Polemici con i brigatisti i giovani del “Leoncavallo”
Stefano Jesurum, la Repubblica 28 marzo

MILANO – Secca risposta dei giovani del Centro Sociale Leoncavallo alle Brigate Rosse, che nel loro ultimo comunicato avevano reso omaggio "ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli, assassinati dai sicari del regime". I compagni dei due giovani hanno respinto "l'uso strumentale del nome di Fausto e Iaio da parte di un gruppo che ha scelto di inserirsi organicamente nella strategia della tensione". Così è scritto su un foglietto appeso al portone d'ingresso del "Leoncavallo", al termine di un'assemblea che i militanti del centro hanno improvvisato domenica sera: "I terroristi vogliono la confusione", dicono, "o vogliono mettere nello stesso calderone brigatisti, studenti e operai incazzati". "Onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli, assassinati dai sicari del regime". Appena si è saputo che il comunicato n. 2 delle Brigate rosse terminava con questo slogan, ci si è domandati che cosa c'entrano Fausto e Iaio con le Br. E ancora: come la prendono quelli del centro sociale Leoncavallo? Ieri il centro era chiuso. Però sulla porta, scritto a penna, c'era un foglietto: "Respingiamo l'uso strumentale del nome dei due compagni da parte di un gruppo che ha scelto di inserirsi organicamente nella strategia della tensione". E' il risultato di una mini assemblea che i più attivi del Leoncavallo hanno improvvisato domenica sera. Nessun giudizio politico: "Siamo un organismo di base, di quartiere, siamo un gruppo eterogeneo", spiega Paolo, "come centro non ci siamo mai pronunciati su problemi politici generali, nemmeno quando ci furono le elezioni. Se lo facessimo oggi sarebbe assurdo". E così, di questo inaspettato gesto delle Br, ne parliamo soltanto con Paolo, Ivo e Rita. Ma unicamente "come compagni del Leoncavallo", a titolo personale. Su un punto sono tutti e tre d'accordo: "Quando abbiamo saputo che le Br menzionavano Fausto e Iaio, la prima reazione è stata d'incazzamento. La stessa che hanno avuto tutti i compagni". Poi è stata la volta dello stupore e del ragionamento: perché? Paolo: "Bisogna pensare alla grande mobilitazione che c'è stata a Milano per i funerali. Oggi le Br, al contrario del passato, sono costrette a riagganciarsi a due compagni come Iaio e Fausto". Ivo: "Succede che in Italia lo sdegno per l'assassinio dei due compagni è stato davvero nazionale. E' la prima volta che un centro sociale, e non un partito o un'organizzazione, riesca a mobilitare e a fare controinformazione sul risvolto politico di omicidio. Le Br ne hanno tenuto conto". In piazza, però, sono venuti anche tanti comunisti... Risponde Paolo: "Un fatto emotivo, ma con un preciso risvolto politico. Il Pci si vuole mostrare garante del controllo delle masse, il giorno dei funerali non c'è riuscito. Quest'occasione le Br non potevano farsela scappare". Paolo un accenno delle Br a Fausto e Iaio se l'aspettava: "Dopo il fatto di Moro si sono isolati moltissimo dal Movimento . Così non era mai successo. Anche le frange più estreme e dure dell'Autonomia hanno dato il loro giudizio negativo". E allora? Spiega Ivo: "Per i brigatisti l'isolamento è pericolosissimo. Di qui l'esigenza di tentare di riallacciarsi con un movimento che li sta rinnegando". A questa frase Rita si mette a pensare, sembra estranearsi, poi dice: "I terroristi vogliono la confusione. Fare il nome di Fausto e Iaio nel loro comunicato può anche voler dire il tentativo di mettere nello stesso calderone i brigatisti, gli studenti, gli operai incazzati". Ma sono soltanto ipotesi e i giovani del Leoncavallo lo sanno benissimo. Rimane il fatto che le Br hanno scritto quello slogan su Fausto e Iaio. E una cosa di questo genere non era mai successa. Paura? "No", rispondono, "il Leoncavallo è un centro sociale aperto a tutti, vi vengono anche i comunisti e quelli del Consiglio di Zona. Il terrorismo, la strategia della tensione come Leoncavallo non ci dovrebbe toccare direttamente". Fatta quest'affermazione Paolo ha uno scatto: "Ho detto una fesseria. La strategia della tensione ci ha toccati da vicino con l'omicidio di Iaio e Fausto". Qualcuno ha in mano Lotta Continua di domenica. C'è scritto (e loro lo hanno sottolineato) che la frase del comunicato Br che parla di Jannucci e Tinelli "è un riconoscimento allucinante e sordido. Come amici di Iaio e Fausto glielo restituiamo: non gradito".

Nessun consenso dal Movimento
Fallisce il “progetto” delle Br

Carlo Rivolta, la Repubblica 28 marzo

ROMA - Il Tentativo delle Br di "catturare" nell'area di consenso intorno alla lotta armata anche frange del movimento, che finora hanno sempre dichiarato di sentirsi estranee alla guerra privata dei brigatisti, sembra destinato a fallire. Il primo tangibile segno del fatto che non basta un'analisi "terzinternazionalista" della realtà politica, condita con elementi alla James Bond, e la proposta di un partito armato, per catturare dei giovani, è venuto dal commento finale con cui Lotta Continua ha bollato il documento delle Br. "Il messaggio termina", scriveva domenica Lotta Continua, "con la frase onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli, assassinati dai sicari del regime. E' un riconoscimento allucinante e sordido, come amici di Iaio e Fausto glielo restituiamo: non gradito". Naturalmente non tutte le reazioni nel "movimento" e nella nuova sinistra sono state negative. Vecchie "tradizioni" militariste hanno determinato una crescente ammirazione per la "capacità operativa" delle Brigate rosse, e in altri, già convinti della necessità di un movimento di insurrezione armato, la suggestione della clandestinità è diventata, probabilmente, più forte. La maggioranza sembra riconoscersi però nella formula di Lotta Continua: "né con lo Stato, né con le Br"... Nelle piazze romane, pressoché spopolate dalle vacanze di Pasqua, i gruppetti che si riuniscono discutono, come sempre, dei fatti del giorno con il tono con cui si commentano le partite di calcio. I commenti sono i più disparati, ma nella maggioranza dei casi, la coscienza che la violenza feroce dei brigatisti non può essere condivisa né giustificata da nessuna strategia rivoluzionaria è il dato principale. Se l'atteggiamento è di assoluta estraneità alla logica delle Br nell'area del movimento del '77, nei partiti della nuova sinistra, in quello che resta dei centri strategici delle forze che erano il fulcro della lista di Democrazia Proletaria, l'analisi va ovviamente al di là dei primi elementi di reazione emotiva. Al Manifesto si fa notare, ad esempio, che chi ha scritto il testo del volantino non è certamente"fuori dalla realtà". "Colgono, sia pure nella loro logica delirante e nelle loro tragiche suggestioni da film di spionaggio, un dato caratteristico della situazione attuale della nostra società: ci troviamo in una fase di transizione, in cui molte cose stanno cambiando". Per Valentino Parlato le Br hanno mostrato di aver letto attentamente i giornali dopo il rapimento e di essere rimaste in qualche modo colpite dalla reazione di massa che c'è stata."Non avevano calcolato le dimensioni della reazione operaia: per questo parlano di luride manifestazioni e allo stesso tempo si preoccupano di tentare un collegamento con situazioni di massa". L'accenno ai due morti di Milano vuol dire che le Br tentano, in qualche modo, la saldatura della loro lotta armata alle lotte che conducono frange del movimento. Questa saldatura è possibile? "Il documento delle Br non è affascinante per i giovani", dice Parlato, "ma può avere un'accoglienza tollerante. Insomma, sulle Br ci può essere al massimo, ed è un danno più grave, una astensione, non una mobilitazione favorevole. C'è una coscienza diffusa che la loro via, oltre che ingiusta e disumana, è sbagliata politicamente e non conduce al rinnovamento, ma c'è il rischio, quando usciranno, se usciranno, i verbali del cosiddetto processo a Moro, che la gente, invece di riconoscere i brigatisti come criminali, critichi l'immagine che della Dc hanno dato la stampa e le forze di sinistra in questi giorni. Per questo è necessaria una correzione di tiro, è necessario essere più severi con la Dc, meno unanimisti, se si vuole evitare questa astensione sul problema delle Brigate rosse". In conclusione l'impressione che domina gli ambienti vicini al "manifesto" è che "il successo militare" conseguito dalle Br non abbia avuto come corollario un successo politico. Se si tiene conto delle critiche espresse fin dal primo momento anche da quei settori che hanno fin qui teorizzato la via insurrezionale come strada vincente per la sinistra ("le Br hanno sbagliato fase politica, tra la loro azione e lo sviluppo della lotta di massa corrono ancora grandi spazi"), si capisce che il terreno di consenso intorno alle Br è limitato al "qualunquismo di sinistra", sul tipo di quello incoraggiato in maniera quasi sfacciata da frange dell'autonomia, soprattutto a Roma. Nonostante questo anche l'analisi di Onda Rossa è molto critica verso le Br. "Con la loro azione", dicono gli autonomi, "non hanno fatto crescere il movimento. Lo scontro armato deve coinvolgere le masse". Secondo Onda Rossa non c'è "apertura" dalle Br al movimento, ma la frase riferita ai due morti di Milano vuol dire che i brigatisti ritengono il duplice omicidio una "rappresaglia per il rapimento di Moro". La formula "Né con lo Stato , né con le Br", non convince Onda Rossa che insiste: i brigatisti sbagliano ma sono "compagni". Non bisogna sottovalutare però l'astensione né il consenso "qualunquista". Non bastano per un partito armato, e quindi (ammesso che le Br non siano la filiazione di un servizio segreto) non servono per la rivoluzione così come la vedono "i nipotini cattivi di Stalin e Beria" (la battuta circola da tempo nella nuova sinistra, a sottolineare l'estraneità di matrice culturale del terrorismo rispetto alla sinistra nata dal '68). Possono però servire per affossare la democrazia.


