Uno
straordinario figlio del secolo breve La nostra sfida è
il suo servabo
VALENTINO
PARLATO
La morte di Luigi, improvvisa e lunga (nessuno si
aspettava una sentenza così radicale da parte dei medici
e nessuno dei medici si aspettava la sua lucida e
naturale vitalità) è un colpo terribile per tutti noi
del manifesto e
per i suoi tanti amici e compagni, oggi anche lontani da
lui. Non si tratta solo di un colpo agli affetti, ma alla
vita di ciascuno di noi, al nostro passato soprattutto,
ma anche al nostro difficile futuro. Occorre ripensarsi;
ma intanto, anche se qualcuno di noi preferirebbe il
silenzio, è d'obbligo, è giusto scrivere; non è
opportuno tacere: per noi e per lui. Ma che cosa dire?
Viene da ripetere la frase «non ho parole», usata e
pure abusata da Luigi, che le parole le modellava e le
manovrava, come il fioretto e l'obice, a seconda delle
circostanze. Ho riletto, sul manifesto,
la sua lettera a Laura Lombardo Radice-Ingrao. Confesso
la mia incapacità: l'essenzialità di quei quattro
capoversi non è imitabile. Scriverò più a lungo,
sballottato tra pulsioni diverse e tra loro forse
contraddittorie.
Certo, senza Luigi il quotidiano il
manifesto non ci sarebbe mai stato.
Luigi è stato, pur tra scontri dolorosi, l'architrave di
questa casa che tra venti e tempeste ha resistito più di
trent'anni, un caso abbastanza unico per un giornale come
il nostro. Senza di lui tutto sarà più difficile,
vecchi e giovani dobbiamo saperlo e insieme dovremmo
ripetere «Servabo»; così come Luigi intendeva e intese
nella sua vita quel motto.
Luigi è stato un fratello maggiore, un amico, un
compagno in senso profondo. Per chi gli è coetaneo, ma
anche per i giovani, la sua uscita di scena costituisce
un'altra avanzata di quella grigia armata che si chiama
solitudine. Noi più vecchi soffriamo terribilmente di
solitudine, che è anche sinonimo di debolezza e che, con
tutti i sensi di colpa, un po' mi induce a invidiare
Luigi: morire è anche uscire di scena - pare che
Augusto, morendo, come sue ultime parole abbia detto «la
commedia è finita». La vita è anche una commedia,
Augusto, primo imperatore globale, aveva qualche ragione.
Nel momento del distacco, chiedersi chi era veramente
Luigi può apparire saccente e presuntuoso. Può apparire
solenne e autosolennizzante. Mentre scrivo, sono le 15 di
sabato 17 maggio, arriva la notizia della morte
annunciata: Luigi è morto. L'annuncio era scontato, ma
cambia più di qualcosa.
Chi era Luigi con il quale abbiamo lavorato, anche con
scontri e divisioni dolorose, da circa quarant'anni?
Luigi era e resta una personalità unica, complessa non
per le sue contraddizioni interne come ormai tutti ci
diciamo, ma per la ricchezza dei suoi apporti
costitutivi. Luigi è stato uno straordinario, direi
unico, figlio del secolo breve.
Senza la seconda guerra mondiale Luigi, forse, non
sarebbe stato Luigi e neppure molti di noi più anziani.
La seconda guerra mondiale - rileggiamo «Servabo»
- porta Luigi fuori dell'isola; poi c'è la morte del
fratello, la famosa lettera; e Luigi giovanissimo che dai
banchi del Tasso passa ai Gap (Gruppi di azione
patriottica, che oggi diremmo terroristi). Ma nella
dimensione del secolo breve (ho il timore di scivolare
nell'insipienza storiografica) ci sono altri tre elementi
che formano la personalità di Luigi, o almeno credo io.
Ci sono la famiglia e la sardità, l'essere un comunista
italiano (nozione ancora non di facile comprensione per i
più giovani) l'essere un giornalista politico e un vero
giornalista.
