"Le idee del movimento entrino nei partiti"

intervista a paul ginsborg

FIRENZE «Penso che il 2002 sia stato caratterizzato soprattutto da un senso della precarietà e della minaccia. Dopo l’11 settembre qualcosa è cambiato. Non è vero che tutto il mondo sia cambiato, ma è vero però che il potere globale, dominato da un governo americano conservatore aggressivo che tenta di imporre la sua volontà al resto del mondo, ci ha portato molto vicino a una guerra ormai difficile da evitare». Incontro Paul Ginsborg nella sua casa di via de’ Serragli nel popolare quartiere di san Frediano. La sua pacata riflessione sull’anno che ci lascia è attenta alle nere ombre che l’hanno segnato, ma anche alla speranza che parti della società stanno aprendo in Italia e nel mondo.


Il 2002, insomma, ci lascia un pianeta sull’orlo d’una crisi di nervi, per dirla con Almodovar.


Da questo punto di vista la minaccia di guerra è un altissimo rischio nel mondo, ma lo è anche un terrorismo ormai incontrollabile. Ci vuole non moltissimo a distruggere un quartiere di Londra o a lasciare una bomba sporca in un parco centrale. Certo, quindi, che si devono prendere misure immediate, contingenti, contro al Quaida, sapendo però che le radici del terrorismo sono profonde nel mondo materiale, culturale, nella divisione fra Nord e Sud del pianeta. C’è dunque un senso di precarietà, di fronte all’incubo della guerra e allo strapotere di una potenza dominante, c’è, però, anche un grande movimento di reazione nel mondo.


Ma si può rispondere al terrorismo con una guerra, che è essa stessa un atto terroristico nel momento in cui l’80% delle vittime sono civili innocenti di cui il 30% bambini?


Penso tu abbia ragione, ma in certe situazioni la guerra può essere necessaria. So bene che questo mi distingue…


Ma non siamo in una di queste situazioni?


Certo che no. Sono sicuro che non lo siamo. Ma ricordo le discussioni sulla II guerra mondiale, io che sono ebreo non posso dimenticarle. C’è un terrorismo da combattere, ma non con una guerra dichiarata dagli Usa. Dovrebbe esserci un governo globale di queste situazioni. Le decisioni dovrebbero essere prese da rinnovati organismi e istituzioni internazionali che, in qualche modo, rappresentano il consenso mondiale, non imposte dallo strapotere della più grande potenza mondiale. Ma un bilancio del 2002 sarebbe incompleto se dimenticassimo le bellissime cose che stanno accadendo nella società civile globale. Ed è molto positivo. Proprio in questi giorni la Nestlè - che voleva farsi pagare dall’Etiopia, uno dei paesi più poveri, 6 milioni di dollari per una sua fabbrica espropriata nel 1975 - è stata sommersa da migliaia di e.mail da tutto il mondo. E così la multinazionale ha dovuto riunire d’urgenza il consiglio d’amministrazione per arginare la reazione globale a quest’atto di inciviltà.


In una parte fondamentale della società civile italiana e mondiale è cresciuta l’etica della responsabilità, per dirla con Hans Jonas. C’è chi parla di un nuovo «internazionalismo planetario».


Bisogna essere cauti nel definire movimenti che non sono fortemente strutturati e soggetti ad andamenti alterni. Non sono partiti, e non lo vogliono essere, ma non sono nemmeno come i funghi che vivono un giorno. Sono fragili perché basati sul volontarismo e di solito senza obbiettivi di carriera, come accade nei partiti. Prendiamo il «Laboratorio per la democrazia», un movimento che a Firenze ha avuto una certa influenza, senza mai avere un euro, a differenza dei partiti che cercano sempre più soldi per le campagne politiche ed elettorali. Viene in mente la vecchia distinzione di Gramsci fra «guerra di movimento» e «guerra di posizione». Ecco, oggi siamo in una di quelle fasi storiche di grande fluidità, di movimento.