Quelle parole non sono le sue
Editoriale, la Repubblica 30 marzo

Se la lettera a Cossiga, diffusa dai brigatisti, è stata veramente scritta da Aldo Moro, come ritengono gli inquirenti, essa acuisce ancora i sentimenti di angoscia e preoccupazione sulla sorte del presidente della Dc. Se il fatto di aver scritto la lettera testimonia che Moro è vivo, lo stile e il contenuto del messaggio fanno ritenere che Aldo Moro sia soggetto a pressioni di natura tale che la parola tortura, sia pure intesa come condizionamento psicologico ossessivo e coartante, non è esagerata o lontana dalla verità delle cose. Il lungo ciclostilato di pugno delle brigate lascia capire che la pretesa cultura dei “giudici” di Moro non è riuscita ad andare oltre una traduzione, in termini tipici del delirio brigatista, di discorsi e descrizioni che Moro può aver fatto secondo una logica del tutto ordinaria e congeniale rispetto al corretto rapporto che si instaura tra forze politiche in un regime democratico. In altri termini, il processo politico delle brigate ad Aldo Moro sembra fallito, se si proponeva in origine l'obiettivo di arrivare a rivelazioni su clausole segrete e misteriose fra le potenze dell'alleanza atlantica o su passaggi difficili e pericolosi della vita interna italiana. Su questo fallimento si innesta adesso la più semplice, e in apparenza redditizia, proposta dello scambio, fatta suggerire da Moro in termini che dovrebbero segnare, se accettati, la sua fine politica attraverso il discredito di fronte all'opinione pubblica. Moro insomma, in cambio della sua salvezza fisica, sottoscriverebbe, con una distinzione inaccettabile tra rapiti dalla criminalità comune e rapiti dalla criminalità politica, il proprio suicidio politico e di statista. Ed è proprio questo che ci ripugna di accettare o anche solo di ritenere verosimile. La lotta con le Brigate si fa insomma ancora più aspra e dura e richiede al paese e soprattutto alle forze politiche e al governo un'estrema lucidità di giudizio.

Parole scritte sotto la tortura
Fausto De Luca, la Repubblica 30 marzo

TORINO - Le impressioni e i giudizi si accavallano in modo tumultuoso tra gli inquirenti di fronte all'ultimo messaggio delle Brigate rosse. Non sembrano esserci dubbi sull'autenticità della grafia della lettera indirizzata al ministro dell'Interno Francesco Cossiga: la scrittura è quasi certamente quella di Moro. Lo stile suscita invece diverse perplessità: ci sono cadenze e passaggi che sembrano tipici del modo di pensare e di esprimersi del presidente della Dc, ma altri brani e altre espressioni suscitano un'impressione diversa. Sembra difficile immaginare in bocca a Moro un'espressione come “perdere la faccia”. Analizzando la lettera sotto questo profilo, si è indotti ad immaginare, con raccapriccio, le impressionanti pressioni psicologiche esercitate su Moro per indurlo a scrivere una lettera in termini a lui non congeniali e che più agevolmente può pensare siano stati a lui imposti e dettati. E veniamo ai contenuti che colpiscono in almeno due passi. Il primo è quello in cui si stabilisce una distinzione fra i normali rapimenti o sequestri di persona, fatti cioè a scopo venale, e i rapimenti politici, che mirano a coinvolgere lo Stato. E' poco verosimile che Moro abbia potuto pensare e scrivere di sua volontà che “il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile".In altri termini, Moro proporrebbe lo scambio di se stesso con altre persone, non si sa ancora quali, anche se la fantasia non deve correre troppo lontano. A fil di logica, si potrebbe anche pensare che le Brigate, dopo aver dato un'impressione del tutto diversa, di voler cioè soprattutto trarre profitto da una confessione circostanziata di responsabilità politiche, ripiegano oggi, non potendo ottenere risultati in questa direzione, sulla classica proposta di scambio. Questa impressione è rafforzata dalle parti che sono di pugno originale delle brigate e nelle quali, dove si parla delle cose che Moro avrebbe confessato, è facile vedere un semplice ribaltamento di linguaggio. Dove si dice che Moro è consapevole di essere il maggiore responsabile di misfatti e crimini nel senso di voler creare, come dicono le brigate, lo stato delle multinazionali, si può leggere semplicemente che Moro ha ammesso, questo è lapalissiano, di essere una personalità eminente e una guida politica di prima grandezza. Così quando le brigate scrivono che Moro ha chiamato in causa tutta la classe dirigente del suo partito, si può leggere semplicemente che Moro ha richiamato i suoi “giudici” alla realtà delle vicende della democrazia, in cui multiformi sono gli apporti, infinite le mediazioni, diffusa ed articolata la responsabilità delle decisioni. Il secondo passaggio della lettera di Moro che suscita perplessità è quello in cui si suggerisce un coinvolgimento del Vaticano, insomma del papa ("un preventivo passo della Santa Sede potrebbe essere utile"), mirando ad allargare ulteriormente la rilevanza e lo scandalo in tutta la comunità internazionale e a creare un precedente che metterebbe il vertice della Chiesa in gravi difficoltà in tutte le successive imprese terroristiche, da chiunque compiute. Nulla in assoluto, ovviamente, si può escludere, ma ancora una volta l'enormità delle cose induce a immaginare una condizione del prigioniero che non si può che definire allucinante: di sottile tortura fisica e mentale, di coartazione della volontà e dell'intelligenza.