Siamo nella prima metà del novecento, quando le famiglie
ancora contavano e la famiglia Pintor, come quella dei
Lombardo Radice o dei Natoli, aveva un peso. La famiglia
Pintor non era riducibile all'ultimo erede, il giovane
Giaime, ucciso dall'esplosione di una mina mentre passava
il fronte per tornare al Sud. La famiglia Pintor era
qualcosa di più: era lo zio Luigi, effettivo governatore
della Libia; era lo zio Pietro, il generale del corpo
d'armata del fronte occidentale che andò con il giovane
nipote Giaime a trattare l'armistizio francese e che poi
negli anni quaranta morì in un sospetto incidente aereo.
Ed era ancora lo zio Fortunato, deus ex machina
dell'Enciclopedia italiana.
Poi, ma forse in primo luogo, Luigi fin da giovanissimo
(cominciò con i Gap) fu un comunista italiano. E questa
storia non si può spiegare solo con la pensione
Jaccarino, le torture, la condanna a morte. Non si tratta
solo di resistenza ma, credo io - e posso clamorosamente
sbagliare - di fredda razionalità di impegno: il miglior
Machiavelli e, pertanto, la massima libertà di giudizio.
Nella tragedia del '56 ungherese Luigi non ebbe
tentennamenti e rimase decisamente da questa parte della
barricata, non si fece travolgere dal rapporto segreto di
Krusciov, non si associò ai nuovi antistalinisti (che
poi erano e sono gli stalinisti di ieri), ma capì che il
Pci per restare tale doveva rompere con l'Urss, puntando
a un'uscita dallo stalinismo, ma da sinistra. Una ventina
d'anni dopo, forse troppi, ma assai travagliati
(ricordiamoci dell'XI congresso del Pci) si arrivò alla
rottura del manifesto
e alla radiazione dal Pci. Viste le traversie del Pds e
dei Ds forse è difficile comunicare ai più giovani che
cosa furono i comunisti italiani, ma i giovani dovrebbero
fare qualche sforzo e la vita di Luigi dovrebbe aiutarli
a capire.
Questo comunista italiano, lucido erede di una famiglia
impegnata, fu anche - ed essenzialmente - giornalista.
Giornalista in senso politicamente alto. Per un verso
aveva coscienza della precarietà del quotidiano: «A
mezzogiorno, con il giornale - ci diceva - si possono
avvolgere le patate». E, a mio parere questa coscienza
della precarietà è solo l'anticipazione di una
profondità. Parafrasando la famosa frase di Gertrude
Stein («una rosa è una rosa è una rosa») ci diceva
«un giornale è un giornale è un giornale». Coglieva
così e metteva in evidenza uno specifico giornalistico,
che è assolutamente politico, contro la semplificazione
che un giornale debba essere solo l'amplificatore di una
linea politica, eludendo così lo specifico del mezzo e
la differenza tra propaganda e persuasione. Si tratta di
una questione di delicata intelligenza politica e infatti
su questo punto tra noi ci siamo anche scontrati: in
totale buona fede, ma con scarsa cognizione delle cose
del mondo. Luigi, in quanto giornalista, capiva di
politica assai più di quelli di noi che si credevano
politici. La politica che non può andare sui giornali
è, evidentemente, sbagliata.
Sui suoi articoli, quasi tutti assai brevi, sono usciti
due volumi: uno, «Parole al vento» di Kaos editori,
sugli anni '80; e un altro di Bollati Boringhieri,
«Politicamente scorretto», sugli anni 1996-2001.
Valgono più di due manuali di storia d'Italia.
E c'è la nostra storia, de il
manifesto, una storia più che
trentennale che anche per Luigi è un miracolo mondiale.
Il primo numero del quotidiano andò nelle edicole il 28
aprile del 1971; poco dopo si avviò la campagna
elettorale del 1972. All'interno del nostro gruppo la
discussione non fu totalmente serena, poi però si decise
di andare alle elezioni e alla sconfitta: tanta gente in
piazza, pochi voti nelle urne.
