SU LA GUERRA Luigi
Pintor
Domande
il Manifesto - 27 ottobre 2001
Da quando è cominciata questa
guerra mi sforzo di leggere con più attenzione i
giornali che la sostengono e che si identificano con gli
americani che la combattono e la guidano. Spero di
ricavarne dei lumi, lo dico senza ironia, perché
dovrebbero avere più informazioni e i migliori argomenti
per convincere l'opinione pubblica che siamo sulla strada
giusta. Ma, di nuovo senza ironia, mi deludono.
Ieri hanno registrato tranquillamente che forse bin Laden
non verrà mai catturato né vivo né morto. Ma siccome
era questo uno degli obiettivi della guerra, anzi il
principale nell'immaginario collettivo, speravo che mi
spiegassero cosa significa questa bizzarra dichiarazione
di quel ministro americano. Come si fa a sconfiggere il
terrorismo senza decapitarlo?
Il Pentagono ha indetto un pubblico concorso per avere
risposte a questa domanda e i giornali hanno registrato
anche quest'altra bizzarria senza fare una piega. Dunque
Bush e la Cia non sanno bene cosa fare e questo può non
sorprendere me, che ricordo l'elezione di quel presidente
e che della Cia non ho mai avuto stima. Ma i giornali che
sostengono e giustificano la guerra non sono preoccupati?
Continueremo con i bombardamenti anche negli ospizi e
anche durante il ramadan e con l'inverno i profughi
moriranno di freddo oltreché di fame, questa è l'unica
certezza che ricavo leggendo i giornali. E' dunque una
guerra contro la popolazione civile per demoralizzarla e
sconfiggere di conseguenza il regime talebano insediando
chi a Kabul? Ignorante come sono di strategia e tattica a
me sembra un'idea infantile oltre che feroce. Le montagne
e le trincee afghane mi ricordano maledettamente le
paludi vietnamite e mi par strano che questo sospetto non
sfiori i nostri esperti commentatori.
Non temiamo di seminare nuovo odio più che
demoralizzazione? E' molto pericoloso, continuare a dire
che questa guerra sarà lunga (giustizia infinita) senza
farne intravedere un esito vittorioso o un esito
comunque. Questo sì può essere demoralizzante, non per
il nemico però ma per noi e per gli americani, anche
ammesso che il carbonchio resti nei limiti.
Non temiamo che l'amministrazione americana, per uscire
da questo vicolo cieco, faccia di peggio e varchi ogni
limite come ha già fatto Sharon? Non ci preoccupa che
non ci sia un'idea, un progetto politico per il futuro,
ci fidiamo della solidarietà di Putin e dei campioni
cinesi dei diritti umani? Quale libertà duratura
intravediamo e per chi? Se non volete saperne di cessare
il fuoco e di cercare altre strade e vi pare necessario e
sufficiente sfilare con le bandiere americane fatelo. Ma
forse gli amici americani non hanno bisogno di
incoraggiamento quanto di saggi consigli. Dategliene
qualcuno, voi che avete ascoltato, partecipate al
questionario del Pentagono.
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SU LA GUERRA Continua la guerra
Luigi Pintor
L
a signora Albright
ha detto: a che ci serve tutta questa potenza di fuoco se
non la usiamo? I generali Nato dicono: possiamo
continuare per mesi, metteremo Milosevic in ginocchio. Il
presidente Clinton manda gli apaches, accumula forze
terrestri e fa intendere qual'é il dilemma: o la resa
incondizionata del nemico o il suo annientamento. Henry
Kissinger, per il quale la guerra in Vietnam era una
scaramuccia che i libri di storia avrebbero ignorato,
raccomanda un'invasione. E Tony Blair dichiara: questa è
una guerra del bene contro il demonio. Se questo è lo
spirito, il programma di questa guerra americana, è
difficile sperare che resti spazio per una mediazione e
una soluzione politica. Ed è difficile dar credito alle
classi dirigenti, ai governi e alle forze politiche
tradizionali europee. Forse non tutti condividono questo
bellicismo oltranzista ma nessuno, per calcolo o per
sudditanza e impotenza, lo avversa. La causa della pace,
o anche solo di una tregua, è affidata a minoranze
volenterose, all'opinione pubblica generalmente intesa, a
un'insorgenza della coscienza civile. La propaganda di
guerra tuttavia infuria e stordisce, prevale con fragore
sulle invocazioni di pace e oscura ogni ragione. Mi
ricorda infallibilmente l'euforia e perfino la frivolezza
seminate ai tempi delle guerre etiopiche o della
dichiarazione di guerra alla Francia. Beato chi non ha
respirato in passato quell'aria che oggi riprende a
circolare in un altro contesto ma con lo stesso veleno.