Conferenza stampa dei portuali autonomi di Genova Perché “né Br né Stato
Antonio Saba, la Repubblica 30 marzo

Genova, 29. - "Il Terrorismo è un fenomeno negativo che si combatte con la lotta di classe". "Oggi le Brigate rosse e il terrorismo hanno defraudato possibilità di lotta ai lavoratori. Se diciamo “né Br né Stato” è perché non confondiamo quest'ultimo con le istituzioni democratiche". "Insomma né Stato vuol dire che a noi lo Stato degli scandali, della strategia della tensione e della Lockeed non ci sta bene". Il Collettivo operaio portuale genovese è sceso stamattina nuovamente in campo per spiegare le proprie posizioni che, dopo la distribuzione di un suo volantino dal titolo “Né Stato né Br” aveva provocato una grossa bufera politica fra le banchine del porto e i partiti genovesi. Il partito comunista in particolare dopo l'uscita del volantino aveva reagito con decisione, pubblicando un duro attacco al Collettivo sulle pagine cittadine dell'Unità (in cui il volantino era definito "indegno") e cogliendo l'occasione per annunciare che a sei militanti del Pci (e componenti del Collettivo) la sezione "Gramsci" del porto non aveva rinnovato la tessera per il 1978. In un'assemblea-incontro con la stampa uno dei portuali rimasto senza tessera ha raccontato la vicenda. "Noi siamo stati convocati il 15 di febbraio tutti e sei con una lettera che ci invitava ad un confronto sulla politica portuale", ha raccontato. "Dalla discussione è poi venuto fuori che ci si rimproverava di aver organizzato il dissenso in porto promuovendo lotte non in linea col partito. Insomma alla fine noi abbiamo detto che allora il partito la tessera poteva anche tenersela". Non è la prima volta che dei portuali vengono privati (o rinunciano) alla tessera del Pci, ma stavolta son tutti d'accordo nel dire che la decisione ha un significato politico completamente diverso. Nel porto il partito comunista ha sempre avuto l'egemonia. Ora, da quando l'anno scorso il Collettivo ha messo in minoranza in più occasioni il sindacato, e alle elezioni dei delegati sindacali ha ottenuto il 57 per cento dei voti, lo scontro col Pci si è fatto aspro. "Noi siamo dei democratici e vogliamo il massimo di discussione e di dibattito" dice il Collettivo, "in questi giorni in porto si è parlato molto di Moro e più lavoratori di quanti non si immagini hanno detto che di Moro se ne fregano o che ci vorrebbe la pena di morte". In una stanza del palazzo che ospita la Compagnia, nel cuore del porto, una settantina di persone assiste allo scambio di battute e risposte senza fare interventi. Quelli del Collettivo cercano di respingere l'accusa di una equivoca "equidistanza" dalle Br: "Non ci devono essere confusioni", sostiene un esponente del Collettivo, "il 16 marzo ad esempio abbiamo scioperato tutti, assieme agli altri, ma deve essere chiaro che non siamo andati in piazza per lo Stato". Rimane il problema della posizione che il Collettivo assume sui brigatisti: sono compagni che sbagliano? "Compagni? Quali compagni?", risponde uno dei membri del Collettivo, "io conosco qui Mario, Giulio o Bruno" continua facendo dei gesti con le mani, "ma i brigatisti... sappiamo solo che esistono, per il resto, a quanto dice la stampa, tutto il mondo sta complottando in Italia attraverso le Br". Oltre a difendersi e a spiegare, quelli del Collettivo muovono però al Pci un'accusa precisa: "Il mese prossimo in Compagnia ci saranno le elezioni: non è così un caso che questa polemica venga fuori proprio ora e se ci si attacca l'etichetta di gruppo di terroristi è chiaro che i lavoratori prima di votarci ci pensano bene...". Insomma, secondo il Collettivo autonomo, dietro le polemiche sul volantino ci sarebbe in realtà una battaglia per la conquista della maggioranza nell'organizzazione di autogestione dei portuali, la Compagnia, che poi è come dire per il porto di Genova, il potere. "E non è la prima volta" sostiene il Collettivo. "che prima del voto si verificano delle provocazioni".

Confronto sul terrorismo alla Pirelli
Stefano Bevacqua, la Repubblica 31 marzo

Per la prima volta il sindacato si è trovato di fronte a problemi come quelli posti dal rapimento di Aldo Moro e dalla strage delle cinque guardie della scorta. E, nella stessa misura, per la prima volta su quelle questioni il dibattito tra gli operai è stato così attento e chiaro. Non sono mancati i dissensi agli interventi dei quadri comunisti così come i delegati del Pci non hanno esitato ad attaccare anche pesantemente i sostenitori della linea dello slogan "né con lo Stato né con le Br". Ma in nessun caso c'è stato un fischio: il dissenso, o il consenso, si è espresso con gli applausi e con le repliche pacate. La condanna delle Brigate rosse, della loro politica, è stata unanime. Ma dopo la dichiarazione, ormai scontata, di opposizione al terrorismo, si è discusso di quel che più conta: che cosa è necessario fare. "Vale la pena di difendere questo Stato? - si è chiesto un delegato di Lotta continua -. No, poiché non è il nostro Stato, è contro di noi. Si difenda da solo, se crede, ma non può pretendere l'appoggio della classe operaia, su cui per anni ha sparato pallottole". Un applauso di consenso, poi la risposta del sindacato: "In questo modo si rafforza la tendenza degenerativa dello Stato: lo si lascia libero di agire come vuole. Non si tratta di essere con lo Stato in astratto, in quanto istituzione neutrale - ha detto Gallurese della Fulc nazionale nelle conclusioni - occorre invece difendere lo Stato democratico, dal sindacato di polizia, alla magistratura democratica, al Parlamento. E il terrorismo mira a distruggere anche questo Stato, che è il frutto delle nostre lotte. Non si tratta però di concepire uno Stato nello Stato, ma di fare barriera contro tutto ciò che può distruggere la democrazia, compresa la democrazia che è nelle istituzioni". Di avviso in parte diverso i delegati del Pci: lo Stato ha il dovere di difendersi, ma la classe operaia ha nella stessa misura il dovere di guardarsi attorno, individuare, colpire i terroristi, studiare e analizzare la loro strategia e batteria con ogni mezzo. E' stata proposta, da parte della cellula del Pci, la creazione delle commissioni di studio sul terrorismo all'interno del Consiglio di fabbrica. Tra i compiti di queste strutture anche il compito di sorvegliare nelle fabbriche l'azione degli eventuali terroristi. Ma la proposta è caduta sostanzialmente nel vuoto. La discussione era su altro: su come porsi, nelle fabbriche, la questione della lotta politica per cambiare lo Stato, perché possa difendersi senza per questo uccidere la democrazia. Anche di fronte a questa proposta, comunque, nessuna polemica né contestazione. Sono stati il dibattito e gli interventi a escludere questa possibilità, senza le risse che si erano avute, ad esempio, alla Face Standard. Un dato sconcertante: nessun rappresentante, e nemmeno un delegato, è intervenuto a nome della Democrazia cristiana, che pure è presente nel consiglio di fabbrica. Gli interventi sono stati tutti del Pci, del Psi, di Dp o di Lotta continua. Forse ciò ha favorito un dibattito più sereno, non innescando quel meccanismo per cui, se parla un democristiano, uno di Lotta continua è "obbligato" a fischiare. Ma anche tra il Pci e la sinistra estrema non mancano contrapposizioni, eppure si sono espresse con le parole, non con le urla. Il dibattito comunque continuerà nei prossimi giorni. In tutte le zone sindacali di Milano e provincia si stanno riunendo gli attivi dei delegati: poi la discussione entrerà in tutte le grandi fabbriche. Gli appuntamenti più importanti sono probabilmente quelli all'Alfa Romeo e della Sit-Siemens. Nel primo caso si tratta della più grande fabbrica dell'area milanese: la discussione sul terrorismo è già cominciata, e dovrebbe arrivare a una conclusione con un'assemblea generale la prossima settimana. Nel secondo caso siamo invece di fronte a una delle fabbriche indicate da molti come "fucina" di brigatisti. Le prime azioni terroristiche (la famosa autobomba con gli altoparlanti che lanciava messaggi) presero il via proprio alla Sit-Siemens. E da questa fabbrica - dicono in molti, specie nel Pci - sono usciti numerosi militanti delle Brigate rosse. In tutte le assemblee fatte finora, comunque, è stata riproposta dal Pci la creazione delle squadre di vigilanza antiterrorismo nelle fabbriche. Ma in nessun caso di rilievo questa proposta è stata accettata: quasi ovunque la discussione si è spostata sul terreno del confronto politico e anche la proposta di creare i meno aggressivi "gruppi di studio sul terrorismo non ha trovato molti sostenitori."