Poi, con la costituzione del Pdup, nato dall'alleanza tra
i compagni anche essi sconfitti del Psiup (Foa, Miniati,
Ferrati) si aprì un conflitto tra giornale e partito: il
giornale da «quotidiano comunista» era diventato
«quotidiano di unità proletaria per il comunismo». Ci
fu il tentativo del partito di governare il giornale;
Luigi si oppose e se ne andò. Ricordo un saluto d'addio,
assai doloroso, davanti alla sede del Pdup in via Cavour.
Ma l'unità tra partito e giornale non resse a lungo, ci
fu il congresso di Viareggio del Pdup e la rottura tra il
gruppo del giornale e il gruppo del partito. Il
manifesto riprese la sua autonomia,
che conserva ancora oggi, e ci fu il rientro di Luigi nel
collettivo del giornale e nella sua direzione. Va però
detto che queste rotture, non semplici, prima con Luigi e
poi con Lucio e Luciana e altri compagni meno vicini, non
incrinarono mai i rapporti di fiducia reciproca: era un
modo buono e leale di fare lotta politica.
Ora che Luigi se ne è andato dovremmo concentrarsi sul
nostro prossimo che fare, lui un indirizzo ce lo ha dato.
Cerchiamo di ripetere «Servabo».
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La semplice
dignità della persona Il suo manifesto nella storia
italiana
ROSSANA
ROSSANDA
Si è spento ieri Luigi Pintor, il nostro compagno ed
amico, quello che ha ideato questo giornale, lo ha fatto
con niente, ci ha insegnato a farlo. Non lo dirigeva più
da anni, lasciando spazio ai più giovani, ma ne è
rimasto l'anima, amata o contestata: sentiamo Luigi, che
ne dirà Luigi, oggi Luigi scrive. In marzo e aprile ha
scritto quasi ogni giorno contro la guerra in Iraq, era
già malato, non lo immaginava. La vita non lo aveva
risparmiato e non lo ha risparmiato neppure la malattia
che lo ha aggredito repentina e feroce, senza lasciargli
tempo, divorandogli in poche settimane il corpo e non
permettendo alla mente vigile né di sprofondare
nell'incoscienza né di «governare il trapasso», come
disse con quel suo misto di ironia ed eleganza appena
letto il risultato della tac, il 22 aprile. E' stato fino
all'ultimo lucido, composto, mentre il corpo se ne andava
e la mente restava spalancata davanti all'oscurità
immensa della morte, non cessando di interrogarla.
L'aveva frequentata fin da ragazzo, la crudeltà della
fine, quando il fratello grande, Giaime, era saltato su
una mina tedesca a ventitre anni, nel tentativo di
raggiungere le formazioni combattenti del Nord. E'
terribile per un ragazzo perdere un fratello, e Giaime
era qualcosa di più. Era il giovane prodigioso, colto,
brillante, che sapeva e spiegava tutto al più piccolo di
lui, e a lui infatti lasciava la lettera nella quale
diceva della sua scelta, necessaria assunzione di
responsabilità, senza enfasi e senza lirismo ma senza
possibilità di compromesso. A Luigi parve sempre
ingiusto che morisse lui, Giaime, appena oltre i suoi
venti anni, prova della crudeltà e non senso delle cose.
Poi ne avrebbe raccolto gli scritti e le carte, avrebbe
custodito nella memoria dei posteri quella splendente
giovinezza, sulla quale qualcuno, l'anno scorso, avrebbe
cercato di gettare una manciata di fango.
