DA - LA REPUBBLICA. L'attore si è spento a 63 anni
dopo una lunga malattia
Dopo gli esordi e il successo in tv, solo sul
palcoscenico
E' morto Giorgio Gaber
Una vita nel teatro-canzone
L'ultimo disco, "Io non mi sento
italiano", uscirà postumo
di MARCO BRACCONI
Giorgio Gaber non era un pollo d'allevamento. Aveva
scelto di non esserlo all'inizio. Quando il successo era
già arrivato. Quando era già una faccia, quella sua
bella faccia con il nasone enorme, da festival di Sanremo
o da varietà anni Sessanta. Ma non era quello il
successo che Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, classe
1939, meneghino doc, voleva davvero. Non voleva pailette
e lustrini, insomma, ma il palcoscenico. Era il teatro
quello che voleva. Per cantare come un attore. E per
recitare come un cantante. Per raccontare l'Italia che
vedeva, e attraverso l'Italia per raccontare sé stesso.
E' morto a 63 anni, dopo una lunga malattia. Gli inizi,
quando aveva vent'anni, al Santa Tecla di Milano, dove si
fanno vedere ogni tanto Celentano e Jannacci. C'è anche
Mogol, che gli propone un provino per la Ricordi. Ne esce
un disco, con quattro canzoni, La più famosa è Ciao,
ti dirò, scritta con Luigi Tenco. Siamo a cavallo
degli anni Sessanta. Tra poco l'Italia comincerà a
bollire, e Gaber cambierà passo. Ma intanto ha successo
come cantante melodico (Non arrossire) e come
entertainer ironico (La ballata del Cerruti, Torpedo
blu). Sono gli anni del festival di Sanremo, quattro
edizioni. Sono gli anni della tv e, nel 1969, di
Canzonissima. Che per Gaber è la fine di un'epoca e
l'inizio di tutta un'altra storia.
A Canzonissima canta Com'è bella la città,
memorabile e anticipatrice canzone sull'alienazione
metropolitana. Troppo cattiva, troppo vera, perché la
sua carriera possa seguire i canali tradizionali. Il
Piccolo Teatro di Milano se ne accorge, e gli offre la
possibilità di allestire un recital. E' la svolta: nasce
Il signor G. Vale a dire che il signor Gaber
abbandona la tv (dove tornerà pochissime volte), e farà
della sua vita d'artista una sequenza irripetibile di
spettacoli dal vivo. E' l'esordio del teatro-canzone, la
formula tutta sua nata dal mix tra cabaret e Jacques
Brel, ed è anche l'inizio della collaborazione con
Giorgio Luporini. Insieme, negli anni a venire,
saccheggeranno per i testi Celine, Sartre, Borges.
Insieme racconteranno la gioia e l'idiozia degli anni
Settanta, la volgarità e il delirio degli Ottanta, il
disincanto dei Novanta. Suscitando passioni ed
entusiasmo, ma anche attirando su di sè le accuse di
qualunquismo, e anche peggio.
Il Gaber di Far finta di essere sani (1972), di Libertà
obbligatoria (1976), di Polli d'allevamento
(1978) è l'uomo di sinistra che detesta le pose della
sinistra di piazza, ma anche gli alambicchi della
sinistra ufficiale. E' il rivoluzionario che mentre i
rivoluzionari chiedono più libertà, diffida della
troppa libertà, E' il cantante, l'attore, e di nuovo il
cantante che non smette di tenersi attaccato alla propria
individualità, ma non sa smettere di subire il fascino
della Storia. Lo dirà in una canzone memorabile, La
strada, una risposta alla paura negli anni bui del
terrorismo che però prelude al ripiegamento e alla
delusione. Quella che molti anni dopo lo porterà a
cantare che oramai Destra e Sinistra sono uguali.
E a tornare sempre di più all'io, all'indagine sui
sentimenti e sui misteri delle emozioni umane.