Ventiquattr'ore terribili e alla fine i capi Dc hanno scelto la fermezza
Giampaolo Pansa, la Repubblica 1 aprile

ROMA - Le venticinque righe senza titolo e senza firma pubblicate dal "Popolo" per rendere esplicito il rifiuto della Dc a trattare con i terroristi, sono il documento più drammatico fra i tanti prodotti dal partito di maggioranza in questi ultimi trent'anni. Fra quali tormenti è nato? E per quali ragioni la Dc, pur sapendo in gioco la vita di Moro, ha deciso di "ribadire con meditata convinzione che non è possibile accettare il ricatto posto in essere dalle Brigate Rosse"? Un tentativo di risposta deve partire dalla mattina di giovedì 16 marzo, la mattina della strage e del sequestro. Le Br portano via Moro e tutto il partito subisce due tipi di choc. C'è la mazzata politica: da tempo i quadri intermedi della Dc erano sotto il fuoco dei terroristi, ma nessuno aveva mai supposto che le Br avrebbero osato arrivare tanto in alto. E c'è il colpo psicologico, altrettanto profondo: non soltanto la base, ma buona parte del vertice democristiano vede crollare il rapporto “partito-capo” e si sente orfano. Il dramma si accentua il giorno dopo, quando dal ricordo di un altro sequestro, quello Sossi, affiora una domanda crudele: e se i rapitori proporranno uno scambio, Moro contro qualche terrorista in carcere? Per alcuni dirigenti Dc il dilemma non è soltanto politico, un rebus astratto da risolvere alla luce della ragion di Stato o di partito. Zaccagnini è amico di Moro da sempre. Lo stesso vale per Belci. Anche giovani come Pisanu sono legati al leader da un affetto profondo. Per considerare il problema con occhio freddo, essi debbono far violenza anche alla loro storia di uomini, ad un passato di incontri, di confidenze, di aiuto reciproco. Si spiega in questo modo lo stress di alcuni esponenti del partito. Ed è inevitabile che, di fronte al dilemma “cedere o non cedere al ricatto”, le parti risultino talvolta, curiosamente rovesciate. Si sa, ad esempio, che l'interlocutore principale della Dc, il partito comunista, è contrario ad ogni trattativa con le Br. Ebbene, sono proprio i dirigenti democristiani più aperti al colloquio con il Pci coloro che esitano a scartare l'ipotesi di uno scambio. I moderati, invece, hanno quasi tutti la stessa linea dei comunisti: rifiutare ogni baratto. Lo stress si aggrava all'arrivo della lettera di Moro. La sera di mercoledì, nel giro degli uomini di Zac, sembra prevalere il “personale” più che il “politico”. Forse pesa su di loro anche il rapporto con la famiglia del rapito. E' la prima reazione, di fronte all'appello dell'amico, è istintiva: si può essere flessibili, non bisogna dire subito di no. Questo stato d'animo, comprensibile dal punto di vista umano, sta per tradursi in un commento del “Popolo”. Poi intervengono altri dirigenti (tra i quali Piccoli) e il “Popolo” sospenderà “ogni commento e ogni valutazione”. Tuttavia, una risposta della Dc può tardare ventiquattro ore, non di più. Chi le ha vissute, definisce quelle ore “molto brutte, molto difficili, le più difficili in tanti anni”. La risposta matura nella giornata di giovedì, ed è una decisione che la segreteria elabora e confronta con molti del partito. Prima a piazza del Gesù, poi alla Camilluccia, si consultano Zaccagnini, Galloni, Gaspari, Bartolomei, Bodrato, Fanfani, gli ex presidenti del consiglio Rumor ed Emilio Colombo, gli ex segretari Fanfani e Taviani. Viene sentito pure chi è lontano, come Donat-Cattin. Nascono di qui, dopo infinite correzioni e integrazioni di un testo scritto dal direttore del “Popolo”, Belci, le venticinque righe che appariranno l'indomani sulla prima pagina del giornale democristiano. Perché la Dc stabilisce di rifiutare il baratto? Le ragioni sono queste. La prima è interna: il partito non può dividersi su una questione così vitale, sarebbe un vistoso regalo alle Brigate rosse. La seconda è esterna, e riguarda il rapporto tra Dc e gli altri partiti della maggioranza, a cominciare dal Pci: i terroristi mirano ad una spaccatura e non debbono vincere neppure su questo terreno. “Se avessimo detto sì ad una trattativa con le Br -sostiene un dirigente democristiano - il primo effetto sarebbe stato l'immediata crisi del governo”. La terza ragione riguarda il rapporto con l'elettorato democristiano. Fra un paio di mesi, la Dc affronterà un turno importante di consultazioni amministrative. La prova non è facile e la linea democristiana ancora incerta. Sarebbe molto pericoloso presentarsi sulle piazze cominciando col dire: “Abbiamo ceduto alle Brigate rosse per salvare il leader del partito”. Quarta ragione, ancor più forte: lo scambio sarebbe un colpo mortale alla credibilità, già scarsa, del nostro sistema istituzionale e alla classe politica nel suo complesso. Quanti agenti e carabinieri, colleghi degli assassinati, non griderebbero: “Avete ottenuto la vita per Moro. Ma chi ci ridarà i cinque morti di via Fani?”. E come reagirebbero i cittadini dinanzi all'affermazione che Moro è “più uguale degli altri”, che Moro è “insostituibile e dunque va salvato?”. La quinta ragione riguarda proprio la salvezza di Moro. Nessuno può dire che l'aprire una trattativa sia un mezzo sicuro per riaverlo libero dal “carcere del popolo”. Nessuno conosce il programma del gruppo che lo tiene. Le incognite sono troppe perché si possa pagare, e al buio, un prezzo tanto alto. Infine c'è un'ultima ragione, forse la più profonda. Dire di no subito, rifiutare ogni contatto con l'universo del terrorismo, consente di alzare una barriera psicologica contro tutto quel che può venire da quel mondo: altri messaggi, altre lettere “estorte”, “confessioni”, “documenti processuali”. Accreditare le Br come partners di uno scambio darebbe invece credibilità a figure, voci, propositi che non possono e non debbono averne. Alla luce di queste ragioni, la Dc ha maturato il suo “no”. Qualcuno ha osservato la cautela osservata dal “Popolo” nel titolare la prima pagina di ieri (“Vivissima emozione... Unite le forze democratiche”) e si è notato che il sommario parlava soltanto “di respingere la logica dei terroristi”. La porta, dunque, rimane socchiusa? Esistono ancora opinioni diverse nel partito? La risposta che viene da molti dirigenti democristiani è netta: "Non esistono 'falchi' e 'colombe'. Tutto il partito si riconosce in quel rifiuto. E la Dc non cambierà linea". E' la verità? Per ora sembra di sì. Scriviamo “per ora” a ragion veduta. Lo abbiamo già detto: questa è una storia lunga e dura, e siamo appena agli inizi. C'è il dramma di una persona, del “cittadino Moro”, che è disumano considerare condannata alla pena capitale. E possono svilupparsi iniziative estranee al sistema dei partiti e agli organi dello Stato. La crudeltà della vicenda sta anche in questo labirinto nel quale vita e morte si confondono ad ogni passo.

Alle Br nessuna tregua
Intervista a Luciano Lama segretario della Cgil

Mario Pirani, la Repubblica 7 aprile

Roma - "Quelli che abbracciano la teoria "né con lo Stato né con le Br" non possono far parte della Federazione sindacale unitaria: o se ne vanno o debbono essere messi fuori".