Beato e disgraziato, perché è preda di un inganno di
cui non conosce i prezzi
Molti hanno creduto, in buona
fede, alla motivazione umanitaria dell'intervento armato.
E continuano assurdamente, in buona o in cattiva fede, a
crederci pur avendo sotto gli occhi una tragedia epocale:
quella moltitudine dannata di profughi che le nostre
bombe hanno ingigantito dieci volte, sommandosi alla
guerra civile e alle crudeltà delle milizie serbe.
Molti forse sospettano che il
rimedio sia stato e sia peggiore del male, ma pensano che
sia giusto punire il colpevole, come se ci sia un solo
colpevole più colpevole, eliminato il quale tutto andrà
a posto. Ma noi non stiamo abbattendo un capo o un regime
politico, stiamo bombardando una nazione e un popolo. E'
una logica simile a quella della pena di morte, applicata
su larga scala, insieme alla presunzione di una
democrazia esportata con la forza.
Molti si tranquillizzano
sentendo dire che sarà possibile riportare un milione di
disperati nella loro terra bruciata, come se non si
trattasse di un'umanità privata di tutto, ma di una
mandria da ricondurre entro i recinti. Oppure di relitti
da disperdere ai quattro venti, dove nessuno li vuole
adesso come non li voleva prima. Intanto muoiono, con
un'assistenza umanitaria dell'opulento occidente che
costa meno di un missile.
Molti (chiunque abbia meno di
sessant'anni) non hanno mai visto scorrere il sangue in
Europa, pensano che sarà poco e che non lascerà tracce.
Lascerà invece per lo meno un grande odio nel cuore del
continente. Le città e le campagne che stiamo
bombardando, anche se pochi osano ricordarlo, hanno
combattuto una guerra di liberazione contro i fascismi
tedesco e italiano e vivono l'aggressione di oggi con
questa memoria.
Molti si sentono comunque
garantiti perché siamo dalla parte del più forte. Il
mito americano è duro a morire, c'è più ammirazione
che repulsione per la potenza di fuoco e la precisione di
tiro americana. E se un errore millimetrico farà saltare
in aria una clinica ginecologica non lo sapremo o lo
sapremo troppo tardi. Forse allora l'ammirazione lascerà
un po' di posto alla commozione.
Molti vedono ancora la Nato
come un bastione anticomunista anche se nessuna minaccia
grava sull'occidente, salvo quelle che l'occidente sta
costruendo da sé con l'idea folle di un mondo a
sovranità limitata, di un protettorato riservato ai
quattro quinti dell'umanità. Se sento la Cina dire che
questa filosofia porta diritti alla terza guerra mondiale
rabbrividisco, e vorrei che questo brivido contagiasse il
mondo.
Molti non si accorgono ancora
del nesso inscindibile che corre, e che già ci umilia,
tra questa guerra e l'infrangersi del "sogno
europeo". Questo sogno, lungamente vagheggiato in
competizione col sogno americano, ha rivelato in un
attimo la sua fragilità e inconsistenza. La nuova Europa
ha perso coscienza di sé prima di nascere.
E' difficile contrastare la
propaganda di guerra e le spirali che induce, farlo con
il ragionamento o con la protesta, smontare questo
pauroso ingranaggio contro cui cozza e diventa flebile
anche la voce papale. E' un compito oggi minoritario ma
che può, rifiutando ogni etichetta di parte, risvegliare
una maggioranza democratica di donne e uomini. Almeno
qui, in Italia, ai confini della tragedia. Si può anche
credere che la guerra sia connaturata all'uomo ma non
fino a questo punto. Non è alla nostra portata riempire
tutte le piazze del mondo, ma anche una sola sarebbe
molto. Ci abbiamo già provato e continueremo a provarci.
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SU - LA GUERRA SOLE CHE SORGI di Luigi
Pintor -
(c) IL MANIFESTO 09/11/01
L' entrata in guerra è
ovviamente una scelta di politica internazionale per
avere un posto al sole, che splende anche sui cimiteri.
