggi e degli svantaggi dello scambio: "E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova ( ed è un punto che mi permetto sottoporre umilmente al Santo Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, in compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui". Anche il carattere delle ammonizioni politiche che certamente insieme a tristi allusioni personali avrà fatto l'amor proprio di qualcuno, merita un'attenzione non superficiale come quella che gli si è prestata: "Capisco come un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire"; "se così non sarà ( cioè se la Dc non assumerà un'iniziativa positiva) l'avrete voluto e lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco".... "Se questo crimine fosse perpetrato si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sarete travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese. Si aprirebbe, insanabile, malgrado le prime apparenze, una frattura nel partito che non potreste dominare... Se la Dc fallisse ora sarebbe per la prima volta. Essa sarebbe travolta dal vortice e sarebbe la sua fine". E ancora: "Se voi non intervenite sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese. Pensateci bene, cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopodomani". "...Se la pietà prevale il paese non è finito". "Non creda la Dc di aver chiuso il suo problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa per impedire che della Dc si faccia quello che se ne fa oggi". Moro non dice che questo accadrà in ogni caso, teme che accadrà nel caso in cui la Dc lo abbandoni. Se fosse vero che ogni messaggio per il solo fatto di essere recapitato dalle Br coincide con il loro interesse dovremmo pensare che le Br temano lo sfascio della Dc e del paese che secondo Moro deriverebbe dal suo eccidio? Ma le Br non compiono massacri proprio allo scopo di sfasciare il paese? Ecco a quali paradossi, a quale groviglio indistricabile di calcoli e di presunzioni sul futuro politico ci conduce il rifiuto e quasi il disprezzo per ciò che Moro scrive. Un disprezzo che finirebbe con l'assomigliare a quello che della vita e delle opinioni di Moro hanno le Br che sin dal primo messaggio misero bene in chiaro doversi attribuire al prigioniero e non a se stesse gli appelli disperati e i sofferti ragionamenti del presidente della Dc.

Non era questo il processo voluto da Pasolini
Giorgio Galli, la Repubblica 28 marzo