In mezzo ci sono altre prove straordinarie. Monologhi che
valgono più di un saggio di storia, come Qualcuno era
comunista, e grandi prove d'attore, come ne Il
Grigio (1989), dove per la prima volta si cimenterà
solo con la parola teatrale, senza canzoni. Ed è qui che
forse raggiunge il punto più alto della sua vita
d'artista. Il Gaber che cantava quindici anni prima Libertà
e partecipazione, ora si chiede come si può amare
senza retorica, come si può trasformare l'amore in
qualcosa che "Non sia una farfalla che si posa di
fiore in fiore", ma diventi davvero "Terra e
materia..., cosa".
Forse, come canterà in un altro dei suoi spettacoli, la
sola risposta è affidarsi ai Piccoli spostamenti del
cuore. Ma chi ha davvero una risposta per un amore
che finisce, come dirà nelle parole de Il dilemma,
la sua canzone probabilmente più bella. Sono gli ultimi
anni della sua carriera, e sono lontani i tempi della
clamorosa invettiva contro Aldo Moro, pronunciata in Io
se fossi Dio dopo l'uccisione da parte delle Brigate
Rosse. Ma Gaber non ha smesso mai del tutto di parlare di
"politica". Solo che la sua politica, il suo
mondo, sono ormai il teatro di una sconfitta. Lo dirà
nel suo ultimo lavoro, La mia generazione ha perso, prima
di un nuovo disco ("Io non mi sento
italiano") che ora uscirà postumo.
Una sorta di testamento, anche se sfogliando gli spartiti
e i testi di trent'anni di teatro-canzone, almeno un
altra pagina meriterebbe di recitare, insieme al suo
autore, l'epitaffio per una vita d'artista vissuta
pericolosamente in bilico tra dramma e sarcasmo.
"Qualcuno era comunista perché pensava di poter
essere vivo e felice solo se lo erano anche gli
altri...", cantava Giorgio Gaber raccontando l'anima
e il cuore di una generazione. Quella che ha perso,
certo, ma che probabilmente se n'è andata con lo stesso
sogno di allora.
(1 gennaio 2003)
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DA - LA REPUBBLIC
"Un grande commediografo ma anche un pessimista
brutale
ma mai opportunista. Perciò i politici non l'hanno
amato"
Gaber nel ricordo
del Nobel Dario Fo
ROMA - E' del premio Nobel Dario Fo il primo
commosso ricordo di Giorgio Gaber, morto oggi nella sua
casa dopo una lunga malattia. Un "grande
commediografo" ma anche un "pessimista
brutale" ricorda Dario Fo. "Ma mai
opportunista, anche se i politici non lo hanno mai amato
perché li graffiava, anzi randellava".
Dario Fo ricorda gli anni in cui lavorarono insieme.
"Il nostro incontro fu una canzone, molti anni fa -
dice Fo - si intitolava 'Il mio amico Aldo'. Lui aveva
fatto la musica io recitavo le parole. Molti ricordano
l'uomo di teatro, il monologatore, il cantante ma Gaber
è stato un grande commediografo e questo viene ricordato
poco".
Di Gaber, il premio Nobel sottolinea "l'ironia, il
senso del grottesco, a volte anche l'autolesionismo, il
pessimismo brutale. Ma la sua non era una vena
distruttiva fine a se stessa, era sempre onesto in quello
che diceva. Non aveva - sottolinea Fo - rabbia e rancore
verso le persone, semmai per la società e per la
politica. Per questo i politici non lo amavano".
(1 gennaio 2003)
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DA - LA REPUBBLICA
"La mia
generazione ha perso" è l'ultimo disco di Gaber
Grandi riflessioni e un omaggio al Sessantotto
Giorgio, il cantore
di un passato tradito
di
MICHELE SERRA
Il mondo ci sembra peggiore
perché lo è davvero o perché non siamo più giovani, e
ce lo sentiamo sfuggire di sotto i piedi? E quando ci si
duole perché il mondo non ci capisce più, non sarà che
siamo noi a non capire più il mondo?
Grande tema per una grandissima canzone, La razza in
estinzione, inconfondibilmente gaberiana nel suo pathos
acre, nella sua teatralità impetuosa. Canzone doppia,
con un primo piano dominato dall'invettiva senza
quartiere, dal malessere morale, e in secondo piano un
dubitoso arretrare, un passo indietro rispetto a quanto
si è appena detto sul proscenio. Forse l'età di cui si
maledicono gli usi e i costumi ha soprattutto questo di
insopportabile: che non è più la nostra.