Non so se Luigi ne abbia patito, sta nello stile dei
tempi, lui, e noi, ne abbiamo viste di tutte. Ma Luigi
era stato singolarmente provato negli affetti: la madre
dei suoi figli, Marina, morta di cancro dopo anni di
sofferenza, il figlio Giaime mancato alcuni anni fa, poi
d'improvviso, intollerabile, la morte della figlia
Roberta. Aveva appena ritrovato una certa pace accanto
alla sua meravigliosa Isabella in una casa che gli era
cara per essere stata della sua famiglia, quando è stato
a sua volta afferrato dal male. Fucilato dalle perdite,
gliene era venuto un senso contraddittorio: mai mancare
all'impegno («Servabo») e la sensazione d'una fatalità
negativa dell'esistenza, e fin un senso di colpa, la
colpa di essere, di sopravvivere, di aver mancato non si
sa come e dove, che filtra dai suoi libri, anch'essi
contraddittori fra la profondità del pessimismo e la
perfezione della forma, ed è l'oggetto dell'ultimo di
essi, scritto due anni fa e in uscita adesso. Leggendone
le bozze in clinica si sarebbe detto, scuotendo il capo
come di fronte all'ennesimo scherzo del destino, che nel
protagonista, cui il medico ha appena annunciato la
malattia mortale, il lettore avrebbe a torto veduto lui
stesso, da due anni in attesa della fine, mentre la
malattia di cui scriveva era un'altra, la colpa non di
avere commesso un delitto, ma di non averlo saputo
impedire.
La colpa di noi tutti, che andava, va, oltre la vicenda
della persona, la colpa del fallimento delle idee, dei
comunisti. Luigi era stato uno dei migliori giornalisti
dell'Unità - in
verità uno dei migliori giornalisti italiani, per il
nitore della scrittura e la fulmineità della vis
polemica. Quando cominciò la televisione, il faccia a
faccia con l'avversario pareva fatto per lui. Non ne
perdeva una, andava sempre al segno, colpiva con quella
sua infallibile e spiritosa eleganza, senza un colpo
basso, ignaro di ogni volgarità, convinto come era che
il popolo è nobile e la sua causa va servita con
nobiltà. Non capì mai che cosa di rivoluzionario
potesse esserci nel trash o in una sgrammaticatura. E la
gente del Pci gli era grata anche di quello stile, che
nulla concedeva. Luigi è quello di noi cui hanno voluto
più bene.
Allora aveva alle spalle un grande partito, del quale non
ignorava limiti e vizi, ma che fino agli anni `60 gli
parve rappresentare la trincea della classe operaia
italiana. Classe operaia, popolo, gli offesi, i
lavoratori dipendenti; non si impicciò mai troppo di
marxismo, Luigi, le cose gli apparivano più secche e
semplici, e aveva ragione che la vera posta in gioco è e
resta la dignità della persona. Ci volemmo bene sempre e
ci azzuffammo sempre, pensava che fossi troppo
elucubrante, oltre che asinissima nella scrittura. Ma
eravamo sempre dalla stessa parte, intendendoci negli
accordi e disaccordi da lontano, fra sorriso e furore.
Sta di fatto che ci trovammo naturalmente assieme,
Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri,
Luciana Castellina quando il Pci tollerò appena il 1968
e ingoiò, seppur a malincuore, l'invasione russa della
Cecoslovacchia. Facemmo assieme il primo manifesto,
un mensile, e fummo assieme esclusi dal partito.
Ma a Luigi non sarebbe mai bastata una rivista, voleva un
moltiplicatore, una nostra lista alle elezioni, e uno
strumento smisurato come è un quotidiano. Un quotidiano
era una follia, non avevamo un soldo né un finanziatore,
non lo avemmo mai, e la squadra sulla quale egli poteva
contare di giornalisti ne aveva due, Michele Melillo e
Luca Trevisani. E un grande grafico, Giuseppe Trevisani.
Cercammo soldi da questo o quel compagno, un milione per
volta, e partimmo quando ne avemmo otto. Per anni avremmo
vissuto di sottoscrizioni, tenuti a galla dai lettori,
mentre la pubblicità mancò sempre, fu molto al di sotto
dell'area sulla quale pesavamo e pesiamo; i padroni non
si sbagliano, non ci dettero mai niente, non ci
tentarono: mai virtù fu meno insidiata della nostra. Ma,
credevamo con Luigi, avevamo con noi tutti i comunisti
che ci credevano ancora e soprattutto quella intelligente
nuova insorgenza giovanile. Sarebbe stato un felice
innesto fra i vecchi - per rapporto al movimento del 1968
eravamo già «padri» e «madri» e non così sciocchi
da travestirci - che avevano memoria del partito
comunista più intelligente d'Europa e i giovani che si
sollevavano da tutte le parti, e i nuovi operai
dell'autunno caldo. Sarebbe stato l'abbraccio fra un
sapere più freddo e un'audacia innovatrice spericolata.
