SU LA GUERRA

Luigi Pintor

Domande

il Manifesto - 27 ottobre 2001


Da quando è cominciata questa guerra mi sforzo di leggere con più attenzione i giornali che la sostengono e che si identificano con gli americani che la combattono e la guidano. Spero di ricavarne dei lumi, lo dico senza ironia, perché dovrebbero avere più informazioni e i migliori argomenti per convincere l'opinione pubblica che siamo sulla strada giusta. Ma, di nuovo senza ironia, mi deludono.
Ieri hanno registrato tranquillamente che forse bin Laden non verrà mai catturato né vivo né morto. Ma siccome era questo uno degli obiettivi della guerra, anzi il principale nell'immaginario collettivo, speravo che mi spiegassero cosa significa questa bizzarra dichiarazione di quel ministro americano. Come si fa a sconfiggere il terrorismo senza decapitarlo?
Il Pentagono ha indetto un pubblico concorso per avere risposte a questa domanda e i giornali hanno registrato anche quest'altra bizzarria senza fare una piega. Dunque Bush e la Cia non sanno bene cosa fare e questo può non sorprendere me, che ricordo l'elezione di quel presidente e che della Cia non ho mai avuto stima. Ma i giornali che sostengono e giustificano la guerra non sono preoccupati?
Continueremo con i bombardamenti anche negli ospizi e anche durante il ramadan e con l'inverno i profughi moriranno di freddo oltreché di fame, questa è l'unica certezza che ricavo leggendo i giornali. E' dunque una guerra contro la popolazione civile per demoralizzarla e sconfiggere di conseguenza il regime talebano insediando chi a Kabul? Ignorante come sono di strategia e tattica a me sembra un'idea infantile oltre che feroce. Le montagne e le trincee afghane mi ricordano maledettamente le paludi vietnamite e mi par strano che questo sospetto non sfiori i nostri esperti commentatori.
Non temiamo di seminare nuovo odio più che demoralizzazione? E' molto pericoloso, continuare a dire che questa guerra sarà lunga (giustizia infinita) senza farne intravedere un esito vittorioso o un esito comunque. Questo sì può essere demoralizzante, non per il nemico però ma per noi e per gli americani, anche ammesso che il carbonchio resti nei limiti.
Non temiamo che l'amministrazione americana, per uscire da questo vicolo cieco, faccia di peggio e varchi ogni limite come ha già fatto Sharon? Non ci preoccupa che non ci sia un'idea, un progetto politico per il futuro, ci fidiamo della solidarietà di Putin e dei campioni cinesi dei diritti umani? Quale libertà duratura intravediamo e per chi? Se non volete saperne di cessare il fuoco e di cercare altre strade e vi pare necessario e sufficiente sfilare con le bandiere americane fatelo. Ma forse gli amici americani non hanno bisogno di incoraggiamento quanto di saggi consigli. Dategliene qualcuno, voi che avete ascoltato, partecipate al questionario del Pentagono.

SU LA GUERRA

Continua la guerra

Luigi Pintor

L a signora Albright ha detto: a che ci serve tutta questa potenza di fuoco se non la usiamo? I generali Nato dicono: possiamo continuare per mesi, metteremo Milosevic in ginocchio. Il presidente Clinton manda gli apaches, accumula forze terrestri e fa intendere qual'é il dilemma: o la resa incondizionata del nemico o il suo annientamento. Henry Kissinger, per il quale la guerra in Vietnam era una scaramuccia che i libri di storia avrebbero ignorato, raccomanda un'invasione. E Tony Blair dichiara: questa è una guerra del bene contro il demonio. Se questo è lo spirito, il programma di questa guerra americana, è difficile sperare che resti spazio per una mediazione e una soluzione politica. Ed è difficile dar credito alle classi dirigenti, ai governi e alle forze politiche tradizionali europee. Forse non tutti condividono questo bellicismo oltranzista ma nessuno, per calcolo o per sudditanza e impotenza, lo avversa. La causa della pace, o anche solo di una tregua, è affidata a minoranze volenterose, all'opinione pubblica generalmente intesa, a un'insorgenza della coscienza civile. La propaganda di guerra tuttavia infuria e stordisce, prevale con fragore sulle invocazioni di pace e oscura ogni ragione. Mi ricorda infallibilmente l'euforia e perfino la frivolezza seminate ai tempi delle guerre etiopiche o della dichiarazione di guerra alla Francia. Beato chi non ha respirato in passato quell'aria che oggi riprende a circolare in un altro contesto ma con lo stesso veleno. Beato e disgraziato, perché è preda di un inganno di cui non conosce i prezzi