La razza in estinzione è, certamente, anche
l'appassionato epitaffio di una generazione, quella
sessantottina, della quale Gaber è stato lungamente
compagno di strada. Tra i primi a dirne i vizi e le
magagne modaiole, oggi Gaber è orgogliosamente in
anticipo anche nel rivalutare il coraggio di quegli anni,
e nel rivendicare quanto meno il valore della scommessa
perduta. Gli umori correnti sono, nei confronti di quella
storia e di quei protagonisti, ben più ingenerosi, e
conformisticamente sprezzanti: basti pensare alla cella
immeritata di Adriano Sofri o al pelosissimo linciaggio
di Daniel CohnBendit, riletto (e tradotto) trent'anni
dopo in una losca chiave pedofila. Ma è noto che tra i
pregi di Gaber c'è la solitudine del giudizio, e
l'assoluta indifferenza alle opinioni correnti.
A parte la nobiltà dell'omaggio al Sessantotto, la
grande intuizione artistica della canzone sta però in
quell'umore aggiunto, in quella riflessione più pacata,
e universale, sullo sfumare degli anni. Così che quasi
ogni generazione, ascoltandola, potrebbe riconoscersi nel
destino di anacronismo e di sconfitta che segna, sempre,
l'abbandono della giovinezza.
Pur potendosi contare diversi artisti - e tra essi molti
cantautori - che stanno vivendo una proficua maturità,
la capacità di Gaber di fare perno perfino
sull'invecchiamento per sollevarsi da terra di un bel
palmo, emozionarsi ed emozionare l'uditorio, è più
unica che rara. La sua forza, d'altra parte, è sempre
stata l'uso perfino doloroso del "sé",
spremuto sulla scena fino all'ultima stilla.
Non stupisce, dunque, che un anziano attorecantore, dopo
quasi mezzo secolo di carriera e tre decenni tondi di
grande teatro, riesca a fare della sua figura segnata e
claudicante un indomabile strumento artistico, forte nei
toni, e dalla mira precisa, pesante e leggero a seconda
del calibro espressivo scelto. Si è sempre sentito,
d'altra parte, dire bene e dire male delle canzoni di
Gaber, a seconda delle sensibilità urtate o gratificate.
Ma si è sempre sentito dire solamente bene di Gaber,
voce e corpo di una storia artistica formidabile,
germinata nel rock'n'roll, fortificata negli show
televisivi di anni nei quali in televisione arrivavano
solo i migliori e non i peggiori, infine sbocciata in
teatro con una lunga e interminata saga di onemanshow che
hanno descritto e commentato tutti o quasi i momenti
decisivi della cultura e del costume nazionali.
La razza in estinzione dice che quel racconto non è
finito. E che, in fin dei conti, nessuna generazione ha
perso finché qualcuno avrà le parole per raccontarla.
(9 aprile 2001)
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DA - L'UNITA'
Se ne va
Cerutti Gino. È morto Giorgio Gaber
di Oreste Pivetta
Cerutti Gino non cè più. Il mago o il drago, come
lo stimavano al bar del Giambellino, non tira più di
stecca, al tavolo verde, sotto la luce che sa di fumo.