E' già stato rilevato che il secondo messaggio delle Brigate rosse, riecheggia alcuni temi che sono stati propri dell'estrema sinistra italiana, dallo stalinismo degli anni '50 alle formulazioni del '68. Si può aggiungere che l'iniziativa specifica del cosiddetto "processo" al massimo leader della Dc riprende un argomento che era stato dell'ultimo Pasolini. Questi non era congeniale al Pci stalinista (che lo aveva espulso) e aveva criticato il movimento del '68, da lui ritenuto piccolo borghese, solidarizzando, in una famosa poesia, coi poliziotti figli di contadini che fronteggiavano le manifestazioni studentesche. Eppure nel '75 Pasolini immaginava la catarsi e il rinnovamento della vita politica italiana attraverso un processo da intentarsi alla Dc quale responsabile della degradazione della società. Dopo il 15 giugno '75 Pasolini immaginava come pubblico accusatore ideale di questo processo il Pci, da egli ritenuto unico elemento di onestà in mezzo alla corruzione, unico fattore aggregante in una collettività in disgregazione. E' noto che il Pci respingeva drasticamente questa impostazione, perché impegnato nella sua linea politica di possibile collaborazione con una Dc rinnovata. Collaborazione della quale l'accesso comunista all'area di governo avrebbe dovuto costituire il primo atto significativo. Se collochiamo al giusto posto questi elementi del quadro, riusciamo a capire da quali precedenti e in quale momento acquista significato la tragica svolta della vita politica italiana che porta la data 16 marzo. Da un lato la lunga assenza di ricambio al governo ha impedito lo svilupparsi nella nostra società di elementi di cultura liberal-democratica in grado di rendere diffusa la convinzione che l'Italia potesse trasformarsi senza traumi e senza catarsi. Dall'altro lato l'ingresso del Pci nell'area di governo avviene con un ritardo ed in condizioni tali che la sfida delle Brigate rosse deriva la sua maggiore pericolosità da una situazione estremamente deteriorata. Se nella sinistra italiana è rimasta, minoritaria ma tenace, la convinzione che la Dc non fosse un partito da sostituire al governo ma un regime da abbattere con la violenza e da processare, è perché la sua identificazione con tutto il potere per un terzo di secolo in un paese di lunga tradizione cattolica ne ha fatto un caso unico in Occidente. Quando dopo il 20 giugno si è constatato che neppure una sinistra con il 47 per cento dei voti riusciva a indurre una Dc con il 39 per cento a concordare un ragionevole governo di coalizione, la convinzione della inamovibilità della Dc dal potere si è ulteriormente consolidata. Non è una giustificazione, ma un'amara constatazione il fatto che la lotta armata si sia intensificata dopo il 20 giugno '76. Pur tuttavia si era giunti a metà marzo all'accettazione del Pci nella maggioranza parlamentare. Ma di un governo la cui inadeguata composizione è stata rilevata anche da Luigi Granelli nell'intervista qui pubblicata pochi giorni fa dopo il rapimento di Moro. E' comunque al momento di ingresso del Pci nella maggioranza che le brigate rosse hanno lanciato alla sinistra una sfida che il loro ultimo messaggio contiene nei suoi termini essenziali. A mio giudizio la sfida è questa: il Pci entra nell'area di governo con tanto ritardo e in una situazione tanto deteriorata, che non riuscirà ad impedire l'ulteriore degradazione delle istituzioni. E attraverso questa disgregazione, si amplierà lo spazio per una lotta armata che riprenda alcuni temi e alcuni motivi della trentennale lotta della sinistra e soprattutto del Pci. Se questo è il terreno della sfida, a me pare che la risposta valida sia la dimostrazione da parte della sinistra che l'Italia è ancora una democrazia rappresentativa suscettibile di migliorare e non uno Stato che oscilla tra l'evidente decozione e la tentazione repressiva. Quando il Pci sostiene oggi che la nostra democrazia rappresentativa è aperta a tutte le innovazioni; quando afferma che oggi il terrorismo mira soprattutto a impedire un processo di evoluzione democratica con il Pci come protagonista, sviluppa un'analisi che ha una sua coerenza teorica, ma che richiede ancora una concreta dimostrazione politica. Cioè che l'evoluzione democratica sia possibile, che la Costituzione del 1948 possa essere applicata per intero. Ritengo anch'io che la sinistra possa ancora essere protagonista di una svolta democratica nel quadro della Costituzione. Ma occorre darne la dimostrazione a partire da subito: l'opinione pubblica e i militanti progressisti hanno subìto troppe delusioni, perché possano oggi credere sulla parola ai dirigenti del Pci e del Psi. Darne la dimostrazione subito significa non accartocciarsi sulla tematica proposta dalla lotta armata. Traggo due esempi da "La Repubblica" del 25 marzo: "Il processo Lockeed sarà rinviato", si informa a pagina 7. E a pagina 6 uno dei nostri migliori economisti, Claudio Napoleoni, eletto deputato nelle liste del Pci, scrive che le attuali deliberazioni del governo in materia di politica industriale vanno "al di là di ogni previsione, anche la peggiore, sull'inadeguatezza della legge 675 ai fini della formazione di una politica industriale dotata di senso". Ebbene: a me pare evidente che tutta la sinistra che rifiuta la lotta armata si attende dall'ingresso del Pci e del Psi nella maggioranza che si restauri lo Stato di diritto anche nei confronti dei potenti del sistema e che si ponga mano a una politica industriale dotata di senso, sostituendo immediatamente tutti i dirigenti delle imprese pubbliche responsabili del dissenso attuale. Senza segni evidenti di cambiamento, non c'è predica di politici o di intellettuali che possa rinvigorire le nostre istituzioni democratiche. E se agli intellettuali si possono chiedere analisi che siano per quanto possibile valide, tocca ai politici prendere decisioni che siano per quanto possibile risposte alle attese. Questa sembra a me la risposta adeguata alla sfida del 16 marzo.

Come risponde il Pci al comunicato delle Br
Intervista con Emanuele Macaluso la Repubblica 28 marzo

ROMA - Senatore Macaluso, lei fa parte della direzione del Pci. E' d'accordo con la definizione che da molti è stata data del messaggio numero due dei brigatisti, e cioè che si tratta di un'accozzaglia di argomenti più o meno deliranti?