Molti hanno creduto, in buona fede, alla motivazione umanitaria dell'intervento armato. E continuano assurdamente, in buona o in cattiva fede, a crederci pur avendo sotto gli occhi una tragedia epocale: quella moltitudine dannata di profughi che le nostre bombe hanno ingigantito dieci volte, sommandosi alla guerra civile e alle crudeltà delle milizie serbe.

Molti forse sospettano che il rimedio sia stato e sia peggiore del male, ma pensano che sia giusto punire il colpevole, come se ci sia un solo colpevole più colpevole, eliminato il quale tutto andrà a posto. Ma noi non stiamo abbattendo un capo o un regime politico, stiamo bombardando una nazione e un popolo. E' una logica simile a quella della pena di morte, applicata su larga scala, insieme alla presunzione di una democrazia esportata con la forza.

Molti si tranquillizzano sentendo dire che sarà possibile riportare un milione di disperati nella loro terra bruciata, come se non si trattasse di un'umanità privata di tutto, ma di una mandria da ricondurre entro i recinti. Oppure di relitti da disperdere ai quattro venti, dove nessuno li vuole adesso come non li voleva prima. Intanto muoiono, con un'assistenza umanitaria dell'opulento occidente che costa meno di un missile.

Molti (chiunque abbia meno di sessant'anni) non hanno mai visto scorrere il sangue in Europa, pensano che sarà poco e che non lascerà tracce. Lascerà invece per lo meno un grande odio nel cuore del continente. Le città e le campagne che stiamo bombardando, anche se pochi osano ricordarlo, hanno combattuto una guerra di liberazione contro i fascismi tedesco e italiano e vivono l'aggressione di oggi con questa memoria.

Molti si sentono comunque garantiti perché siamo dalla parte del più forte. Il mito americano è duro a morire, c'è più ammirazione che repulsione per la potenza di fuoco e la precisione di tiro americana. E se un errore millimetrico farà saltare in aria una clinica ginecologica non lo sapremo o lo sapremo troppo tardi. Forse allora l'ammirazione lascerà un po' di posto alla commozione.

Molti vedono ancora la Nato come un bastione anticomunista anche se nessuna minaccia grava sull'occidente, salvo quelle che l'occidente sta costruendo da sé con l'idea folle di un mondo a sovranità limitata, di un protettorato riservato ai quattro quinti dell'umanità. Se sento la Cina dire che questa filosofia porta diritti alla terza guerra mondiale rabbrividisco, e vorrei che questo brivido contagiasse il mondo.

Molti non si accorgono ancora del nesso inscindibile che corre, e che già ci umilia, tra questa guerra e l'infrangersi del "sogno europeo". Questo sogno, lungamente vagheggiato in competizione col sogno americano, ha rivelato in un attimo la sua fragilità e inconsistenza. La nuova Europa ha perso coscienza di sé prima di nascere.

E' difficile contrastare la propaganda di guerra e le spirali che induce, farlo con il ragionamento o con la protesta, smontare questo pauroso ingranaggio contro cui cozza e diventa flebile anche la voce papale. E' un compito oggi minoritario ma che può, rifiutando ogni etichetta di parte, risvegliare una maggioranza democratica di donne e uomini. Almeno qui, in Italia, ai confini della tragedia. Si può anche credere che la guerra sia connaturata all'uomo ma non fino a questo punto. Non è alla nostra portata riempire tutte le piazze del mondo, ma anche una sola sarebbe molto. Ci abbiamo già provato e continueremo a provarci.