Giorgio Gaber è morto. Non lo vedremo entrare
unaltra volta aprendo la porta con unistante
di sospensione che richiama lattenzione del
pubblico. Non lo vedremo alto, magro, con quella
incredibile chioma che si tirava sulla fronte a mitigare
lasprezza del naso. Faccia comica, faccia da
periferia, periferia comera il Giambellino, che
fuori Milano non conoscono, quartiere popolare di nebbia,
di casermoni, dimmigrati e di milanesi autentici,
interisti e un po bauscia, narratori di poche
parole e di secchi eloquenti gesti, che mimano la vita,
il lavoro le donne gli amori il derby a San Siro e
persino i sogni, oltre che i colpi a boccette. Quelle
prime immagini di Giorgio Gaber con la giacca troppo
stretta e il maglione girocollo alto, locchio
smaliziato, il sorriso beffardo, quellaria un
po di mala, se non altro per aspirazione, che danno
lesatta impronta del mago chiamato Cerutti oppure
del Riccardo, un altro tipo da bar e di biliardo, uomo di
grande compagnia, il più simpatico che ci sia. Povero
Gaber, così lontano e così testimone di un tempo che è
finito, spazzato via, un tempo popolare e autoironico,
forte e sincero, di straordinaria umanità e, verrebbe da
dire con la paura della retorica, di bontà e di
solidarietà, come capitava in quei luoghi allora un
po meno poveri ma non ancora travolti dal
consumismo, dal benessere materiale, dalle illusioni
smarrite e cancellate e neppure dalle auto. Cera
sì la Torpedo Blu, come dice il nome, non era una
macchina, non era aggressiva, non era rumorosa, non
inquinava, era un marchingegno più umano che meccanico,
che trasmetteva una sua nostalgica tenerezza.
Giorgio Gaber, che si chiamava in realtà Gaberscik e
apparteneva a una famiglia di media borghesia, di origini
venete, senza agiatezze, con una casa in via Landonio, al
Sempione, era un giovane degli anni sessanta, cronista
della sua generazione, che aveva dietro le spalle la
guerra e gli anni duri della ricostruzione, un po
testoriano, come tanti giovani bulli e meno bulli di
Testori, un dio di Roserio riemerso al
Giambellino. E di quella stessa generazione ripercorre la
strada: dal biliando e dal bar alla scuola, fino
alluniversità, dalla politica alle delusioni della
politica, fino a unombra di qualunquismo, qualcosa
che sa di unamarezza profonda perchè le cose non
sono andate come si sperava, perchè troppi tradimenti si
devono scoprire in giro, perchè i sentimenti hanno fatto
crack, perchè rimane poco per sperare.
Gaber era nato il 25 gennaio del 1939. A quindici anni
aveva cominciato a suonare la chitarra per curare il
braccio sinistro, colpito da paralisi. Si era diplomato
ragioniere, sera iscritto alluniversità,
economia e commercio alla Bocconi. Si pagava gli studi
suonando al Santa Tecla, un locale dove incontrerà
Adriano Celentano e Enzo Jannacci. Proprio al Santa
Tecla, Giorgio Gaber verrà avvicinato da Mogol, il
futuro paroliere di Lucio Battisti. Mogol gli proporrà
di incidere un disco. Andrà alla Ricordi e con la
Ricordi, farà quattro canzoni, una diventata
famosissima, Ciao, ti dirò (scritta con
Tenco), la canterà anche Celentano, era uno dei primi
rock che si sentivano in Italia e faceva: Pupa ciao
ti dirò, pupa ciao ti dirò.... Un po
ossessivamente, ma quello era il ritmo. Testo banale, ma
allegro, per ridere e ballare. Eravamo nel 1958. Gli anni
Sessanta vedranno crescere la sua popolarità,
parteciperà anche ad alcuni Festival di Sanremo, farà
lattore cantante nei caroselli, presenterà qualche
trasmissione televisiva. Nel 1965 si sposerà con
Ombretta Comelli (futura Colli, futura presidente per
Forza Italia della provincia di Milano e lui dirà: «Ho
mia moglie che è di Forza Italia, ma fisicamente non ce
la faccio a essere di destra, ma come mi fanno incazzare
quelli di sinistra...). A Canzonissima 69 il Cerutti Gino
si presenterà con una canzone che è un ritratto della
sua città: "Com'e` bella la citta`", una tra
le prime canzoni in cui traspare la sua sensibilita`
sociale. Comincia con un invito: «Vieni, vieni in
città, che stai a fare in campagna, se tu vuoi farti una
vita devi venire in città. Comè bella la città,
comè grande la città, comè viva la città,
comè allegra la città...». Ma poi ripete, ripete
ossessivamente e la canzone diventa una nevrosi, la
nevrosi di una città che sempre più grande, sempre più
alta, sempre più rumorosa, una città che cancella il
Cerutti, lo nasconde nelle sequenze quotidiane e anonime,
lo annichilisce. Il protagonista di tante serate al bar,
così generoso, così appariscente, si consuma... nella
città «piena di strade e di negozi e di vetrine piene
di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che
produce, con le réclames sempre più grandi, coi
magazzini, le scale mobili, coi grattacieli sempre più
alti e tante macchine sempre di più». Siamo
allinizio di unaltra storia, quella del
signor G. E non sarà una storia più politica
dellaltra: Gaber politico alla sua maniera lo è
sempre stato e proprio perchè era capace di raccontare
quanto gli capitava attorno, di capire la gente, di
muoversi tra la gente, di sentire quanto andava mutando.