Ma è prima ancora una scelta di politica interna
pienamente conforme alla natura e alla mentalità del
governo in carica.
Noi siamo abituati a considerare Berlusconi come un
affarista di pochi scrupoli e basta. Ma è un
napoleonide, una personalità tronfia, che da tempo non
si accontenta di un impero televisivo e finanziario e ne
rifonderebbe volentieri un altro sui colli fatali. Questa
guerra d'oltremare è il battesimo militare della
vittoria del 13 maggio, con tanto di prigionieri
incatenati al carro di trionfo.
Pensate alla smisurata felicità di Gianfranco Fini. Vede
avverarsi i suoi sogni di ragazzo, l'Italia è tutto uno
sventolio tricolore, anche la plutocrazia americana è
relegata sullo sfondo, la nostra flotta solca il mare
nostrum e l'onore della Folgore non è più appannato
dagli incidenti di caserma. Il ragazzo imborghesito e
sdoganato quasi non crede ai propri occhi.
C'è qualche aporia, l'adunata oceanica promossa da
Giuliano Ferrara vedrà forse sventolare qualche bandiera
padana ma è folklore nazionale anche questo. Il
lombardo-veneto ritrova la vocazione risorgimentale. Il
nemico è comunque extracomunitario e Bossi potrà
finalmente bombardarlo sul posto.
Chi disturberà più il manovratore in queste
circostanze? Chi anteporrà le piccole beghe di casa
nostra agli imperativi della guerra? I cingoli dei carri
armati seppelliranno nella polvere le rogatorie, i falsi
in bilancio, gli abusi edilizi, le scorribande
giudiziarie, scolastiche, sanitarie.
Il partito Ds potrebbe cogliere la palla al balzo e
sciogliersi già nell'imminente congresso. Era ridotto a
una larva, ora è un ascaro addetto alle salmerie e alla
manutenzione degli incrociatori. E matura una fusione non
con Amato ma con De Michelis. Rutelli era un radicale
perché non c'era ancora la casa della libertà, ma ora
parla come Frattini e l'ulivo si chiamerà presto
cipresso.
Il governatore Ciampi canterà in primavera all'Arena di
Verona l'Elmo di Scipio
con le scolaresche e gli insegnanti di religione dello
Stato. Ma in primavera, dopo l'inverno afghano, può
essere azzardato. Anticiperei e suggerirei comunque di
intonare Sole che sorgi libero e
giocondo sui sette colli i tuoi cavalli doma tu non
vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma.
Perlomeno è musica di Puccini, credo.
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http://www.namir.it/drittosinix/libro.htm |
SU IL GOVERNO BERLUSCONI La parabola
LUIGI PINTOR
Silvio Berlusconi e il suo governo hanno dissipato nel
breve giro di un anno una dose cospicua del consenso e
del credito che gli elettori gli avevano accordato.
Questo non vuol dire che cadranno domani o dopodomani,
conservano un grande potere e gli spiriti animali che
incarnano sono indomiti. Ma qualche osservatore attento
comincia a dubitare che questa legislatura possa durare
cinque anni filati. Hanno proceduto finora come se
l'investitura elettorale fosse una cambiale in bianco e
un'assicurazione sulla vita che li autorizzava a
qualsiasi comportamento. Ma i meccanismi della politica
non funzionano così, in una società complessa e in un
regime formalmente democratico. La parabola discendente
del centro-sinistra è durata cinque anni, quella dello
schieramento di destra è con evidenza molto più veloce
del previsto.
Da qualche mese in qua il
personale politico di questo governo offre una pessima
immagine di sé anche all'opinione pubblica meglio
disposta e il presidente del Consiglio infila una gaffe
dopo l'altra, come accade quando si perde la bussola. Non
è più l'argonauta indiscusso neppure all'interno della
sua nave e la sua maggioranza cigola rumorosamente anche
se non si spaccherà verticalmente come otto anni fa.
Delle due facce della
coalizione governativa (non è il caso di chiamarle
anime), quella populista e demagogica e quella padronale
e autoritaria, la seconda ha preso nettamente il
sopravvento assumendo perfino i connotati forcaioli
bossiani. Non è una faccia in cui l'elettorato moderato
si riconosca volentieri e non esprime forza ma debolezza.