SU - LA GUERRA

SOLE CHE SORGI di Luigi Pintor -

(c) IL MANIFESTO 09/11/01

L' entrata in guerra è ovviamente una scelta di politica internazionale per avere un posto al sole, che splende anche sui cimiteri. Ma è prima ancora una scelta di politica interna pienamente conforme alla natura e alla mentalità del governo in carica.
Noi siamo abituati a considerare Berlusconi come un affarista di pochi scrupoli e basta. Ma è un napoleonide, una personalità tronfia, che da tempo non si accontenta di un impero televisivo e finanziario e ne rifonderebbe volentieri un altro sui colli fatali. Questa guerra d'oltremare è il battesimo militare della vittoria del 13 maggio, con tanto di prigionieri incatenati al carro di trionfo.
Pensate alla smisurata felicità di Gianfranco Fini. Vede avverarsi i suoi sogni di ragazzo, l'Italia è tutto uno sventolio tricolore, anche la plutocrazia americana è relegata sullo sfondo, la nostra flotta solca il mare nostrum e l'onore della Folgore non è più appannato dagli incidenti di caserma. Il ragazzo imborghesito e sdoganato quasi non crede ai propri occhi.
C'è qualche aporia, l'adunata oceanica promossa da Giuliano Ferrara vedrà forse sventolare qualche bandiera padana ma è folklore nazionale anche questo. Il lombardo-veneto ritrova la vocazione risorgimentale. Il nemico è comunque extracomunitario e Bossi potrà finalmente bombardarlo sul posto.
Chi disturberà più il manovratore in queste circostanze? Chi anteporrà le piccole beghe di casa nostra agli imperativi della guerra? I cingoli dei carri armati seppelliranno nella polvere le rogatorie, i falsi in bilancio, gli abusi edilizi, le scorribande giudiziarie, scolastiche, sanitarie.
Il partito Ds potrebbe cogliere la palla al balzo e sciogliersi già nell'imminente congresso. Era ridotto a una larva, ora è un ascaro addetto alle salmerie e alla manutenzione degli incrociatori. E matura una fusione non con Amato ma con De Michelis. Rutelli era un radicale perché non c'era ancora la casa della libertà, ma ora parla come Frattini e l'ulivo si chiamerà presto cipresso.
Il governatore Ciampi canterà in primavera all'Arena di Verona l'
Elmo di Scipio con le scolaresche e gli insegnanti di religione dello Stato. Ma in primavera, dopo l'inverno afghano, può essere azzardato. Anticiperei e suggerirei comunque di intonare Sole che sorgi libero e giocondo sui sette colli i tuoi cavalli doma tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma. Perlomeno è musica di Puccini, credo.

http://www.namir.it/drittosinix/libro.htm
SU IL GOVERNO BERLUSCONI

La parabola


LUIGI PINTOR


Silvio Berlusconi e il suo governo hanno dissipato nel breve giro di un anno una dose cospicua del consenso e del credito che gli elettori gli avevano accordato. Questo non vuol dire che cadranno domani o dopodomani, conservano un grande potere e gli spiriti animali che incarnano sono indomiti. Ma qualche osservatore attento comincia a dubitare che questa legislatura possa durare cinque anni filati. Hanno proceduto finora come se l'investitura elettorale fosse una cambiale in bianco e un'assicurazione sulla vita che li autorizzava a qualsiasi comportamento. Ma i meccanismi della politica non funzionano così, in una società complessa e in un regime formalmente democratico. La parabola discendente del centro-sinistra è durata cinque anni, quella dello schieramento di destra è con evidenza molto più veloce del previsto.

Da qualche mese in qua il personale politico di questo governo offre una pessima immagine di sé anche all'opinione pubblica meglio disposta e il presidente del Consiglio infila una gaffe dopo l'altra, come accade quando si perde la bussola. Non è più l'argonauta indiscusso neppure all'interno della sua nave e la sua maggioranza cigola rumorosamente anche se non si spaccherà verticalmente come otto anni fa.

Delle due facce della coalizione governativa (non è il caso di chiamarle anime), quella populista e demagogica e quella padronale e autoritaria, la seconda ha preso nettamente il sopravvento assumendo perfino i connotati forcaioli bossiani. Non è una faccia in cui l'elettorato moderato si riconosca volentieri e non esprime forza ma debolezza.

