Benjamin, Franz Kafka. Interpretazione come lettura.

di lisa

 

Walter Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962.

 

 

Con un poco di pazienza e di altalena fra le onde possiamo vedere cosa abbia mai scritto uno dei più noti filosofi del ’900 riguardo al diritto, alla giustizia ed al suo studio, ponendo particolare interesse al tema dell’interpretazione. Ma prima:

 

Interpretare significa, parrà strano – non importa – leggere, o altrimenti: rispondere.

Ed intanto, fra le due attività, vi passa tutta la distanza che intercorre fra il pensiero ed il gesto.

Ma ad essere esatti, se “attività” è il termine senz’altro più idoneo a caratterizzare il gesto del rispondere, forse per il pensiero dovremmo più giustamente coniare una non-attività, e per la precisione riferirci alla dimensione dell’attesa.

 

“C’era una volta…” una volta, un giro di volta, alla Derrida, ed inizia la fiaba, in un bel paese tanto e tanto tempo fa. È l’incipit più abusato di tutte le “narrazioni” che, per l’appunto: narrano azioni.

Ma una fiaba in particolare, di un autore in particolare, che non ha mai avuto confidenza con le scadenze né col tempo, riferisce di un uomo, un agrimensore, K. (lo stesso K. de Il processo che sconta la sua vita Vor dem GesetzDavanti alla legge) e del suo lungo peregrinare per accedere al castello.

Siamo plausibilmente fuori dal tempo; la condanna è di esserne prossimi ma divisi.

 

Walter Benjamin, forse il più attento lettore di Franz Kafka, dedica a lui un suo bellissimo saggio nel tentativo di leggere Kafka attraverso il significato ebraico dell’Hagadah, e così lo indica. Dei personaggi kafkiani pare particolarmente attratto dagli “studenti”, dagli “aiutanti”, coloro che portano fatica inestinguibilmente.

Così Benjamin: «C’è, fra le creature di Kafka, una razza che tiene particolarmente conto della brevità della vita. “Quella è gente! pensate un po’, non dormono!” “E perché non dormono?” “Perché non si stancano mai”. Bisogna pensare ai bambini, come vanno malvolentieri a letto. Mentre dormono, potrebbe accadere qualcosa che richiede la loro presenza. “Non dimenticare il meglio”, suona un monito che ci è familiare da un’oscura massa di antiche storie, e che non si trova forse in nessuna di fatto. Ma la dimenticanza riguarda sempre il meglio, poiché riguarda la possibilità della redenzione. – Nei loro studi gli studenti vegliano, e forse la massima virtù dello studio è proprio quella di tenerli desti».

 

Poco oltre Benjamin prosegue con considerazioni di natura storico-sociali: «Nell’epoca della massima estraniazione degli uomini fra loro, dei rapporti infinitamente mediati che sono ormai i loro soli, - sono stati inventati il film e il grammofono. Nel film l’uomo non riconosce la propria andatura, nel grammofono non riconosce la propria voce. Ciò è confermato da esperimenti. La situazione del soggetto di questi esperimenti è quella di Kafka. È questa situazione che lo rimanda allo studio. Può darsi che egli vi ritrovi frammenti della propria esistenza, che sono ancora compresi nella sua parte. Che egli ritorni a ricevere il gesto perduto come Peter Schlemihl la sua ombra venduta. Che egli arrivi a comprendersi – ma con che enorme sforzo! Poiché è una tempesta che spira dall’oblio. E lo studio è una cavalcata che muove contro di essa» (1934).

Nel 1940 sappiamo che sarà L’Angelus Novus ad avere le ali spalancate, ove nessuna forza potrà contrastare quella bufera che «lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il culmine delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».

 

Altresì un determinato tipo di carattere umano, tanto consimile a Benjamin, occorre notare – «non crede mai di “avere la scelta”. È abituato a cercare in ogni situazione solo quella via d’uscita che essa permette. Egli è in grado, in ogni momento, di leggere nella vita che “non si può andare avanti così” –». Affianco possiamo accostare altre parole: «La redenzione non è un premio sulla vita, ma l’ultimo rifugio di un uomo a cui, come dice Kafka, “la strada è sbarrata dal suo proprio osso frontale”». Del resto, del Messia che verrà, «un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo». Nel nostro semplice fallimento.