E tanto era mutato e il signor G. era il risultato. Con
il signor G., Giorgio Gaber raggiunse nel
1970 il palcoscenico del Piccolo Teatro. Laveva
voluto addirittura Paolo Grassi. "Il Signor G"
Sarà il primo di una lunga serie di spettacoli musicali
portati in teatro, spettacoli dove canzoni e monologhi si
alternano e lo spettatore vedrà consumarsi davanti a sè
un materiale che dice tante cose assieme, con
lambizione di rappresentare la vita nelle sue
vicissitudini, nei suoi tramonti, anche nella sua forza:
Gaber, in questo poco, nella smisurata resistenza del
signor G, schiacciato dalluniverso che si incombe,
sopra, sotto, di lato, parlerà di politica, cercherà di
parlare alle coscienze dello spaesamento comune in una
società, così che esalta la merce su tutto e non tiene
gran conto delluomo e delle sue debolezze.
Si può dire che era passato il Sessantotto, che erano
passate le cose migliori del Sessantotto e che Gaber le
aveva viste e le aveva anche viste morire e che aveva
partecipato con la saggezza di una generazione già
adulta che aveva già fatto le prove della sue speranze e
delle sue delusioni al bar del Giambellino.
Dalla prima prova al Piccolo Teatro, quasi ogni anni per
Gaber sarà un incontro nuovo con il pubblico e ogni
volta dirà qualche cosa di più della sua amarezza,
talvolta un po sentenzioso.
A Milano ci vive fino allinizio degli anni ottanta,
quando comincia la Milano da bere, quasi un colpo,
lultimo colpo prima di scegliere appunto la
campagna, la Toscana, dove è morto. Ogni tanto doveva
tornare, per il suo lavoro, ma confessava che gli veniva
la stretta al cuore: non riconosceva più nulla di una
città che nel ricordo continuava ad amare. Nuovi
spettacoli e poi una riapparizione, che sapeva un
po di bilancio, un album che diceva: La mia
generazione ha perso. Allora, un anno fa, se ne
discusse, si fecero polemiche e ci si chiese se quella
generazione aveva davvero perso. Qualcuno rispose che
quella generazione aveva perso, ma aveva venduto molti
dischi. Le vittorie o le sconfitte si misurano ovviamente
secondo i punti di vista. In una canzone,
Destra-sinistra, Gaber scriveva e cantava:
«Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ ma io dico che
la colpa è nostra/ è evidente che la gente è poco
seria / quando parla di sinistra o destra./ Ma cos'è la
destra cos'è la sinistra.../ Ma cos'è la destra cos'è
la sinistra.../Fare il bagno nella vasca è di destra/
far la doccia invece è di sinistra/ un pacchetto di
Marlboro è di destra /di contrabbando è di
sinistra...». E avanti così. La canzone forse non era
bella, ma esprimeva il disagio di chi non sapeva più a
che santo voltarsi. Disorientati, confusi, però sinceri.
Sarà qualunquismo? Unaltra volta aveva scrityto:
«Sì, qualcuno era comunista perchè, con accanto questo
slancio, ognuno era come più di se stesso. Era come due
pertsone in una. Da una parte la personale fatica
quotidiana e dallaltra il senso di appartenenza a
una razza che voleva spiccare il volo per cambiare
veramente la vita... E ora? Anche ora ci si sente come in
due. Da una parte luomo inserito che attraversa
ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza
quotidiana, dallaltra il gabbiano senza più
neanche lintenzione del volo perchè ormai il sogno
si è rreattrappito. Due miserie in un corpo solo».