Così afferma Luciano Lama in una nuova intervista al nostro giornale. Il segretario generale della Cgil giudica negativamente l'idea di organizzare dei gruppi operai di vigilantes, ma afferma anche:"Siamo in un momento drammatico di scelta come durante la lotta antinazista. Se polizia e carabinieri sono scarsamente efficienti, questa è una ragione di più per intervenire".

Deve prevalere una concezione omogenea dell'impegno sindacale contro il terrorismo. Fra noi e la violenza, fra le Br e la classe operaia, ci deve essere la stessa frattura politica e ideale che c'era tra partigiani e brigate nere. Non è più tollerabile qualsiasi firma ambigua di connivenza con la pratica della violenza e del terrorismo".

Lama ha anche sottolineato il nesso tra lotta contro la violenza e comportamenti sindacali a proposito delle polemiche sollevate dall'intervista di Benvenuto sull'Alfa.

"Benvenuto ha perfettamente ragione e chi lo attacca non solo non condivide la linea approvata all'Eur, ma dimostra di non capire che cosa dev'essere il sindacato oggi, di non capire che con la nostra forza possiamo fare del bene, ma anche un gran male a questo paese!".

Luciano Lama ancora una volta risponde senza mezzi termini alle nostre domande e coglie senza perifrasi diplomatiche la connessione che vi è tra lotta contro la violenza e comportamenti sindacali. Da questo punto di vista le reazioni all'ultima intervista del segretario della Uil sono un test estremamente significativo. Una bordata di critiche ha accolto, infatti, la sua richiesta di un impegno di fondo per salvare l'Alfa Romeo consentendo una libera ripresa della mobilità interna e degli straordinari in cambio di un continuo controllo del sindacato sulla situazione economico-produttiva della società, attraverso un comitato di emergenza con poteri di verifica sia sui bilanci che sull'andamento aziendale.

"Non so se l'idea del comitato di emergenza sia proprio la più valida. Ma il problema non è questo. La proposta di benvenuto va giudicata in un contesto che vede il terrorismo all'attacco per sovvertire i pochi punti di equilibrio che ancora ci restano, per gettare il paese in un caos rovinoso da cui uscirebbe solo un ordine autoritario di destra e non certo una palingenesi rivoluzionaria. Ebbene, in una situazione del genere chi respinge ogni iniziativa di risanamento economico, finisce per produrre il combustibile sociale, il brodo di coltura, delle brigate rosse".

Non le sembra che i critici di Benvenuto, in primo luogo i tre segretari della Fim, Galli (pci), Mattina (psi), e Bentivoglio (dc), siano preoccupati che all'Alfa come in altre aziende, un'eccessiva disponibilità del sindacato porti ad una perdita delle conquiste realizzate dal sindacato dal '68 in poi?

"La linea dell'Eur, di cui l'iniziativa di Benvenuto è la logica prosecuzione, trova alcune resistenze soprattutto a livello di categoria (a Milano fra i metalmeccanici sembra si delinei viceversa un consenso). In realtà questo è il frutto di un malinteso spirito di difesa dei valori da conservare, che porta a confondere posizioni superate, pseudo conquiste incompatibili con la situazione e conquiste reali che, invece, vanno mantenute e difese. Alcune reazioni denotano una assoluta mancanza di capacità selettiva e quei compagni che si ergono a gelosi custodi di certe conquiste, come se avessero un tesoro dentro uno scrigno da conservare, non si accorgono che montano la guardia ad un mucchio di cenere. Ma si vogliono una buona volta rendere conto che quando una fabbrica come l'Alfa - e non solo l'Alfa ma tante altre aziende pubbliche e private - perde 140 miliardi all'anno e più di 700 mila lire su ogni auto prodotta, l'unica cosa da fare è d'impegnarsi davvero ad aumentare la produttività? A meno che non si abbia in mente un'inattuabile e assurda prospettiva protezionistica. I critici della linea dell'Eur sembrano ignorare che il potere sindacale deve essere utilizzato per controllare seriamente l'organizzazione del lavoro, per costringere il patronato assenteista ad una politica d'iniziativa produttiva, ma non certo per difendere principi superati che portano alla paralisi e alla morte delle aziende. Quando fabbriche e società perdono miliardi e miliardi ogni anno, o si contribuisce a risanarle oppure è più onesto dire che le si vogliono far vivere parassitariamente alle spalle di altri operai e di altri imprenditori".

Non mancano da parte della sinistra sindacale critiche d'altro genere. In particolare in varie assemblee è emersa una certa riluttanza ad impegnarsi contro il terrorismo. Come pensa si debba rispondere a chi teme un appiattimento eccessivo del sindacato a difesa di questo Stato?

"Il dissenso all'interno delle nostre file è più che legittimo e così la critica al governo e al malgoverno. Ma non è questo il punto: lo Stato rappresenta valori costituzionali essenziali e in primo luogo le libertà democratiche e sindacali che ci siamo conquistati. Per questo pensiamo che coloro i quali abbracciano lo slogan "né con lo Stato né con le Br" non possano far parte della federazione unitaria: o se ne vanno o debbono essere messi fuori". Anche se in forme meno rozze, il rifiuto di identificare l'impegno democratico con la difesa dello Stato è, però, un tema anche al centro del dibattito culturale.

Da questo punto di vista la sua posizione non rischia di apparire troppo drastica?

"Sarà forse perché non mi considero un intellettuale che non riesco in questa vicenda a sentirmi neutrale. Appartengo a una generazione che ha assorbito il principio dell'impegno civile e politico dalla famiglia, dalla lotta partigiana, dalla battaglia politica e sociale. Siamo una generazione che non ha mai fatto del suo pericolare la sua ragione di vita. Per questo non posso confondere la paura con il coraggio o accettare che la paura diventi una bandiera su cui si misura il livello civile. Quando gli intellettuali, gli scrittori, i poeti, discutono attorno a queste cose, le loro opinioni sono discutibili come quelle di qualsiasi cittadino. Non essere d'accordo con Sciascia o Moravia in questi campi non può diventare un peccato mortale". A volte l'impegno del sindacato contro la violenza si riduce ad una petizione di principio, tanto è vero che in certe agitazioni forme “dure” di pressione vengono utilizzate tranquillamente.

Ad esempio come vanno giudicate le espulsioni dei dirigenti aziendali durante l'ultima vertenza Italsider?

"Sono episodi di violenza estranei allo spirito del sindacato, così come lo sono le violenze compiute in alcune assemblee per togliere la parola ai sostenitori della linea dell'Eur."

Nei giorni scorsi lei ha detto che se centomila lavoratori aprissero gli occhi e si guardassero attorno, le cellule dell'eversione brigatista sarebbero assai più facilmente individuate. Pensa forse ad un corpo di centomila vigilantes operai?

"No, affatto. Vigilantes o comitati di fabbrica restringerebbero un'azione che dev'essere di massa e la più generalizzata possibile per isolare e sconfiggere il terrorismo e la violenza. E' un impegno che deve partire dal riconoscimento che aree importanti di cittadini, anche se non simpatizzano per le Br, si considerano però neutrali. Quanti son pronti a dare l'allarme e a non voltare invece la testa dall'altra parte se vedono qualcuno tirare una molotov o nascondere la pistola sotto al maglione? Quanti per indifferenza o paura evitano di denunciare i violenti? Ebbene è ora di dire che un lavoratore che si comporta così no è un collaboratore cosciente e finisce per collaborare con l'eversione. Occorre invece una partecipazione di massa ed anche individuale per salvare le istituzioni così gravemente minacciate".

Ma questo non è compito della polizia e dei carabinieri?

"Oggi siamo in un momento drammatico di scelta come durante la lotta antifascista e nazizta. Il compito è di tutti e di ognuno, e se polizia e carabinieri sono scarsamente efficienti, questa è una ragione di più per intervenire. Quella che deve prevalere è una concezione omogenea nell'impegno conto il terrorismo nel sindacato. Fra noi e la violenza, fra Br e classe operaia ci dev'essre la stessa frattura politica e ideale che c'era tra partigiani e brigate nere. E come non è neppure concepibile che in una assemblea democratica qualcuno si alzi per giustificare il fascismo, così non è più tollerabile qualsiasi forma di ambigua connivenza con la pratica della violenza e del terrorismo".