 

Manca alternativa, perché i conti un poco s’aggiustino, così non resta se non un cavallo, l’esemplare maestro «Bucefalo, “il nuovo avvocato”, che, senza il grande Alessandro – e cioè libero dal conquistatore lanciato in avanti –, prende la via del ritorno. “Libero, i fianchi non più costretti dai lombi del cavaliere, presso la lampada quieta, lontano dai clamori delle battaglie alessandrine, egli legge e volta le pagine dei nostri vecchi libri”». 

«Gli animali sono i depositari del dimenticato, poiché la cosa più estranea e dimenticata è il corpo, sono gli animali a dedicarsi alla riflessione». Così, la unica via che conduce contro lo spesso vento, la coltre bufera, opponendosi al nostro proprio peso, che ci lascia attorno al nostro corpo molesto, gobbo, desti, è lo studio. Ma colui che veglia, non conosce giorno, girovaga attorno al Castello, o fermo, davanti alla Legge, e a dispetto di tutti gli orari, deve «spostare ere cosmiche», confondere il tempo, attendendo. «Non è detto infatti che le deformazioni che il Messia verrà un giorno a correggere siano solo deformazioni del nostro spazio. Sono anche deformazioni del nostro tempo».

 

Stando a Walter Benjamin, le creature di Kafka sono poste in quella costellazione atemporale di lettura ed interpretazione, perennemente fuori dal tempo, fuori dalla legge, adialogiche, fino ad arrivare all’asserzione: «Il diritto che non è più esercitato ed è solo studiato, è la porta della giustizia. La porta della giustizia è lo studio»; uno studio contro vento, avverso alla bufera del destino che trascina via tutto, distrugge tutto. Uno studio aggrappato alla propria corporeità, senza più testi, «i suoi studenti, scolari senza scrittura». Animali.

 

Abbiamo sostenuto, inizialmente, che interpretare può significare semplicemente “leggere”, o paradossalmente “rispondere”.

Siamo giunti a pensare, attraverso Kafka, che più esattamente interpretare significhi leggere senza scrittura da leggere, «leggere ciò che non è mai stato scritto», l’attesa.

Se ogni interpretazione implica immediatamente una reazione, un’attivazione del proprio patrimonio emotivo e culturale, risulta direi immediato, pensare si risolva in una forma di “risposta”, che prende la via della bufera e della tradizione, con l’irruente e violento ingresso nella vita, nei suoi sistemi di potere, così come Nietzsche prima (basti confrontare il suo concetto di genealogia), Benjamin dopo, hanno indicato.

L’interpretazione così si risolve nell’azione di rispondere, scrivere, reagire, risentire, nel ressentiment, risentimento; la lettura si converte in comportamento, azione, nel tempo, tradimento che cancella via tutto.

 

Continua Benjamin su Kafka: «Dalle “infime regioni della morte” soffia il vento che lo favorisce. “Fra i Greci come presso i barbari, s’insegna  che devono esistere due esseri principali e due forze particolari opposte, di cui l’una spinge diritto davanti a sé, mentre l’altra devia e risospinge indietro”. Ripiegamento è la direzione dello studio, che trasforma la vita in scrittura»; ed è allo stesso tempo l’unica direzione per chi «non ha scelta», così lo sospinge il travaglio, fra le incrinature del tempo e della bufera del progressivo esistere: gobbo, presta estrema attenzione, legge, studia. La sua lettura, la sua interpretazione è di umile natura: «Se Kafka non ha pregato – ciò che non sappiamo –, gli era propria, in altissima misura, ciò che Malebranche definisce “la preghiera naturale dell’anima”: l’attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura».