AllUnità una volta spiegò: «Credo che il
pubblico mi riconosca una certa onestà` intellettuale.
Non sono nè un filosofo nè un politico, ma una persona
che si sforza di restituire, sotto forma di spettacolo,
le percezioni, gli umori, i segnali che avverte
nellaria».
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DA - L'UNITA'
I suoi pudori
in un mondo «svaccato»
di Ivan Della Mea
Seppe ascoltare e imparare molto da Dario Fo. Ascoltò e
imparò fino a quando non trovò una chiave tutta sua,
autonoma, funzionale.
Benvenuto Signor G.
Lho conosciuto, anni Sessanta, uomo capace di
pudori in un mondo, quello dello spettacolo ma non
soltanto quello dello spettacolo, assai meno svaccato e
insulso di quanto sia oggi: e comunque troppo per Giorgio
Gaber. In quel mondo lui si ritagliò un proprio spazio
per raccontare, per proporre, per ragionare adottando, io
credo, più il fioretto dellironia che
laccetta della satira. Cionondimeno era capace
dindignazioni che lo portavano al limite
dellinsulto cosmico. Di quando in quando tra gli
ammiccamenti irridenti del Signor G. intravvedevi la
grida liberata e dissacratoria dogni potere piccolo
o grande che fosse del libertario, dellanarchico e
anche, questo penso e credo fermamente, delluomo
abbastanza solo.
Ci conoscemmo nel triassico alle Messaggerie musicali in
Galleria a Milano.
Aveva ascoltato una mia canzone El mè gatt e mi suggerì
di smussare degli spigoli a suo giudizio un po
troppo vivi del tipo mi a pesciat ghe sccepi
l de drèe-io a pedate gli rompo il didietro:
non mi convinse e non accettai il consiglio.
Non ho condiviso molte delle sue canzoni. In particolare,
cito il titolo a memoria, Io se fossi Dio
e non so
se la d di Gaber fosse maiuscola o minuscola.
Era una canzone-invettiva; tirava fendenti di durlindana
a destra e a manca epperò minfastidiva quel suo
picchiare duro in versi e musica standosene
coverto in campagna: trovai il modo per
farglielo sapere e continuammo a rispettarci.
Ora Giorgio Gaber ci lascia. Oltre a perdere un
grandissimo artista-artigiano della canzone e dello
spettacolo perdiamo anche una persona che ha saputo
attraversare il suo mondo e la sua vita con grande
intelligenza e grande educazione: sto parlando di perle,
di rarità assolute.
Ciao Giorgio
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DA - L'UNITA'
Qualcuno era
comunista
di red
Qualcuno era comunista
Questo è il testo di una delle ultime canzoni di Gaber.
E' il brano che conclude il Cd
La mia generazione ha perso del 2001.
"Qualcuno era comunista perché era nato in
Emilia.
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il
papà. .. la mamma no.
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una
promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il
paradiso terrestre.
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione
troppo cattolica.
Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il
teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura
anche. . . lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto
tutto.
Qualcuno era comunista perché prima
prima
prima
era fascista.
Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia
andava piano, ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava
persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una
brava persona.
Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il
popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si
commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva
bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato
dagli operai che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare
l'operaio.
Qualcuno era comunista perché voleva l'aumento di
stipendio.
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no,
domani forse, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era comunista perché la borghesia, il
proletariato, la lotta di classe...
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava solo RAI TRE.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio,
qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli
impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il
materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.
Qualcuno era comunista perché era convinto di avere
dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli
altri.
Qualcuno era comunista perché c'era il grande partito
comunista.
Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande
partito comunista.
Qualcuno era comunista perché non c'era niente di
meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior
partito socialista d'Europa.
Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da
noi, solo in Uganda.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di
quarant'anni di governi democristiani incapaci e mafiosi.
Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia,
la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica eccetera,
eccetera, eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro era
comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella
cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era
qualcos'altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà
diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere
vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una
spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la
necessità di una morale diversa. Perché forse era solo
una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un
desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo
slancio, ognuno era come
più di sé stesso. Era
come
due persone in una. Da una parte la personale
fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a
una razza che voleva spiccare il volo per cambiare
veramente la vita.