E così arriviamo all’Italia. Dopo Genova c’è stato Firenze. Il movimento è cresciuto in modo sempre più responsabile.


È vero. È molto bello questo coinvolgimento di due sezioni della società italiana così diverse tra loro. Da un parte i giovani dai 18 ai 25 anni, fortemente identificati col Social forum, che già alle ultime elezioni avevano votato più per il centro sinistra che per Berlusconi. Poi c’è l’altra generazione, composta più o meno dagli stessi ceti sociali, che torna alla politica dopo essersene allontanata. Penso al femminismo. Molte sono le donne dai 35 ai 55 anni che ritrovano entusiasmo per la politica. E il movimento si è connesso in modo assai felice con il mondo degli operai. Credo dovremmo essere grati al Cavaliere: il suo governo ci ha aiutato a rinvigorire la passione per la politica.


La nostra Costituzione è fondata sui partiti, cardini della democrazia. Al momento, però, c’è una sorta di corto circuito fra i partiti e i grandi movimenti di massa. Come si riattiva la corrente?


La Costituzione parla di tutti i partiti, di destra e di sinistra. Quelli di destra non sembrano in crisi. La Lega, senza democrazia al suo interno, conta su un leader carismatico, anche se ha perso consensi. Stessa cosa per An, un partito più radicato. Non parliamo di Forza Italia. Si è sempre detto che non è un partito, ma lo è. Il problema è del centrosinistra, dove è evidente il cortocircuito di cui parli. Ho la sensazione che spesso parliamo lingue diverse, vedo in una parte della maggioranza dei Ds una incomprensione e un timore assolutamente infondati. Eppure per un anno abbiamo detto di non voler fondare un partito, non so cos’altro dobbiamo dire per rassicurarli. Se Borrelli, disse per tre volte «resistenza», nell’incontro fiorentino con D’Alema io ho ripetuto: «unità, unità, unità». Cosa si vuole di più per riattivare la corrente? Forse bisogna pensare ad altre spiegazioni, a culture diverse, a una visione diversa della politica. Voglio dire che i movimenti hanno a che fare con la democrazia partecipata, mentre i partiti con la democrazia rappresentativa. Come ricongiungere questi due elementi importanti di democrazia? Se vuoi qualche nome posso farlo, in positivo: sono d’accordo con Moretti quando nell’intervista a Deaglio si pronuncia per un tiket Prodi-Cofferati, anche se è più urgente parlare di elementi comuni di programma e di come si riesce a superare il cortocircuito. Credo sia necessaria una grande apertura perché le istanze del movimento possano entrare dentro i partiti. Invece c’è una sorta di rievocazione del passato, come se la Storia fosse sempre la stessa. Siamo di nuovo al Sessantotto, di nuovo in trincea. Ma non è così.


In copertina a «Pour le peuple, par le peuple», il libro sul populismo di Yves Mèny, ci sono le foto di Berlusconi, Haider, Le Pen e Bossi. In Italia si parla sempre più di una deriva populista rivisitata in chiave aziendale e proprietaria, e si parla apertamente, di «dittatura della maggioranza». L’azione di governo del centro-destra si basa sulla forza dei numeri. Così si risponde all’appello di Ciampi a non fare a pezzi la Costituzione e l’Italia.


In un recente convegno fiorentino, nel quale si è cercato di comparare governo Berlusconi con altre esperienze di destra, ho chiuso il mio intervento dicendo che, se esistesse un Moody’s italiano, senza dubbio l’Italia sarebbe relegata dalla categoria «democrazia liberale» alla categoria «democrazia elettorale». Se la democrazia liberale conta sul giusto processo, su leggi uguali per tutti, sull’autonomia della magistratura, sulla libertà dei media (penso alla Rai che licenzia Biagi e Santoro, al recente attacco di Berlusconi al’Unità) è difficile anche per un osservatore distaccato e obiettivo negare che in Italia mancano i presupposti per una democrazia liberale. E’ un processo molto chiaro all’opinione liberale, e persino conservatrice, dell’Europa. Un processo che qualche istituzione e alcune parti del centro-sinistra e dei Ds continuano a negare. Se si è d’accordo nel modificare la natura della democrazia italiana, lo si dica, ma non si faccia come lo struzzo che rifiuta di vedere.