La riforma del mercato del lavoro, che sotto questa orribile dizione contrabbanda una brutale mercificazione delle persone, ha svelato il gioco. Ma è stata preceduta e accompagnata da un ventaglio di decisioni e atteggiamenti che hanno allarmato non solo i ceti più esposti della società ma la coscienza democratica generalmente intesa: decisioni personalistiche e scelte discriminatorie che è perfino inutile rielencare, che spaccano il paese e esautorano le istituzioni rappresentative.

Il capo del governo non si rende evidentemente conto del mutamento di clima politico e delle assurdità che ha detto ieri. Considera una gita a pagamento la più grande manifestazione di massa della storia repubblicana, chiama clown chi lo critica, pretende di dialogare con i sindacati continuando a denigrarli, nasconde sotto il tappeto i cocci delle risse ministeriali, esalta la propria popolarità come non farebbe un piazzista, invoca la lotta contro un pugno di terroristi che la sua politica non sa fermare. E di fronte allo sciopero generale, evento impensabile fino a ieri e rarissimo nella storia nazionale, si appella agli artigiani.

Non cadrà domani, lo sappiamo. Ma ha già ottenuto il miracoloso risultato di risvegliare contro di sé una opposizione addormentata e nuove energie impreviste. I processi politici, a differenza di quelli penali, sono oggi molto più veloci che in passato. Il paragone è improprio, ma perfino a un presidente americano plebiscitato è capitato di dimettersi in lacrime prima della scadenza del mandato per aver detto troppe bugie.


il manifesto - 23 Marzo 2002 prima pagina

SU IL GOVERNO BERLUSCONI

Contiamoci


LUIGI PINTOR


E se invece piove? Non importa, oggi c'è lo stesso il sole. Non è una previsione meteorologica. E' una affermazione di principio, una verità politica. Parteciperemo oggi alla più grande manifestazione popolare degli ultimi anni e decenni. Grande per dimensione e per qualità, per le motivazioni che la animano, per le motivazioni che la animano, per la forza tranquilla che esprime, per la giusta causa che la ispira e la sostiene.
Non è una manifestazione sindacale, non è una manifestazione di una parte politica, non è una manifestazione di opposizione comunemente intesa. E' più di ciascuna di queste cose. La gente che oggi si incontra viene da ogni angolo del paese e rappresenta grande parte della società. E' un risveglio della coscienza democratica e civile del paese.
Non è una sommatoria confusa di rivendicazioni parziali. Ha un cuore, un cardine, un epicentro. Riflette un conflitto sociale generalizzato, che accomuna ceti sociali diversi per riaffermare (più che difendere) diritti inalienabili: i diritti del lavoro e quindi delle persone. Perciò non è solo un punto d'arrivo, rispetto alla diaspora sociale e alle sconfitte politiche di questi ultimi anni e mesi, ma un nuovo inizio. Non è una fiammata e avrà nello sciopero generale un'altra tappa di un lungo percorso.
Il governo di destra, che non governa ma comanda, fa bene a non temere la piazza. La piazza è una sede della sovranità popolare che non intimidisce e non odia. Ma fanno male, questi governanti presuntuosi e prepotenti, a ignorare il dissenso e l'opposizione che incontrano. Questo dissenso e questa opposizione non provengono da questo o quel partito, da questo o quel leader istituzionale, da questo o quello spezzone del movimento, ma dal corpo sociale. E si incontrano con la delusione che le politiche governative seminano anche nell'elettorato moderato.
Ha ragione, l'on. Berlusconi, il terrorismo non fermerà nessuno. Alimenterà il peggio. Ma arrestateli, questi epigoni di nulla, invece di farvene schermo. Contro ogni terrorismo sarà più eloquente ed efficace la manifestazione di oggi che non tutti i vostriservizi e le vostre polizie e le vostre declamazioni messe insieme.
Sarà invece il protagonismo sociale, la lotta politica democratica, possibilmente una sinistra che ritrova le sue ragioni fuori dai giochi di palazzo, sarà questo possibile risveglio che vi fermerà. Contateci. Noi ci contiamo. Non come numeri (sebbene anche) ma come volontà, intenzioni, buone speranze.