No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano
aperto le ali senza essere capaci di volare
come dei
gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte
l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo
squallore della propria sopravvivenza quotidiana
e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione
del volo perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo".
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DA - IL CORRIERE DELLA SERA
Il 24 gennaio
uscirà «Io non mi sento italiano»,
il suo ultimo disco Addio al «Signor G»: è morto
Giorgio Gaber Il cantante e attore aveva 63 anni. E'
deceduto nella sua casa a Montemagno, in provincia di
Lucca: era malato da tempo MILANO - Il cantante e attore Giorgio
Gaber è morto a Montemagno, nella sua casa in provincia
di Lucca. Gaber, nato a Milano, aveva 63 anni ed era malato
da tempo. Il funerale si svolgerà venerdì3 gennaio,
alle 14, nell'Abbazia di Chiaravalle (Pavia). Alla
mattina, dalle 9 e 30 alle 13, sarà allestita la camera
ardente nella sede di via Rovello del Piccolo Teatro di
Milano. Con «La mia generazione ha perso» (album uscito
nel 2001) Gaber era tornato al mercato discografico
ufficiale, dopo molti album esclusivamente dedicati alla
registrazione integrale dei suoi spettacoli. Il 24
gennaio uscirà «Io non mi sento italiano», l'ultimo
lavoro del grande artista italiano.
LA VITA - Giorgio Gaber (vero nome Giorgio Gaberscik)
nasce a Milano il 25 gennaio 1939. All'età di 15 anni,
si esercita con la chitarra per curare il braccio
sinistro, colpito da paralisi. Dopo aver conseguito il
diploma in ragioneria, s'iscrive alla facoltà di
Economia e Commercio della Bocconi e si paga gli studi con
i soldi guadagnati suonando al Santa Tecla, un locale
milanese frequentato fra gli altri da Adriano Celentano:
per un certo periodo di tempo, fa parte del gruppo che
accompagna quest'ultimo, assieme ad Enzo Jannacci. BRILLANTE
CARRIERA - Proprio al Santa Tecla, sul finire degli anni
'50, viene notato da Mogol, che lo invita alla Ricordi per
un'audizione: il provino ha esito positivo, ed è lo
stesso Ricordi a proporgli d'incidere un disco che
risulta composto da quattro canzoni, la più celebre
delle quali è certamente «Ciao, ti dirò», scritta con
Luigi Tenco: comincia così una brillante carriera che,
nel corso del decennio successivo, lo vede cantante
melodico di successo («Non arrossire», «Le nostre
serate», «Le strade di notte») ed entertainer garbato
ed ironico («Il Riccardo», «Trani a gogò», «La
ballata del Cerruti», «Torpedo blu», «Barbera e
champagne»).
IL MATRIMONIO - Nel 1965, si sposa con Ombretta Colli.
Partecipa inoltre a quattro edizioni del Festival di
Sanremo (con «Benzina e cerini», 1961; «Così felice»,
1964; «Mai mai mai Valentina», 1966; «E allora dai»,
1967), oltre a condurre vari spettacoli televisivi;
nell'edizione 1969 di «Canzonissima» propone «Com'è
bella la città», uno dei primi brani che lasciano
intravedere il successivo cambio di passo. Nello stesso
periodo, il Piccolo Teatro di Milano gli offre la
possibilità di allestire un recital, «Il signor G»: da
qui, la sua decisione di abbandonare la facile
popolarità offerta dalla tivvù, per concentrarsi esclusivamente
sugli spettacoli dal vivo, nelle forme del
teatro-canzone. «Far finta di essere sani» (1972),
«Libertà obbligatoria» (1976), «Polli d'allevamento»
(1978), «Il grigio» (1989), «E pensare che c'era il
pensiero» (1995), «Un'idiozia conquistata a fatica»
(1998) sono i suoi lavori più significativi: fino al trionfale
ritorno, nel 2001, con un nuovo disco, «La mia
generazione ha perso».1 gennaio 2003
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