La riforma del mercato del
lavoro, che sotto questa orribile dizione contrabbanda
una brutale mercificazione delle persone, ha svelato il
gioco. Ma è stata preceduta e accompagnata da un
ventaglio di decisioni e atteggiamenti che hanno
allarmato non solo i ceti più esposti della società ma
la coscienza democratica generalmente intesa: decisioni
personalistiche e scelte discriminatorie che è perfino
inutile rielencare, che spaccano il paese e esautorano le
istituzioni rappresentative.
Il capo del governo non si
rende evidentemente conto del mutamento di clima politico
e delle assurdità che ha detto ieri. Considera una gita
a pagamento la più grande manifestazione di massa della
storia repubblicana, chiama clown chi lo critica,
pretende di dialogare con i sindacati continuando a
denigrarli, nasconde sotto il tappeto i cocci delle risse
ministeriali, esalta la propria popolarità come non
farebbe un piazzista, invoca la lotta contro un pugno di
terroristi che la sua politica non sa fermare. E di
fronte allo sciopero generale, evento impensabile fino a
ieri e rarissimo nella storia nazionale, si appella agli
artigiani.
Non cadrà domani, lo sappiamo.
Ma ha già ottenuto il miracoloso risultato di
risvegliare contro di sé una opposizione addormentata e
nuove energie impreviste. I processi politici, a
differenza di quelli penali, sono oggi molto più veloci
che in passato. Il paragone è improprio, ma perfino a un
presidente americano plebiscitato è capitato di
dimettersi in lacrime prima della scadenza del mandato
per aver detto troppe bugie.
il manifesto - 23
Marzo 2002 prima pagina
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SU IL GOVERNO BERLUSCONI Contiamoci
LUIGI PINTOR
E se invece piove? Non importa, oggi c'è lo stesso il
sole. Non è una previsione meteorologica. E' una
affermazione di principio, una verità politica.
Parteciperemo oggi alla più grande manifestazione
popolare degli ultimi anni e decenni. Grande per
dimensione e per qualità, per le motivazioni che la
animano, per le motivazioni che la animano, per la forza
tranquilla che esprime, per la giusta causa che la ispira
e la sostiene.
Non è una manifestazione sindacale, non è una
manifestazione di una parte politica, non è una
manifestazione di opposizione comunemente intesa. E' più
di ciascuna di queste cose. La gente che oggi si incontra
viene da ogni angolo del paese e rappresenta grande parte
della società. E' un risveglio della coscienza
democratica e civile del paese.
Non è una sommatoria confusa di rivendicazioni parziali.
Ha un cuore, un cardine, un epicentro. Riflette un
conflitto sociale generalizzato, che accomuna ceti
sociali diversi per riaffermare (più che difendere)
diritti inalienabili: i diritti del lavoro e quindi delle
persone. Perciò non è solo un punto d'arrivo, rispetto
alla diaspora sociale e alle sconfitte politiche di
questi ultimi anni e mesi, ma un nuovo inizio. Non è una
fiammata e avrà nello sciopero generale un'altra tappa
di un lungo percorso.
Il governo di destra, che non governa ma comanda, fa bene
a non temere la piazza. La piazza è una sede della
sovranità popolare che non intimidisce e non odia. Ma
fanno male, questi governanti presuntuosi e prepotenti, a
ignorare il dissenso e l'opposizione che incontrano.
Questo dissenso e questa opposizione non provengono da
questo o quel partito, da questo o quel leader
istituzionale, da questo o quello spezzone del movimento,
ma dal corpo sociale. E si incontrano con la delusione
che le politiche governative seminano anche
nell'elettorato moderato.
Ha ragione, l'on. Berlusconi, il terrorismo non fermerà
nessuno. Alimenterà il peggio. Ma arrestateli, questi
epigoni di nulla, invece di farvene schermo. Contro ogni
terrorismo sarà più eloquente ed efficace la
manifestazione di oggi che non tutti i vostriservizi e le
vostre polizie e le vostre declamazioni messe insieme.
Sarà invece il protagonismo sociale, la lotta politica
democratica, possibilmente una sinistra che ritrova le
sue ragioni fuori dai giochi di palazzo, sarà questo
possibile risveglio che vi fermerà. Contateci. Noi ci
contiamo. Non come numeri (sebbene anche) ma come
volontà, intenzioni, buone speranze.
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SU I GIROTONDI Girotondi
LUIGI PINTOR (Il manifesto del 24 febbraio 2002)
C'è stato un
altro girotondo, ieri a Milano come l'altro ieri a Roma.