SU I GIROTONDI

Girotondi


LUIGI PINTOR (Il manifesto del 24 febbraio 2002)

C'è stato un altro girotondo, ieri a Milano come l'altro ieri a Roma. Ma non sono girotondi e neppure grida di dolore o di nostalgia per la rivoluzione di mani pulite. E non obbediscono a nessun ordine di scuderia o cartoline rosa di partito. Sono raduni di persone in carne e ossa che esprimono un comune bisogno di democrazia di fronte a un clima politico degenerato e asfissiante.
Sono destinate a moltiplicarsi, queste manifestazioni, perché hanno una radice e una motivazione profonda. La guardia è stanca, apre le finestre e vuole respirare. Tra un mese a Roma ci sarà un milione di gente, come accadde in un piovoso 25 aprile in piazza del Duomo o al Circo massimo capitolino in un giorno di sole. E il 5 aprile il mondo del lavoro, su cui è fondata la Repubblica e a cui dobbiamo ricchezza e libertà, si fermerà dimostrando che non si può governare contro di esso e neppure esistere politicamente voltandogli le spalle.
E' buffo che qualcuno sui giornali oppure negli stenditoi dei palazzi, non solo a destra ma anche nella supposta sinistra, accusi di radicalismo, massimalismo, ideologismo, vanità, questo nuovo protagonismo sociale. Sono istanze, domande, rivendicazioni assolutamente elementari e semmai minime che vengono rimesse in campo dalle classi subalterne sacrificate, da ceti intermedi avviliti, da masse giovanili che si vorrebbero rincretinite, dai marginali trattati come schiavi, da città irrespirabili. Non c'è in giro oggi una malattia infantile estremista, c'è una malattia senile della politica istituzionale che la destra vuol tradurre in regime e la supposta sinistra in pigrizia e dissoluzione.
A pochi mesi di distanza dal trionfo elettorale, ingigantito da un sistema maggioritario intrinsecamente truffaldino, Berlusconi è per la prima volta in difficoltà. Può avere anche sei reti televisive deficienti, farsi leggi su misura come fossero scarpe, screditare come galoppini le autorità istituzionali, esentarsi dai processi oltreché dalle tasse di successione, monetizzare i licenziamenti come un elemosiniere si libera dai mendicanti, ma è un populista affamato di sondaggi e di un consenso che oggi sente scemare nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle piazze.
Ha purtroppo dalla sua un vantaggio di cui nessun governo della storia italiana ha goduto, neppure i governi di unità nazionale, e cioè di non avere un'opposizione che faccia il suo mestiere nel paese e nelle istituzioni. La coalizione di centro-sinistra e il maggior partito della supposta sinistra non solo sono spettrali, ectoplasmi puntualmente assenti a ogni appuntamento che non sia un salotto televisivo, ma non sanno neanche guardarsi intorno, come pipistrelli senza antenne e bassotti senza fiuto. Aspettano che gli arrivi un progetto da qualche ufficio studi. Forse è meglio così, perché sono tappi di bottiglia che inacidiscono qualunque vino, scoraggiano qualsiasi convitato, avviliscono qualsiasi speranza.
Capita di rado, ma ci sono momenti e situazioni in cui le cose camminano da sole. Ora sta capitando. Se il sindacato (dico il sindacato al singolare) può proclamare uno sciopero generale non è perché sia un gigante e il suo leader attuale un avventurista ma perché il malessere sociale ha oltrepassato una soglia e pone una domanda di cambiamento che solo dei cretini possono considerare superficiale e qualunquista. Può esaurirsi ma può anche crescere su se stessa e far crescere anche i cretini come noi.

SU - LA GUERRA

Un equivoco
LUIGI PINTOR (il Manifesto 6 dicembre 2001)