Non teme, però, che anche con le migliori intenzioni, ci sia il pericolo di trasformare il sindacato in un puro supporto delle istituzioni e di stemperare ogni sua capacità rivendicativa nei confronti del governo?

"Se limitassimo la nostra azione solo alla lotta contro il terrorismo faremmo un regalo proprio ai dissennati teorici delle Br. Noi dobbiamo invece riprendere subito l'iniziativa per l'occupazione, il Mezzogiorno, gli investimenti. Abbiamo bisogno assoluto di alcuni risultati concreti e fisseremo le linee di lotta nel direttivo della federazione unitaria la settimana prossima".

Da parte di alcune componenti della federazione, specialmente dalla parte della Cisl, vi viene mossa la critica di un eccessiva propensione ad appoggiare il governo perché è sostenuto dai comunisti. La questione verrà risollevata certamente anche nelle prossime riunioni. Come risponderete?

"Certamente riconosciamo che il quadro politico odierno costituisce una premessa per una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi dei lavoratori. Ma detto questo, il giudizio resta affidato ai fatti concreti. Il programma ultimo di Andreotti contiene affermazioni di principio assai migliori di quelle che ci erano state presentate in un primo momento. Il problema a questo punto è quello degli strumenti operativi e della gestione immediata. Vogliamo sapere con precisione quanti miliardi ci sono realmente da spendere nel '78 e in quali settori, vogliamo che vengano realizzate svolte effettive nelle partecipazioni statali, che si fissino i programmi di possibile risanamento delle imprese, che ci venga presentato un vero piano chimico con una definizione del problema Montedison, che si avviino alcuni progetti di sviluppo agricolo e industriale nel mezzogiorno. Non vogliamo indeterminati elenchi che lasciano il tempo che trovano, ma precisi impegni di gestione. Su questo siamo pronti a chiamare il sindacato a lottare".

Intervista a Scalzone, uno dei leader della linea dura del movimento.
Che cosa vuole autonomia

Stefano Jesurum e Carlo Rivolta, la Repubblica 12 aprile

Non vi sembra, voi dell'Autonomia, di avere fini e obiettivi concomitanti con quelli dei terroristi? Non vi ritenete dei fiancheggiatori?

"Se per obiettivo intendiamo i fini generali, cioè quello che è dichiarato nel manifesto dei comunisti, “sovvertire violentemente l'ordine sociale esistente”, se cioè parliamo in senso generale e ideologico della finalità rivoluzionaria, indubbiamente sì. Ma il problema di fondo è che la sinistra si è sempre divisa sui mezzi, sul tipo di percorso, sull'analisi, sul tipo di valutazione della fase politica...

Ma se accettate il mezzo "violenza", è aperta la possibilità di avvitarsi in una spirale senza fine.Che differenza c'è tra chi spara in piazza, durante una manifestazione, e provoca la morte di un agente di polizia, e chi ha massacrato la scorta di Moro?

"Nei confronti della lotta armata abbiamo un giudizio che deriva da tutto quello della tradizione del marxismo rivoluzionario: siamo cioè assolutamente consapevoli della necessità dell'uso della violenza e della lotta armata come possibilità di aprire gli spazi a un processo di liberazione comunista. Si tratta in pratica di spezzare la macchina dello Stato. Questo però non vuol dire ideologia della violenza. Noi pensiamo che l'ideologia sia sempre un fatto negativo di organizzazione. Quindi, quando la violenza diventa comportamento indiscriminato, o appunto ideologia, perde i connotati dell'intelligenza. Non è più strumento di una intelligenza progettuale, teorica, messa al servizio di un processo di emancipazione proletaria. Pensiamo che il concetto di lotta armata vada nel senso che la lotta armata può significare la guerra civile dispiegata, oppure può essere l'inserimento, all'interno dello sviluppo della lotta di classe, di una serie di iniziative che accelerino ed esasperino la situazione. Evidentemente la calibratura è estremamente diversa da fase a fase".

Come si fa a protestare contro la violenza dello Stato e al tempo stesso utilizzare la violenza come mezzo per distruggerlo? Come si può difendere con la morte il diritto alla vita?

"Questa obiezione è già stata sollevata ad esempio da Bernard Levy, ma, anche se non si tratta di una posizione da liquidare come riedizione del legalitarismo tradizionale, non la condivido. A me viene subito in mente un'affermazione un po' rozza, forse da comizio, ma efficace. Pensate, per esempio, ad un proletario che si metta a ragionare sui 600 mila morti della guerra del '15-'18. Quale insurrezione, quale guerra civile, anche delle più sanguinose avrebbe provocato il dissanguamento del proletariato in Italia paragonabile a quel periodo storico? Per non parlare delle statistiche sugli incidenti mortali sul lavoro. In Italia ogni giorno muoiono 8-9 proletari in 'incidenti sul lavoro'. Francamente mi sento molto più diminuito e comunque colpito, e lo dico senza demagogia, dall'operaio anonimo che cade nella vasca dell'acido solforico che non, al limite, dallo stesso compagno che cade nelle piazze".

Gli incidenti sul lavoro sono certamente gravi e deprecabili e ogni sforzo per rendere il lavoro più sicuro va fatto. Ma l'argomento che lei porta non ha molto peso. Con la stessa logica si potrebbe deprecare e attribuire al sistema il fatto che gli incidenti stradali o qualunque altro tipo di incidenti colpiscono di più le classi più numerose e proletarie della popolazione. Che senso politico può avere un ragionamento di questo genere? Comunque, secondo lei, a secondo di come si muore, la vita ha un valore diverso?

"In un certo senso sì, anche se andremmo, parlando di questo, a sconfinare in termini filosofici. La violenza - anche nella forma preordinata militare - esercitata dai proletari per abbattere la forma sociale capitalistica ha un contenuto diverso da quella opposta, ha un contenuto di liberazione".

C'è un problema su cui voi non vi misurate onestamente. A prescindere da qualunque giudizio politico è evidente che l'ingresso del Pci nell'area del governo garantisce allo Stato, quale esso è oggi, un consenso certamente più vasto di quello che aveva prima. Questo proletario, a cui vi riferite, nella sua maggioranza, si riconosce nel Partito comunista. Non credete quindi che il consenso intorno alle istituzioni democratiche v'imponga di abbandonare la linea della violenza per porvi il problema di come erodere questo consenso e coagularlo intorno a voi?

"Ora che il campo sembra essere sgombro dagli esorcismi sulla Cia o il Kgb, ci si comincia a rendere conto che il terrorismo (chiamiamolo pure così, fuor d'ideologia) c'è, è un fenomeno organico alle società più diverse, dai simbionesi americani ai palestinesi. E' un fenomeno endogeno, quindi si tratta di passare ad un altro discorso. Il problema che io ponevo in assemblea a Roma, in termini molto spregiudicati era come, dal punto di vista dei rivoluzionari, sia possibile, dicevo provocatoriamente, un uso del terrorismo".

Ma scusi, torniamo alla questione del consenso.

"In pratica tu sostieni che, se c'è l'impressione dello sfascio di alcuni apparati, in prospettiva c'è una forza ristabilizzante. Indubbiamente oggi il Pci si presenta come unica forza in grado di legittimare questo Stato, e questo lo capiscono anche i liberali tradizionali. Ora il problema è capire se noi possiamo riuscire (e questo vuol dire abbandonare alcuni schemi estremisti) a inserirci in questo quadro della situazione in modo da impedire che il Pci funzioni per legittimare lo Stato nuovo del capitale".

Molotov, revolverate, vetrine sfasciate nelle strade. Non credete che la paura faccia arretrare la democrazia e quindi anche lo sviluppo dell'opposizione al regime democristiano che vi proponete di creare?