Ma non sono girotondi e neppure grida di dolore o di
nostalgia per la rivoluzione di mani pulite. E non
obbediscono a nessun ordine di scuderia o cartoline rosa
di partito. Sono raduni di persone in carne e ossa che
esprimono un comune bisogno di democrazia di fronte a un
clima politico degenerato e asfissiante.
Sono destinate a moltiplicarsi, queste manifestazioni,
perché hanno una radice e una motivazione profonda. La
guardia è stanca, apre le finestre e vuole respirare.
Tra un mese a Roma ci sarà un milione di gente, come
accadde in un piovoso 25 aprile in piazza del Duomo o al
Circo massimo capitolino in un giorno di sole. E il 5
aprile il mondo del lavoro, su cui è fondata la
Repubblica e a cui dobbiamo ricchezza e libertà, si
fermerà dimostrando che non si può governare contro di
esso e neppure esistere politicamente voltandogli le
spalle.
E' buffo che qualcuno sui giornali oppure negli stenditoi
dei palazzi, non solo a destra ma anche nella supposta
sinistra, accusi di radicalismo, massimalismo,
ideologismo, vanità, questo nuovo protagonismo sociale.
Sono istanze, domande, rivendicazioni assolutamente
elementari e semmai minime che vengono rimesse in campo
dalle classi subalterne sacrificate, da ceti intermedi
avviliti, da masse giovanili che si vorrebbero
rincretinite, dai marginali trattati come schiavi, da
città irrespirabili. Non c'è in giro oggi una malattia
infantile estremista, c'è una malattia senile della
politica istituzionale che la destra vuol tradurre in
regime e la supposta sinistra in pigrizia e dissoluzione.
A pochi mesi di distanza dal trionfo elettorale,
ingigantito da un sistema maggioritario intrinsecamente
truffaldino, Berlusconi è per la prima volta in
difficoltà. Può avere anche sei reti televisive
deficienti, farsi leggi su misura come fossero scarpe,
screditare come galoppini le autorità istituzionali,
esentarsi dai processi oltreché dalle tasse di
successione, monetizzare i licenziamenti come un
elemosiniere si libera dai mendicanti, ma è un populista
affamato di sondaggi e di un consenso che oggi sente
scemare nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle
piazze.
Ha purtroppo dalla sua un vantaggio di cui nessun governo
della storia italiana ha goduto, neppure i governi di
unità nazionale, e cioè di non avere un'opposizione che
faccia il suo mestiere nel paese e nelle istituzioni. La
coalizione di centro-sinistra e il maggior partito della
supposta sinistra non solo sono spettrali, ectoplasmi
puntualmente assenti a ogni appuntamento che non sia un
salotto televisivo, ma non sanno neanche guardarsi
intorno, come pipistrelli senza antenne e bassotti senza
fiuto. Aspettano che gli arrivi un progetto da qualche
ufficio studi. Forse è meglio così, perché sono tappi
di bottiglia che inacidiscono qualunque vino, scoraggiano
qualsiasi convitato, avviliscono qualsiasi speranza.
Capita di rado, ma ci sono momenti e situazioni in cui le
cose camminano da sole. Ora sta capitando. Se il
sindacato (dico il sindacato al singolare) può
proclamare uno sciopero generale non è perché sia un
gigante e il suo leader attuale un avventurista ma
perché il malessere sociale ha oltrepassato una soglia e
pone una domanda di cambiamento che solo dei cretini
possono considerare superficiale e qualunquista. Può
esaurirsi ma può anche crescere su se stessa e far
crescere anche i cretini come noi.
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SU - LA GUERRA Un
equivoco
LUIGI PINTOR
(il Manifesto 6 dicembre 2001)
Adesso leggiamo
che bin Laden si trova da dieci giorni in Pakistan. Forse
sì, forse no. Ieri l'altro guidava la guerriglia a Tora
Bora cavalcando con la scimitarra sguainata. Cinque
giorni fa giaceva nella stiva di un mercantile in
navigazione nel Golfo persico setacciato dalla flotta
italiana. Correvano due ipotesi, che si fosse sottoposto
a plastica facciale o a un suicidio televisivo per mano
del figlio, dopo aver smarrito un gioioso filmato sul
crollo delle due torri che abbiamo visto ieri in tv.