Adesso leggiamo che bin Laden si trova da dieci giorni in Pakistan. Forse sì, forse no. Ieri l'altro guidava la guerriglia a Tora Bora cavalcando con la scimitarra sguainata. Cinque giorni fa giaceva nella stiva di un mercantile in navigazione nel Golfo persico setacciato dalla flotta italiana. Correvano due ipotesi, che si fosse sottoposto a plastica facciale o a un suicidio televisivo per mano del figlio, dopo aver smarrito un gioioso filmato sul crollo delle due torri che abbiamo visto ieri in tv.
Sappiamo esattamente dov'è, disse il vicepresidente degli Stati uniti dopo aver lanciato la bomba tagliamargherite da otto tonnellate sulle caverne delle montagne afghane. Le quali però, secondo Enzo Bettiza, non sono quelle fortificazioni inespugnabili che credevamo ma miserabili cunicoli dove non c'è traccia di primule rosse. Forse ha ragione Igor Man, quando suppone che il superterrorista televisivo sia soltanto un replicante dell'ex palazzinaro saudita. Una clonazione.
Tutto può essere, una cosa è la realtà e un'altra è quel che si vede, quel che ci viene mostrato e detto. Questa guerra infinita è nutrita di bugie. Forse è fondata addirittura su un equivoco, come dice ancora Bettiza, avendo l'America sopravvalutato al Qaeda e avendo lo sceicco invasato sottovalutato l'America (è nato nel 1957 e non ricorda Pearl Harbor, la seconda guerra mondiale e Hiroshima). Alla fin fine questa guerra è quasi militarmente conclusa in tre mesi e l'antrace è solo un cascame del prodotto interno lordo americano.
Ma se invece di essere un equivoco questa guerra mondiale al terrorismo fosse anche un pretesto? C'è perfino qualche serio osservatore occidentale che comincia a domandarselo. Un pretesto, non privo di fondamento ma enfatizzato, per giustificare qualsiasi comportamento dei paesi più forti su scala internazionale e nelle politiche interne, mettendo a tacere la società civile, subordinando il diritto agli imperativi dell'emergenza, la pace alla sicurezza, la convivenza alla convenienza o alla prepotenza, la verità all'inganno.
La nuova dimensione assunta dalla tragedia palestinese è il frutto più vistoso e perverso di questo "uso" giustificazionista dell'11 settembre. Trascuriamo pure il particolare che la terra santa è oggi il regno di Erode. La novità è che le equazioni di Sharon (Arafat uguale bin Laden, palestinesi uguale terroristi) non hanno altro sbocco logico che l'occupazione militare e la colonizzazione di fatto di tutta la Palestina, come unico territorio e unico stato. Una soluzione finale.
Facciamo come Bush? No, la linea di Israele è ancor più radicale ed estrema per ciò che riguarda la sua sfera di influenza. Fa impressione la passività o l'indulgenza dell'occidente di fronte a questo scenario.

SU - IL GOVERNO BERLUSCONI

Carte scoperte

LUIGI PINTOR (il Manifesto 21 novembre 20001)

L' era berlusconiana non durerà vent'anni perché siamo per fortuna una società instabile (senza parlare del quadro internazionale). Ma limitandosi a valutare il gioco politico non si vede né un'alternativa (di sostanza) né un'alternanza (di facciata) di qui all'eternità.
L'ulivo non arriverà alle prossime elezioni. Non è più da tempo una coalizione ma una alleanza litigiosa tra una quercia e una margherita, chiamate impropriamente gambe, entrambe azzoppate. Lasciamo perdere adesso la margherita e il suo leader inventato per appeal elettorale presunto. La quercia, l'altra gamba, più che azzoppata è amputata.
Il partito diessino (ma che nomi, uno più infelice dell'altro) è un dead man walking, ha deciso congressualmente di cambiare e morire, come sinistra e come forza popolare. Si chiamerà socialista chissà perché ma non sarà né socialdemocratico né riformista (lo sono tutti) ma modernamente liberista. Sarà un partito medio, tra il 10 e il 15 per cento come il craxiano precedente (oggi è dato al 12), che avrà come interlocutore privilegiato il mondo imprenditoriale e si offrirà come ceto ministeriale di ricambio.
Una scelta senz'anima, l'aridità è il dato che più ha colpito gli osservatori. Dovranno darsi un simbolo minerale, i vegetali sono ricchi di linfa. E' augurabile che i vecchi dirigenti eletti al 60 per cento da un congresso eletto dal 30 per cento degli iscritti chiudano al più presto la pratica. Sarà la fine tardiva ma benvenuta di un equivoco a sinistra. Spero che l'equivoco non si protragga perché Amato ama i contestatori come Martelli lotta continua o perché Fassino combatte da volontario in Afghanistan come
Luigi Longo in Spagna.
La minoranza interna, per quanto consistente, non ha avuto e non avrà la forza di modificare questo esito. Se si limiterà con diplomazia a esercitare un attrito fallirà. Non si tratta di sostenere un'altra linea in un quadro di "valori condivisi", che non esiste, ma di scompaginare le carte molto oltre i confini ristretti di un ex partito. Sono in gioco concezioni diverse e opposte di società.
E' vero che per Bertinotti si apre una prateria. Ma non so se sia disposto a cavalcare senza sella, briglie e staffe. E' troppo geloso della sua creatura, somiglia troppo a se stesso anche nel mutare delle circostanze. Lasciate che i pargoli vengano a me è una formula più sicura che incontrarsi a mezza strada o fissare un appuntamento.
Ma non fare un quadro deprimente, mi raccomanda il direttore. Non so se ho obbedito. Dire che l'era berlusconiana può durare di questo passo vent'anni non mi pare deprimente ma incitante. Dire che finisce un equivoco a sinistra non mi pare deprimente ma promettente. Dire che è possibile scompaginare le carte e ridisegnare una sinistra attorno a scelte fondamentali mi sembra addirittura un'overdose di ottimismo.