Non funzionò affatto.
Alle elezioni del 1972 le nostre piazze furono piene
quanto quelle del Pci, ma nella cabina elettorale molti
cuori che erano con noi preferirono votare per un partito
più forte. E diffidò di noi anche il post 1968 più
radicale e più frettoloso. Più tardi sarebbe finito
disgregato o nell'estremismo armato o nel riflusso.
Difendemmo sempre questi figli che non ci avevano badato,
e molti dei quali ci fanno oggi lezione da destra. Luigi
non ne fu gran che turbato, più gli è pesata la seconda
sconfitta politica, quella di noi «vecchi», l'incontro
mancato fra quel che pensavamo andasse conservato dei
comunisti italiani e le nuove forze ed idee. Quanto alla
mancata eco elettorale, egli che era fra coloro che vi
avevano puntato di più, per primo capì che non ce
l'avremmo fatta: mentre festeggiavamo, qualche giorno
prima delle elezioni, il primo compleanno del giornale,
Luigi arrivò dicendo con l'abituale calma: Non è
andata. Non ce l'abbiamo fatta.
Sarebbero rimasti il giornale e un tentativo, fallito
presto, di movimento partito. Il giornale è il solo
sopravvissuto. Il solo quotidiano nato dal 1968 che duri
e sia interamente libero, libero financo da un editore.
Esile ma rispettato. Ci conoscono in tutta Europa, ci
conosce tutta l'Italia, che ci compra soltanto nelle
emergenze, mentre una base fedele di lettori ci rende
impossibile di vivere con agio e di morire di stenti. il
manifesto di Pintor è un pezzo di
storia italiana della seconda metà del secolo.
Non che al suo ideatore sia stato sempre fonte di
soddisfazione e di gioia. Nel 1973 già scriveva una
lettera disincantata e spiritosa, il giornale non era
quello che avrebbe voluto e non per la malvagità del
fato ma per i difetti della nostre inflessibili
soggettività. Che il riflusso degli anni `70 e poi il
crollo del comunismo, reale e non, avrebbe moltiplicato.
Eravamo liberi di riflettere la realtà, e la riflettemmo
anche nei suoi erramenti. Luigi ogni tanto ruggiva,
cercava di separarsi come altri fra i padri fondatori, ma
poi tornava a darci una mano. Tornò sempre, e il
giornale lo aspettava più o meno ammaccato, ma vivente
grazie a Valentino Parlato, sul quale hanno riposato
tutte le nostre collere, perché Valentino non molla mai.
Ma è tanto se abbiamo resistito, se viviamo ancora. Gli
anni `90 hanno parlato alle viscere della società, e
alla parte più frivola della cultura. Luigi era
stupefatto della stupidità con la quale il mondo consuma
e uccide. Non cessò mai di denunciarla. Non accettò mai
che fosse obbligatorio liquidare il movimento operaio e
comunista, e pensò tormentosamente che tutti ne
portassimo qualche colpa, non fosse che per indifferenza.
Né accettò di liquidare quell'Urss cui fummo i primi a
non dare più credito ma che rappresentava almeno il
simbolo d'un altro mondo e sistema. Ancora quest'anno,
nel ciquantesimo della morte, Luigi provocatoriamente
rifiutava di consegnare tutto il terribile Stalin alla
semplice damnatio memoriae. Non era di coloro che
riescono ad avere pace senza che la ragione glielo
consenta. Si è spento irriconciliato.
Ma questo siamo in pochi a capirlo. Con lui muore gran
parte della mia generazione: aveva un anno meno di me,
sono più vicina a suo fratello che a suo figlio.
Mancherà a noi, ai compagni, agli amici e a quel che
resta di rispettabile fra i nemici, e non è molto.