"C'è al fondo di questo problema la questione dell'ineliminabilità d'un atteggiamento antagonistico di classe che a volte si presenta in modo contraddittorio. Secondo me oggi convivono nelle stessa persona, addirittura nello stesso operaio, contemporaneamente un impianto ideologico favorevole al mantenimento del compromesso democratico, e un atteggiamento per cui si vede di buon occhio la pratica del terrorismo. Non perché molti operai condividano la pratica delle Brigate rosse coscientemente, ma perché a molti va bene che la gerarchia di fabbrica sia sotto tiro. E' il caso di larghi strati operai torinesi, rivelato anche da Pansa. Insomma, sono in molti a vedere queste cose non come una strategia rivoluzionaria, ma come il cacciavite dentro la macchina, come il sabotaggio delle macchine che ferma la produzione. Il problema è che gli occhiali estremisti che spesso portiamo, ci impediscono di lavorare su questa contraddizione. Io non me la sento di regalare all'avversario le masse che hanno partecipato alle manifestazioni del 16 marzo. Cioè la motivazione di sostegno delle istituzioni non era maggioritaria in queste mobilitazioni, ma la gente ha reagito ai più disparati impulsi. Che so? La paura del golpe e altro".

L'autonomia intensificherà, visto che non ha respinto al mittente il messaggio delle Br, come hanno fatto altri settori del movimento, le sue mobilitazioni e la sua azione politica nei prossimi mesi?

"Per quanto è possibile i nostri ritmi saranno indipendenti dai fatti recenti. Io credo che noi dobbiamo continuare a sviluppare la tematica del contropotere, che non deve assolutamente subire arresti. Dobbiamo far crescere il contrapotere, addirittura la controsocietà, non nel senso di una cosa separata che vive negli anfratti della società capitalistica, ma nel senso di uno sviluppo dell'antagonismo sociale. Quindi il senso non è quello di dire: c'è questa crisi, diamo una spallata e facciamola precipitare, ma interveniamoci sopra, utilizziamola, approfondiamola, rendendo irreversibile questa ingovernabilità".


Lo stato di vita di Moro e le colombe
Intervista a Luigi Pintor

G. Pansa, la Repubblica 15 aprile

ROMA -Trattare o non trattare con le Brigate rosse? Cedere ai terroristi non comporta il pericolo di far saltare quel tanto di sistema democratico che siamo riusciti a tenere in piedi? E quanti vogliono trattare, ossia le "colombe", non rischiano di diventare, loro malgrado, dei "falchi"? La storia cominciata il 16 marzo ripropone ogni giorno domande sempre più aspre. E allora andiamo a sentire che cosa risponde, dopo le prime polemiche, una "colomba" di sinistra, Luigi Pintor. Pintor ormai ha una faccia che sembra tagliata nel legno, come asciugata. "Falco colomba... - replica a bassa voce, quasi parlando a se stesso -. Sempre i soliti schemi. Non ci sforziamo mai di capire le cose. Questo è un paese dove tutti invocano lo spirito critico. Ma appena si presenta un problema, ecco che entrano in campo soltanto le grandi categorie astratte".

Va bene, partiamo dal "problema"... "La storia di Moro, con la strage e il sequestro è paurosa - dice Pintor -. Questa storia ha fatto toccare alla gente una dimensione di problemi che prima non esisteva, oppure è soltanto un episodio molto grave ma che in qualche modo rientra nella normalità.? Io credo che sia vera la prima cosa. Eppure, se leggi i giornali, se ascolti la radio, senti soltanto risposte meschine, rituali, mistificate, bugiarde, come è tutta la politica italiana. Ascoltiamo parole vuote, che non sono all'altezza dei problemi esplosi il 16 marzo".

D'accordo, Pintor, ma anche tu hai pronunciato delle parole. Hai detto che forse può essere giusto trattare con le Brigate rosse per salvare Moro. Pintor risponde:

"Per prima cosa io penso che dobbiamo uscire da questo dilemma del 'trattare o non trattare' anche perché è proprio il dilemma che vogliono imporci loro, le Br. E poi io non dico: bisogna trattare ad ogni costo e pagare qualsiasi prezzo. La mia risposta è diversa: dobbiamo fare tutto il possibile per salvare la vita di un uomo. Il possibile. Soltanto se loro ti chiederanno una cosa impossibile, allora deciderei di non farla. Non prima". "Quello che non posso accettare e voglio attaccare - dice Pintor -è il modo 'duro', da piccola Prussia, di porsi davanti al problema. Tra l'altro, è un modo bugiardo, perché la trattativa nascosta quasi certamente ci sarà. E poi la risposta prussiana diventa una copertura per le porcherie politiche: e infatti si stanno già facendo i nuovi organigrammi dentro la Dc, i democristiani già pensano al 'dopo Moro', a come spartirsi il potere all'interno del loro partito. Non solo: la linea 'prussiana' funziona da barriera per impedire l'autocritica su che cosa è questo Stato oggi. Altro che difesa di astratti principi statali! ". "Vedi - continua Pintor - forse io immagino una classe dirigente che non esiste da noi, forte, credibile. Pensa se dopo il 16 marzo chi governa questo paese avesse detto: è accaduto un fatto di enorme gravità". "Cercheremo di salvare quell'uomo, ci sono alcune cose che potremo fare e altre no, non andremo al di là di un certo limite. Allora si che, dopo aver affermato il diritto alla vita, puoi mettere in moto, e legittimamente, le difese dello Stato". "Insomma, la risposta al dramma del 16 marzo e al terrorismo dovrebbe essere data su tre livelli - spiega Pintor -. Primo: far sentire all'opinione pubblica che si è sensibili all'appello estremo di un cittadino in pericolo e rifiutare il clima da western, da ultima battaglia, che le Br ci vogliono imporre. Secondo: discutere cosa si può fare anche con i metodi tradizionali, per disinnescare la violenza. Terzo: cogliere l'occasione per accelerare i tempi di un'autocritica sullo Stato, su come in tutti questi anni si è operato di fronte ai problemi gravissimi della società nazionale".

Non pensi che trattare e poi magari cedere serva soltanto ad aprire una spirale senza fine, con altri colpi del terrorismo ed altre trattative, passando di cedimento in cedimento?

"Sì, questo rischio c'è. Ma c'è in ogni caso. Le Br fanno quello che fanno in sé, e non per ricattare, e continuerebbero a farlo comunque. E poi, te lo ripeto, io penso a tre livelli di risposta, e non soltanto alla trattativa. Il 16 marzo una sconfitta c'è stata, e con questo dato storico bisogna fare i conti". "Stai attento - mi avverte Pintor - io dico quello che dico non partendo dall'argomento che questo Stato è uno Stato di merda tanto vale... Sarebbe un argomento troppo facile, meccanico. Io lo uso nel senso contrario: dico quello che dico perché immagino che questo Stato possa essere diverso, migliore. Però ciascuno di noi deve fare la propria parte. Lo spirito di trincea non serve, soprattutto quando la trincea è di cartone...".

Tu ritieni che la gente capirebbe una trattativa per Moro? Non direbbe: perché per Moro sì e per gli altri no?