Non sanno


di LUIGI PINTOR, il manifesto 3 aprile 2003

Credo o voglio sperare che gran parte dell'opinione pubblica americana non sappia quasi nulla degli orrori della guerra irachena, che non capisca, che sia tenuta all'oscuro come avvenne per lungo tempo con la guerra del Vietnam. Penso che si fidi dei suoi dirigenti e delle nobili motivazioni patriottiche e missionarie di cui è rivestita questa sordida impresa. Non saprà e non vedrà quel reparto di maternità sventrato a Baghdad, vive sotto censura e autocensura, non posso pensare che sia esaltata e insensibile a una simile tragedia imposta a un'intera popolazione. Nelle guerre minori che hanno preceduto questa invasione preventiva un ospedale sventrato per errore era ancora un effetto collaterale che suscitava rammarico e anche scandalo. Adesso, giorno dopo giorno, le stragi di civili si intrecciano ai combattimenti, rimbalzano da una città all'altra, la morte innocente scende nelle fosse e lastrica i pavimenti negli ospedali. Vecchi donne bambini vengono elencati in lugubre litania. Non sono più effetti collaterali ma è il tessuto naturale di una guerra di occupazione territoriale. Non useremo mezze misure, hanno detto, ma se anche la strategia deliberata non fosse di annichilimento, per ragioni di opportunità politica, essa scivola tuttavia su un piano inclinato che non conosce freni. Il crimine è ingrediente quotidiano e diventa assuefazione. Si avvicina con queste premesse la battaglia di Baghdad dove si concentrano 7 milioni di abitanti martoriati e esasperati. Una corrispondente locale informava ieri che sono decisi a combattere per la loro città e vita e dignità contro uno straniero che entra nelle loro case, ma se anche non fosse così che altra sorte li aspetta, se non di morire passivamente sotto il fuoco incrociato dei combattimenti? Tremo quando leggo e ascolto i titoli dei giornali o i commenti televisivi che attendono speranzosi l'assedio e l'occupazione della capitale irachena come felice conclusione della guerra. Ma lo scenario annunciato è quello di un bagno di sangue di cui non abbiamo memoria recente. Dopo il quale già è stato detto da chi se ne intende che la guerra non finirà ma proprio da quel momento comincerà. No, l'opinione americana non sa nulla ed è questa l'unica carta, più forte delle corazze dei carri e delle esplosioni dei cruise, che ancora permette al presidente americano questo scempio. Su tutti gli altri fronti ha già perso e l'immagine della democrazia americana ne uscirà non offuscata, che già lo è, ma squalificata, l'immagine di una democrazia molto malata e massimamente infettiva. Se prima era odiata, cosa sarà adesso? Se prima quest'odio era immotivato e ingiusto, adesso sarà ancora immotivato? Che cosa diventerà, in che altro sentimento esacerbato si tradurrà? Non stiamo seminando vento ma morte e già raccogliamo e raccoglieremo molto più di una tempesta.