“Non c'è dubbio che questo documento, a parte il delirio, in effetti usi argomenti fra i più contraddittori. Da un canto esalta il terrorismo e la violenza, dall'altro lamenta l'esautoramento del Parlamento da parte dei partiti: sostiene un presunto internazionalismo proletario attraverso l'unità di tutte le centrali terroristiche ma anche mescola insieme i guerriglieri dell'America Latina e i cattolici nazionalisti dell'Ira; e potremmo continuare”.

Una parte dell'opinione pubblica sostiene che certe argomentazioni politiche dei brigatisti coincidono in larga misura con quelle che, fino a non molto tempo fa, esprimeva la sinistra storica.

“La differenza non sta solo nel fatto che noi abbiamo sempre combattuto il terrorismo e la violenza; ma anche nel fatto che abbiamo considerato essenziale la costruzione di un partito di massa con larghe radici e partecipazioni della classe operaia, e abbiamo lavorato per un sistema di alleanze sociali e politiche tali da rendere possibile una lotta democratica e socialista. Essenziale è stato, per un rapporto reale, non verbale, con la classe operaia, le masse lavoratrici e il popolo. Quindi, le argomentazioni politiche dei brigatisti non coincidono con quelle che sono state le nostre, appunto per questa profonda differenza di base sociale a cui richiamarsi e di strategia di avanzata al socialismo da proporre”.

I brigatisti accusano Moro di aver fatto parte di un governo che venne sostenuto da voti fascisti: di essere stato segretario della Dc quando venne varato il governo Tambroni; di aver promosso il centrosinistra per dividere le forze popolari; di aver frapposto i famosi “omissis” quando si cercò di far luce sul caso Sifar-De Lorenzo. Queste accuse le mossero a suo tempo anche i comunisti e gran parte della sinistra italiana.

“Anche qui c'è una differenza sostanziale. In effetti noi abbiamo criticato, spesso duramente, l'on. Moro, come dirigente della Dc, per le scelte fatte negli anni trascorsi; ma lo abbiamo fatto non per distruggere la Dc, e tanto meno per attaccarla col terrorismo e con la violenza, ma per far maturare nel suo interno contraddizioni, possibili per il carattere di questo partito; tali da spingerlo verso una collaborazione con la sinistra e quindi anche con il partito comunista. In ogni momento della nostra battaglia nei confronti dei governi della Dc, e quindi anche nei confronti di quelli presieduti da Moro, insieme con la polemica abbiamo sempre avanzato proposte positive per una collaborazione. Ricordiamoci che Togliatti propose, negli anni '50, una nostra astensione di fronte a un “governo democristiano di pace” che, pur restando nel Patto atlantico, di fronte al pericolo allora grave di una guerra atomica, avesse avuto un'iniziativa positiva per la distensione”.

Il comunicato numero due dimostrerebbe, secondo l' ”Unità”, che i brigatisti si sentono isolati, e ciò sarebbe avallato dal fatto che essi riprendono una serie di tematiche che furono, sia pure in modo diverso, patrimonio del Pci; ma si può anche pensare che invece i brigatisti ritengano che in questo momento vi sono vasti settori della sinistra convinti che la politica del Pci non abbia sbocchi e pronti quindi a seguire le suggestioni delle Brigate rosse.

“Ha Già detto che le tematiche che furono patrimonio dei comunisti non hanno lo stesso segno di quelle sbandierate oggi dai brigatisti. Mi pare giusta l'opinione de L' “Unità”: si sentono isolati non solo perché ci sono state in questi giorni grandi manifestazioni operaie e popolari; ma anche perché negli stessi gruppi di giovani che dissentono dalla politica del Pci si è manifestato un netto rifiuto del terrorismo e della violenza. E' vero che gruppi di giovani sono convinti che la politica del Pci è sbagliata; ma la discussione che si è accesa in proposito mette e metterà sempre più in evidenza che oggi in Italia c'è solo un'alternativa: o vince la democrazia o, sulla sconfitta di questa, non può che venire un regime autoritario di destra che negherà le libertà politiche, sindacali e civili conquistate in questi anni.Una terza via non c'è.Il confronto, e anche lo scontro, sono contenuti che questa democrazia deve avere. Esso è aperto anche all'interno dei cinque partiti che hanno dato vita alla nuova maggioranza”.