"E' probabile. Ed è quasi giusto che non capisca. Troppe volte abbiamo visto la Dc fare i propri affari, fregandosene delle posizioni di principio. Troppe volte abbiamo visto il potere politico muoversi pro domo sua, in base ad una sua logica, curandosi soltanto della propria convenienza". "Questo però non mi convince a cambiare opinione - continua Pintor -. E io lo dico proprio a te, dopo l'attentato a Casalegno, hai raccolto quei giudizi di operai davanti ai cancelli di Mirafiore. Bene: quel tipo di posizione non la ricuperi giocando alla piccola Prussia. Puoi attenuare la sfiducia della gente soltanto se gli dai un'immagine diversa dello Stato. Ed è possibile tentare di darla soltanto lavorando sui tre livelli che ti ho detto". "Siamo tutti in un angolo - dice Pintor -. Ma la posizione più sbagliata è fingere di non essere nell'angolo, di non riconoscere la 'novità' del dramma cominciato il 16 marzo. Vedi, per tutto gennaio e febbraio e per altri giorni ancora, abbiamo discusso all'infinito su come fare questo nuovo governo. E poi, di colpo, le Brigate rosse ti portano via l'uomo che era stato al centro di tutto". "Questo ti dà la sensazione fisica che tra il modo di essere della nostra società e la sua faccia pubblica, la sua dimensione politico-formale, non c'è più rapporto, che tutte le regole sono sconvolte. Prima ne avevamo la certezza logica, adesso lo vediamo nei fatti. Non scriviamo più il futuribile: stiamo vivendo una realtà terribile, disorientante. Per questo mi fa paura non soltanto la storia in sé, ma l'insufficienza della risposta". "E' un discorso da anrchico-individualista il mio? - domanda Pintor, con un sorriso agro -. Mi pare proprio di no. Ad ogni modo, per non correre questo rischio offro alla tua valutazione un concetto più politico. Nel dopoguerra, l'anticomunismo è servito per garantire la continuità dello Stato fascista. Adesso non vorrei che l'antibrigatismo diventasse l'alibi per assicurare la continuità dello Stato democristiano". "Il problema, dunque, mi sembra molto più complesso della formula 'trattare o non trattare', 'falchi o colombe'. Ma forse la constatazione più amara è un'altra, - conclude Pintor -. Qui siamo seduti tutti su di un vulcano che nessuno di noi controlla. Fra un'ora può succedere qualcosa, all'improvviso, per cui, questa intervista non avrà più senso e l'unica cosa da fare sarà di buttarla via".


I vescovi, spiegano perché hanno i firmato l'appello
proposto da "Febbraio '74" e pubblicato da Lotta continua
Lo Stato ora scelga il primato della vita

Domenico Del Rio, la Repubblica 22 aprile

"HO CREDUTO di interpretare esattamente l'impegno per la non violenza della nostra associazione", dice il vescovo d'Ivrea, "lo stesso impegno che viene espresso da Amnesty International e che conduce alla considerazione della centralità della vita umana. Non scendo ai particolari, i modi concreti non li saprei indicare, ma il nostro appello vuol dire un invito allo Stato Italiano a trovare il modo, pur nella salvaguardia delle sue strutture, di non sacrificare una vita umana. Questo non lo chiediamo per Moro il politico, lo statista, ma per l'uomo Moro, che in questo momento vediamo come simbolo di tutte le vite umane. Ma su questo punto, il nostro è anche un appello alle Brigate rosse. A loro che affermano di avere una visione diversa del futuro noi diciamo che una diversità non ci potrà essere se non terranno presente la centralità della vita umana". Filippo Franceschi, vescovo di Ferrara, dichiara, invece, di aver firmato per un "motivo affettivo". "La mia adesione nasce più dal cuore che dalla fredda ragione", afferma il vescovo ferrarese, "Se non avessi conosciuto il fratello di Moro, durante la mia permanenza a Roma, forse la mia pena non sarebbe così grande. Non conosco e non sento motivi politici. Questi sono estranei al mio stile di vescovo. Sono sulla stessa linea umanitaria e morale su cui si muove tutto l'episcopato italiano". Marlo Magrassi, il nuovo arcivescovo di Bari, dopo la partenza per Torino di Alberto Ballestrero, capeggia per autorità il gruppo dei vescovi firmatari pugliesi, ma è stato esitante prima di sottoscrivere. Aveva già rifiutato di firmare un analogo documento di Bari perché lo aveva giudicato troppo politico. Poi l'ha convinto il fatto che, pur partendo da diverse posizioni ideologiche, si convergeva in un atto urnanitario. Magrassi dice che il dilemma che viene posto allo Stato, "capitolare o no", è un dilemma che si pone anche dentro di lui come un'acuta sofferenza. Tuttavia, sostiene il vescovo di Bari, "è troppo drastico ridurre tutta la questione all'affermazione che lo Stato non deve cedere. E' dovere dello Stato anche non rinunciare a salvare l'uomo". Aldo Garzia, vescovo di Molfetta, ha già aderito con un telegramma a un altro appello pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno". A questo secondo appello ha aderito "per solidarietà umana e cristiana". "Non posso approvare questo assolutismo di Stato", prosegue il vescovo, "per me ciò che è importante è che si salvi una vita umana. Come, ciò in concreto si possa fare, io non lo so, ma ci saranno pure le persone adatte che sapranno risolvere questa drammatica situazione". "E' importante porsi sulla via delle trattative", sostiene Salvatore Isgrò, vescovo di Gravina, fratello di un ex deputato sardo moroteo, "senza, tuttavia, cedere a ricatti assurdi". Quali potrebbero essere i ricatti assurdi? "Quello, per esempio, di un riconoscimento ufficiale delle Brigate rosse da parte dello Stato. Ma se chiedessero denaro, immunità per qualcuno, ospitalità in altri paesi, non vedo perché non si dovrebbe trattare". Giuseppe Carata, vescovo di Trani e Barletta, da giorni gira i grossi centri della sua diocesi per organizzare riunioni di preghiere per la salvezza della vita di Moro. "Oltre tutto, è mio concittadino" dichiara il vescovo, "bisogna trovare una via privata, amichevole, per esempio la Santa Sede". La posizione del vescovo Carata è, infatti, intransigente per quanto riguarda l'atteggiamento dello Stato: "Lo Stato non deve trattare col suo personale nemico. Qui siamo di fronte a forze occulte, misteriose, che non usano la ragione, ma che mettono a repentaglio la vita della nazione. Lo Stato devo difendersi, perché lo Stato siamo tutti noi". Anche Michele Mincuzzi, vescovo di Santa Maria di Leuca, sostiene la non abdicazione dello Stato, ma a un certo punto il suo discorso prende una direzione tutta particolare, quella della giustificazione cristiana del sacrificio di una vita umana. "Gli italiani sono famosi per trovare sempre soluzioni brillanti", commenta il vescovo, "ma questa volta ci troviamo tutti a brancolare nel buio. E' chiaro, per me, che lo Stato non deve trattare. Si tratta tra eguali, tra chi ha la stessa dignità, non con chi si pone contro la nazione, con chi ferisce la comunità nazionale. E, tuttavia, io spero ancora di ottenere l'impossibile, forse l'inimmaginabile. Ma anche se ciò non avvenisse, cerco di capire questo mistero. Conosco Moro da 35 anni, il Moro cristiano che celebrava l'eucarestia tutti i giorni, cioè celebrava la passione di Cristo, e quindi sapeva portare dentro di sé questa dimensione drammatica cristiana. Io adesso immagino di dialogare con lui, con l'uomo intatto, non manipolato dalle Brigate rosse, e mi sento chiedere da lui come deve comportarsi, e io non so suggerirgli altro che la parola di Cristo: non c'è amore più grande che donare la vita per i propri fratelli. Io sono sicuro che la risposta a tutte le domande laceranti che ci poniamo in questo momento si trova nel cuore stesso di Moro. Se lui potesse parlare liberamente, direbbe: non pensate a me, io sono pronto al sacrificio, pensate al bene del popolo, continuate voi a vivere". Sul Moro manipolato e pronto al sacrifIcio non sembra, invece, d'accordo Gianni Baget Bozzo, uno dei più noti firmatari dell'appello, che sulla trattativa sta costruendo una sua filosofia politica. "Condurre le Br sul terreno della trattativa, non avendo ora alcun mezzo per isolarle e batterle militarmente", sostiene il teologo genovese "è una scelta politica, che rientra nei compiti e nella figura dello Stato. Aldo Moro si è sforzato di fare comprendere questa logica: e ritengo una menzogna il tentativo di fare passare delle tesi lucide mere estorsioni di una pesonalità moralmente distrutta. Rifiutare di trattare vuol dire dividere in due il paese, su un piano di principio. E i principi che si oppongono sono, da un lato, una concezione astratta dello Stato, che non può non isolarsi nella veste insostituibile del suo ordinamento, nato dalla Resistenza, dalla "ribellione per amore", e fondato sul primato della persona".


 

 

 

 

 

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