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Le pagine di un
sovversivo
PIETRO
INGRAO
E'sempre difficile, forse impossibile - almeno per me -
rispondere alla domanda su chi e che cosa è stato un
altro da me. Ebbene, se dovessi rispondere su chi è
stato Luigi Pintor, risponderei subito: un eversore. Uno
che voleva sovvertire la società in cui viveva. Di essa
non gli piacevano né le leggi, né i costumi, né i
modelli. Si ribellava a una oppressione? Mi pare che
fosse diverso e di più.
Prima ancora, guardando a lui, Luigi Pintor, mi sembrava
che egli protestasse innanzitutto contro un modo di
leggere la vita: sembrava provare una nausea per i codici
e i sacrari posti sugli altari. E lo stupiva l'ipocrisia
che stava al fondo di quei canoni. Anche se poi - alla
fine del suo amaro riflettere - sembrava sempre chiedersi
con un breve ghigno: ma di che siamo sorpresi?
Certo, alla fonte del guasto era per lui il capitalismo,
con la sua avidità insanabile. Luigi non era un
riformista. Non lo era mai stato, anche quando scendeva
con sarcasmo a denunciare e misurare l'avarizia della
borghesia nei suoi riti di elemosina sociale. Il suo
sogghigno era come dire: avete visto di che pasta sono
fatti costoro?
Ma c'era alle spalle come un'idea del Male del mondo, di
una ingiustizia più vasta della violenza propria
dell'ordine sociale imperante. E il furore e la collera
contro tale ordine sociale in auge sembrava in lui
accrescersi proprio in rapporto alla durezza
dell'infelice condizione umana. Tanto più la borghesia
era sordida.
Dunque: un apocalittico mediterraneo? La cosa
sorprendente in questo amarissimo e aspro narratore del
male di vivere, era la testarda tenacia combattiva con
cui egli si impegnava - si potrebbe dire: ogni giorno -
nella lotta quotidiana, sullo scontro pratico della
sinistra come essa era, nei suoi difetti e nelle sue più
elementari speranze, nelle sue passioni e prove di ogni
giorno. E come il suo gusto per la pagina alta e severa,
per il canto disperato, si mischiavano all'elzeviro
bruciante sul giornale, alla staffilata breve contro il
nemico di classe, contro i trafficanti della politica.
Qui - per me - era il suo volto inconfondibile che
tornava poi anche nelle pagine così stringenti e
allusive dei suoi romanzi o memorie.
La perdita è grave, nel momento in cui la partita
mondiale vede toccare nuove altezze e pone la guerra come
asse centrale della politica. E sono alla prova, di
nuovo, letture del mondo, sistemi mondiali di politica.
Altri dirà della vocazione naturale di Luigi alla
scrittura, della sua passione singolare a trasformare
l'emozione etica in racconto e l'abbandono alla memoria
come interrogazione sulla vita.
A me è caro ricordare la sua alta irrequietezza sul
senso dell'essere, e insieme come egli mescolava il suo
stare quotidiano nella mischia con le domande
sull'Ultimo. Qui vedo la cifra dell'uomo.
Non era semplice Luigi. La sua irrequietezza non era
breve. E la sua passione polemica - a guardare in fondo -
scavalcava anche la sua parte.
Riflettendo su di lui, ora che è composto nella calma
severa della morte, bisognerà risalire lontano a una
vena, a una costa d'Europa maturata nella «guerra
totale» (come l'ha definita Hobsbawm) apparsa sul globo
a metà circa del Novecento e poi - nel tempo di Bush -
tornata a misurarsi col nuovo livello raggiunto dall'arte
dell'uccidere.
Qui per me vengono anche domande sul passato. Che
vedemmo, che capimmo allora, in quell'incendio mondiale
della nostra gioventù, quando Luigi sfiorava appena i
vent'anni e già era nella bufera della insorgenza
partigiana? E che non capii io della rottura del manifesto
che ci divise? E ancora oggi non siamo riusciti a
costruire un livello di incontro adeguato alle varianze
faticose della sinistra oggi, pur dopo la novità
straordinaria dei new global. Da che viene l'insuperato
che ancora ci spacca? E come possiamo pensarti, ed
evocarti, fratello che te ne vai, senza cercare risposta
a queste domande? Dal tuo silenzio, come ancora ci chiami
- testardamente - nella tua amara interrogazione sul
domani...