 

Così, Benjamin presume che la preghiera, la parola, sia attenzione, ascolto, lettura, studio. E allude agli scritti di Kafka (il testamento di Kafka ne voleva il fuoco), come a parabole, o più precisamente: Hagadah: stanno «alla dottrina come l’Hagadah all’Halacha». «Ma possediamo forse la dottrina che è accompagnata dalle parabole di Kafka e illustrata nei gesti di K. e nelle movenze dei suoi animali?». No. Sono la lettura del testo che manca, sono lo studio senza scrittura. Chiedono un altro passato in sorte. Attendono.

 

Gran parte della gnoseologia moderna e contemporanea, a partire da Kant (ma in un certo senso, fino a Kant), si è affidata agli strumenti aprioristici conoscitivi per spiegare l’ermeneutica, l’interpretazione dell’altro. Banalizzando, hanno disinvoltamente applicato la regressione della “lettura” a “risposta”, traducendo le mosse per la comprensione, nelle  stesse produttive per la scrittura, per la risposta. Evidentemente sono gli sviluppi postumi di un vecchio cogito ergo sum. La linea di un hegelismo della ragione è già tracciata, incanalata nella forza della tradizione dei vincitori, di confine in confine.

Diversamente. Altri han persino tentato di rendere la “passività” del gesto, persino della scrittura, in una forma di lettura dell’illeggibile: del molteplice informe e dionisiaco, da restituire persino la “risposta” in lettura, la “scrittura” a “lettura”. Come a dire: è l’unico modo che abbiamo per vivere, non c’è scelta, fermarci, ed usare tutte le parole che abbiamo per tacere. Restituendo il tempo, la potenza, l’eterno suo ritorno, ad ogni gesto. Di ogni parola vivere il movimento ed il fremito, il suo passaggio di soglia, il suo scomparire, l’aprirsi nello spazio letterario, che è lettura, priva di contesto, che non sia il solo da inventare, sempre ogni volta, che mette in discussione tutto, di soglia in soglia. Labile.

 

Così, l’Hagadah kafkiana, si pone come integrum, spazio, attraversamento di soglia, fessura del tempo, redenzione immobile; fragile battito, di gesto che freme. È lettura, non compromessa nello sviluppo, nel progredire della bufera, della tradizione. Dire tutto e tutto insieme, senza un solo spargimento di sperma, o di sangue, perché il mondo fiorisca interamente.

Lo scrittore, lo scrittore come interprete, come lettore, «per quanto si dia immediatamente la libertà che non ha – così Blanchot –, trascura le condizioni vere del suo affrancamento… non possiede che l’infinito, il finito gli manca, il limite gli sfugge. Non si agisce nell’infinito, non si compie nulla nell’illimitato… L’irrealtà comincia col tutto».

Per Kafka, l’interpretazione è completa, intera, estranea ai ritmi biologici dell’affrancamento, fuori dal tempo, si mostra, mostra se stessa, e tutta la possibilità, dicendo. Con Wittgenstein: «la proposizione mostra il suo senso».

Ed in questo occorre non essere compromessi, non esercitare il diritto o frammentarsi nelle azioni, ma predisporsi all’integrità dello studio e della scrittura. Potremmo dire: l’interpretazione sia l’attraversamento della scrittura, la sua lettura, senza uscirne, adesione, inizio e termine, senza muoverne di lì azione, senza la colpa di perpetrare bufera.

 

Benjamin: «“Sancio Pancia, che del resto non se n’è mai vantato, nel corso degli anni, mettendo accanto al suo dèmone – cui diede in seguito il nome di Don Chisciotte – nelle ore serali e notturne una quantità di storie di cavalleria e di brigantaggio, riuscì a stornarlo talmente da sé che questi si diede a compiere sfrenatamente le azioni più folli, le quali però, in mancanza di un oggetto predestinato che avrebbe dovuto essere appunto Sancio Pancia, non facevano del male a nessuno. Sancio Pancia, uomo libero, seguiva imperturbabile Don Chisciotte nelle sue scorribande, forse per un certo senso di responsabilità, e ne trasse un grande ed utile svago fino alla fine dei suoi giorni”. Sancio Pancia ha mandato avanti il suo cavaliere. Bucefalo è sopravvissuto al suo. Uomo o cavallo, non è più così importante, purché il peso sia stato tolto di dosso».