Sappiamo esattamente dov'è, disse il vicepresidente
degli Stati uniti dopo aver lanciato la bomba
tagliamargherite da otto tonnellate sulle caverne delle
montagne afghane. Le quali però, secondo Enzo Bettiza,
non sono quelle fortificazioni inespugnabili che
credevamo ma miserabili cunicoli dove non c'è traccia di
primule rosse. Forse ha ragione Igor Man, quando suppone
che il superterrorista televisivo sia soltanto un
replicante dell'ex palazzinaro saudita. Una clonazione.
Tutto può essere, una cosa è la realtà e un'altra è
quel che si vede, quel che ci viene mostrato e detto.
Questa guerra infinita è nutrita di bugie. Forse è
fondata addirittura su un equivoco, come dice ancora
Bettiza, avendo l'America sopravvalutato al Qaeda e
avendo lo sceicco invasato sottovalutato l'America (è
nato nel 1957 e non ricorda Pearl Harbor, la seconda
guerra mondiale e Hiroshima). Alla fin fine questa guerra
è quasi militarmente conclusa in tre mesi e l'antrace è
solo un cascame del prodotto interno lordo americano.
Ma se invece di essere un equivoco questa guerra mondiale
al terrorismo fosse anche un pretesto? C'è perfino
qualche serio osservatore occidentale che comincia a
domandarselo. Un pretesto, non privo di fondamento ma
enfatizzato, per giustificare qualsiasi comportamento dei
paesi più forti su scala internazionale e nelle
politiche interne, mettendo a tacere la società civile,
subordinando il diritto agli imperativi dell'emergenza,
la pace alla sicurezza, la convivenza alla convenienza o
alla prepotenza, la verità all'inganno.
La nuova dimensione assunta dalla tragedia palestinese è
il frutto più vistoso e perverso di questo
"uso" giustificazionista dell'11 settembre.
Trascuriamo pure il particolare che la terra santa è
oggi il regno di Erode. La novità è che le equazioni di
Sharon (Arafat uguale bin Laden, palestinesi uguale
terroristi) non hanno altro sbocco logico che
l'occupazione militare e la colonizzazione di fatto di
tutta la Palestina, come unico territorio e unico stato.
Una soluzione finale.
Facciamo come Bush? No, la linea di Israele è ancor più
radicale ed estrema per ciò che riguarda la sua sfera di
influenza. Fa impressione la passività o l'indulgenza
dell'occidente di fronte a questo scenario.
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SU - IL GOVERNO BERLUSCONI Carte scoperte
LUIGI PINTOR
(il Manifesto 21 novembre 20001)
L' era berlusconiana non
durerà vent'anni perché siamo per fortuna una società
instabile (senza parlare del quadro internazionale). Ma
limitandosi a valutare il gioco politico non si vede né
un'alternativa (di sostanza) né un'alternanza (di
facciata) di qui all'eternità.
L'ulivo non arriverà alle prossime elezioni. Non è più
da tempo una coalizione ma una alleanza litigiosa tra una
quercia e una margherita, chiamate impropriamente gambe,
entrambe azzoppate. Lasciamo perdere adesso la margherita
e il suo leader inventato per appeal elettorale presunto.
La quercia, l'altra gamba, più che azzoppata è
amputata.
Il partito diessino (ma che nomi, uno più infelice
dell'altro) è un dead man walking, ha deciso
congressualmente di cambiare e morire, come sinistra e
come forza popolare. Si chiamerà socialista chissà
perché ma non sarà né socialdemocratico né riformista
(lo sono tutti) ma modernamente liberista. Sarà un
partito medio, tra il 10 e il 15 per cento come il
craxiano precedente (oggi è dato al 12), che avrà come
interlocutore privilegiato il mondo imprenditoriale e si
offrirà come ceto ministeriale di ricambio.
Una scelta senz'anima, l'aridità è il dato che più ha
colpito gli osservatori. Dovranno darsi un simbolo
minerale, i vegetali sono ricchi di linfa. E' augurabile
che i vecchi dirigenti eletti al 60 per cento da un
congresso eletto dal 30 per cento degli iscritti chiudano
al più presto la pratica. Sarà la fine tardiva ma
benvenuta di un equivoco a sinistra. Spero che l'equivoco
non si protragga perché Amato ama i contestatori come
Martelli lotta continua o perché Fassino combatte da
volontario in Afghanistan come Luigi Longo in Spagna.