Quanto pesa la frantumazione a sinistra e la stucchevole discussione sulla caratura riformista. Può esistere un riformismo senza ridistribuzione del potere economico, politico, sociale?


È un dibattito che non va da nessuna parte. Nei primi anni ‘80 la stessa Thachter si dichiarò riformista. E lo era, ma di destra. Bisogna quindi definirlo il riformismo: di destra e di sinistra. Negli anni ‘60 e ‘70 la forza della nuova società italiana emersa dal miracolo economico mise in movimento un processo riformista rapido e profondo che portò allo statuto dei lavoratori, alla sanità nazionale universalista e via elencando. Spesso, però, nella storia dell’Italia repubblicana, le riforme sono state molto più spesso annunciate e discusse che realizzate a causa della frantumazione politica e istituzionale. Poi è la forza della società che costringe a un riformismo di sinistra. Ebbene, in questo 2002 credo ci siano i presupposti per una società che si rimetta in movimento attraverso tre componenti: i ceti medi riflessivi, i giovani fra i 18 e 25 anni e un rinvigorito movimento dei lavoratori, soprattutto Cgil, ma non solo. Una combinazione che fa sperare. Attenzione, però: abbiamo già un riformismo di destra (leggi sulla Giustizia, devolution come concepita da Bossi, etc.) che in base ai numeri decide rapidamente, come la Dc non poteva fare. A questo punto è cruciale la capacità di reazione, dalle massime istituzioni alla mobilitazione di settori ampi della società. Pensa ai rettori dimissionari, alla lotta dei docenti e degli studenti, pensa agli scioperi per la Fiat e l’indotto. Sta a noi reagire pacificamente ma fermamente. L’obiettivo a lungo termine del centro destra è rimpiazzare col privato un pubblico sempre più residuale: un classico del neo-liberismo. Ma c’è bisogno di una università pubblica, di una ricerca pubblica di primissimo piano e di un tessuto industriale forte e diffuso. Da storico devo dire che l’Italia si è reinventata più d’una volta. E anche questa volta ci sono molte risorse e energie. Ma, di nuovo, torniamo alla politica: dipenderà da questa se troveremo i canali giusti, o se vincerà, e non per la prima volta, la delusione e il riflusso.


«Il futuro? E’ tutto per aria». Quella di Jeremy Rifkin non è una metafora, richiama la pervasiva globalizzazione del mercato e del business. A fine anno si fanno i bilanci, ma si cerca anche di capire il domani. Cosa ci aspetta nel 2003?


Sfortunatamente ci aspetta una guerra. Gran Bretagna e Stati Uniti hanno già fissato le date. Questo porterà in Europa un livello molto forte di protesta e di mobilitazione. E porterà una spaccatura, che non mi piace, fra i due grandi paesi anglosassoni da una parte, e il resto dell’Europa e del mondo dall’altra. Per non parlare delle reazioni nel Sud di fronte a una guerra dichiarata per assicurare il petrolio agli Usa e per fare del modello di vita e di sviluppo americano un fatto non negoziabile, proprio quando dovrebbe essere fortissimamente messo in discussione, perché insostenibile persino nel breve-medio termine. Penso che anche in Italia le tre componenti della società di cui parlavamo continueranno la pressione sui politici di sinistra perché si aprano al discorso del Socialforum europeo e ai problemi del mondo, trovando il coraggio di elaborare un programma riconoscibile come una risposta all’altezza del momento drammatico che stiamo vivendo a livello mondiale. Questo è ciò che mi aspetto.