Ma molti giovani pensano che ci sia una “via rivoluzionaria”.

“Non sottovaluto il fatto che ci siano oggi gruppi di giovani e di lavoratori che pensano ci sia una terza via; quella della conquista del potere attraverso l'insurrezione armata. Con essi occorre discutere con fermezza, ma apertamente. Anzitutto c'è da dire che le rivoluzioni - anche armate - non si preparano col terrorismo e non sono guidate dai terroristi; solo degli avventurieri o degli sprovveduti, inoltre, possono pensare che in un paese come l'Italia, nell'Europa occidentale e nel blocco della Nato, ipotesi di questo tipo siano minimamente credibili. La conclusione di una tale ipotesi non potrebbe che essere una feroce dittatura di destra, sostenuta da tutte le forze reazionarie nazionali e internazionali”.

Ma un dibattito politico in proposito e questa stessa sua intervista, non rischiano di dare dignità politica ad un gruppo che anche voi comunisti definite di criminali?

“Questo pericolo c'è. Ritengo però che nel momento in cui noi denunciamo - e dobbiamo farlo sempre di più - l'azione terroristica, sanguinaria e criminale delle Br, dobbiamo al tempo stesso condurre una battaglia politica , culturale, ideale, affinché le centrali terroristiche non possano giovarsi di consensi, tolleranze, o anche neutralità”.

In sostanza, secondo lei, che cosa vogliono in realtà le Br?

“Da piazza Fontana ad oggi il terrorismo, pur avendo matrici diverse, ha mirato sempre a destabilizzare la democrazia. Perciò ritengo che le Br trovino sostegno da parte di tutte quelle centrali nazionali e internazionali che dal '69 ad oggi si sono poste questo obiettivo. Negli anni '69-'70-'71 c'era un movimento eversivo fascista con agganci di massa e con un chiaro obiettivo: creare panico e disordine per chiedere, poi, ordine reazionario. Subito si stabilì una convergenza tra le diverse centrali fasciste, apparati statali e centri internazionali: si ricordino gli aiuti, anche finanziari, dati dall'ambasciatore Martin al generale Miceli. Oggi il terrorismo cerca di determinare panico e sfiducia nello Stato e senso d'impotenza tali da sollecitare ancora una volta interventi di forza che nel clima che si spera di stabilire portino sempre all'ordine reazionario. Per questo ho detto che una terza via non esiste”.

Lei esclude che ci siano dei brigatisti, i quali in buona fede, pensino di essere dei comunisti “rivoluzionari”?

“Ritengo che tra le Br ci siano anche questo tipo di 'rivoluzionari', che noi dobbiamo combattere con vigore. Ma ritengo anche che ci siano altri che consapevolmente lavorano per destabilizzare la democrazia con l'obiettivo della dittatura di destra. D'altronde non c'è questa incompatibilità fra queste due componenti: perché anche coloro che abbiamo definito 'rivoluzionari' pensano che una dittatura di destra sposterebbe forze proletarie sul terreno “rivoluzionario”, sottraendole così all'influenza riformista del nostro partito”.

Avete sempre detto che in Italia le cose vanno riviste a fondo. Avete scelto, per questo, la via della collaborazione democratica. Quali sono i tempi presumibili per raggiungere questo obiettivo?

“Confermo che è necessario, anzi indispensabile, che le cose vadano riviste a fondo: nell'economia, nella scuola, negli apparati statali, negli squilibri sociali, nel risanamento della vita pubblica, affinché non si ripetano scandalosi episodi di corruzione che hanno provocato sfiducia nel paese.

Operare questa svolta non è facile; sappiamo che sono ancora forti e radicate le forze che vi si oppongono.

Sì, ci vorrà pazienza, ma non rassegnazione; e il realismo non deve mai diventare cinismo. Nelle settimane e nei mesi prossimi avremo alcune scadenze su tutti i punti del programma di governo concordato. Il banco di prova della nuova maggioranza sarà nel modo in cui affronterà l'eversione e il terrorismo, ma anche nel modo in cui si affronterà l'emergenza nell'economia e negli altri settori della vita pubblica”.


 

 

 

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