La minoranza interna, per quanto consistente, non ha
avuto e non avrà la forza di modificare questo esito. Se
si limiterà con diplomazia a esercitare un attrito
fallirà. Non si tratta di sostenere un'altra linea in un
quadro di "valori condivisi", che non esiste,
ma di scompaginare le carte molto oltre i confini
ristretti di un ex partito. Sono in gioco concezioni
diverse e opposte di società.
E' vero che per Bertinotti si apre una prateria. Ma non
so se sia disposto a cavalcare senza sella, briglie e
staffe. E' troppo geloso della sua creatura, somiglia
troppo a se stesso anche nel mutare delle circostanze.
Lasciate che i pargoli vengano a me è una formula più
sicura che incontrarsi a mezza strada o fissare un
appuntamento.
Ma non fare un quadro deprimente, mi raccomanda il
direttore. Non so se ho obbedito. Dire che l'era
berlusconiana può durare di questo passo vent'anni non
mi pare deprimente ma incitante. Dire che finisce un
equivoco a sinistra non mi pare deprimente ma
promettente. Dire che è possibile scompaginare le carte
e ridisegnare una sinistra attorno a scelte fondamentali
mi sembra addirittura un'overdose di ottimismo.
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Non
sanno
di LUIGI PINTOR, il manifesto 3 aprile 2003
Credo o voglio
sperare che gran parte dell'opinione pubblica americana
non sappia quasi nulla degli orrori della guerra
irachena, che non capisca, che sia tenuta all'oscuro come
avvenne per lungo tempo con la guerra del Vietnam. Penso
che si fidi dei suoi dirigenti e delle nobili motivazioni
patriottiche e missionarie di cui è rivestita questa
sordida impresa. Non saprà e non vedrà quel reparto di
maternità sventrato a Baghdad, vive sotto censura e
autocensura, non posso pensare che sia esaltata e
insensibile a una simile tragedia imposta a un'intera
popolazione. Nelle guerre minori che hanno preceduto
questa invasione preventiva un ospedale sventrato per
errore era ancora un effetto collaterale che suscitava
rammarico e anche scandalo. Adesso, giorno dopo giorno,
le stragi di civili si intrecciano ai combattimenti,
rimbalzano da una città all'altra, la morte innocente
scende nelle fosse e lastrica i pavimenti negli ospedali.
Vecchi donne bambini vengono elencati in lugubre litania.
Non sono più effetti
collaterali ma è il tessuto naturale di una guerra di
occupazione territoriale. Non useremo mezze misure, hanno
detto, ma se anche la strategia deliberata non fosse di
annichilimento, per ragioni di opportunità politica,
essa scivola tuttavia su un piano inclinato che non
conosce freni. Il crimine è ingrediente quotidiano e
diventa assuefazione. Si avvicina con queste premesse la
battaglia di Baghdad dove si concentrano 7 milioni di
abitanti martoriati e esasperati. Una corrispondente
locale informava ieri che sono decisi a combattere per la
loro città e vita e dignità contro uno straniero che
entra nelle loro case, ma se anche non fosse così che
altra sorte li aspetta, se non di morire passivamente
sotto il fuoco incrociato dei combattimenti?
Tremo quando leggo e
ascolto i titoli dei giornali o i commenti televisivi che
attendono speranzosi l'assedio e l'occupazione della
capitale irachena come felice conclusione della guerra.
Ma lo scenario annunciato è quello di un bagno di sangue
di cui non abbiamo memoria recente. Dopo il quale già è
stato detto da chi se ne intende che la guerra non
finirà ma proprio da quel momento comincerà.
No, l'opinione americana
non sa nulla ed è questa l'unica carta, più forte delle
corazze dei carri e delle esplosioni dei cruise, che
ancora permette al presidente americano questo scempio.
Su tutti gli altri fronti ha già perso e l'immagine
della democrazia americana ne uscirà non offuscata, che
già lo è, ma squalificata, l'immagine di una democrazia
molto malata e massimamente infettiva.
Se prima era odiata, cosa
sarà adesso? Se prima quest'odio era immotivato e
ingiusto, adesso sarà ancora immotivato? Che cosa
diventerà, in che altro sentimento esacerbato si
tradurrà? Non stiamo seminando vento ma morte e già
raccogliamo e raccoglieremo molto più di una tempesta.
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