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Una lama per
tagliare l'assurdo
SANDRO
PORTELLI
Non posso dire di avere veramente conosciuto Luigi
Pintor. Non sono mai riuscito a superare la soggezione
per una storia, un'intelligenza, una serietà così alte.
Nemmeno quando cercavo di scrivere una storia orale della
Resistenza romana ho avuto il coraggio di chiedere a lui,
che ne era stato protagonista, un'intervista. Solo di
fronte all'ultimo dei lutti dolorosi che gli hanno
segnato la vita ho osato avvicinarmi e dirgli che gli
volevo bene. Me lo ricordo una sera, in una affollata
assemblea dei tempi del manifesto-gruppo politico. Con
un'improvvisa accentuazione delle sue vocali sarde, in
una frase sola, senza cattiveria ma senza appello,
sgonfiava la retorica di un giovane rivoluzionario non
tanto diverso da me. Ti faceva sentire, scrivendo o
parlando, che le parole sono fatti, e che te ne devi
prendere la responsabilità. Ne ha dette e scritte tante,
in decenni di politica e di giornalismo; non credo che ne
troveremmo una a vanvera o una di troppo.
Ogni volta che ho scritto un articolo per il
manifesto - quotidiano comunista
fondato da Luigi Pintor - ho pensato: queste parole
andranno sullo stesso giornale dove vanno le sue. Le
leggerà lui, probabilmente. Devono valerne la pena; non
lo devono annoiare. Come le sue, il più possibile, non
devono sprecare la carta su cui sono scritte e gli alberi
con cui è fatta. Per il solo fatto di esserci, per gli
standard che ci ha dato, è stato un maestro.
E' questione di stile, ovviamente; ma ascoltando e
leggendo Luigi Pintor capivi che lo stile è una
questione morale. Il suo stile è il rigore di un'Italia
rara e migliore, di una sinistra senza retoriche e della
sua migliore sinistra, e migliorava col tempo, con
l'indignazione e col dolore. I suoi libri - Servabo,
La signora Kirchgessner -
sono gioielli rari in una letteratura italiana che
conosce poco l'arte dell'aprire abissi dicendo il meno
possibile. Era anche un musicista, e si sente, non fosse
altro che nella capacità di far risuonare il silenzio.
Come avrei voluto che l'Italia fosse come lui, avesse il
suo rigore ma anche il suo senso dell'umorismo - che è
sempre stato per Luigi Pintor l'esatto opposto delle
buffonerie di chi cerca la risata complice per fare il
simpatico. Era uno strumento di conoscenza, una lama che
tagliava l'assurdo in nome di una sensatezza della
ragione che è tutt'altra cosa dal senso comune. E avrei
voluto che la sinistra fosse come lui, realista e non
rassegnata, autoironica e non disfattista, appassionata e
senza sentimentalismi. Forse, avrei voluto essere io come
lui, ed è per questo che non mi permettevo di prendermi
confidenze.
Si domandava se eravamo destinati a morire democristiani.
Ci ha lasciato in giorni fra i più cupi di quella
repubblica che aveva aiutato a fondare. Nella Signora
Kirchgessner, ricordando i giorni
passati nelle mani degli aguzzini fascisti e nazisti,
scrive: «Il tenente in divisa, che maneggiava il
frustino al piano di sopra, era in cuor suo un patriota e
sarebbe oggi un senatore.» E' una profezia ironica e
sconsolata, e accurata. Ma non è un'ammissione di
sconfitta, è solo la constatazione che non è finita e
che c'è da combattere ancora. Dice un personaggio di
Faulkner, dopo una guerra perduta: «Ci hanno ammazzato,
ma non ci hanno ancora battuto.» In tanti modi diversi e
lungo tanto tempo, la morte ha toccato spesso Luigi
Pintor, ma la rassegnazione mai. Noi, che l'abbiamo avuto
con noi, cerchiamo di meritarcelo.
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