2 dicembre 2000

Andreotti torna in aula
per l'omicidio Pecorelli


PERUGIA - Giulio Andreotti ripiomba nell'incubo delle aule giudiziarie. La procura della Repubblica di Perugia ha presentato appello contro la sentenza con cui il senatore a vita è stato assolto dall'accusa di avere fatto uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Il nome di Andreotti, torna ad accompagnarsi, oltre a quello del giudice Claudio Vitalone, ai boss mafiosi Gaetano Badalamenti e Pippo Calò, i presunti mandanti dell'omicidio. E a quelli di Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati, ritenuti dall'accusa i killer del giornalista di "Op".

Oggi era l'ultimo giorno utile all'accusa per presentare ricorso in appello contro la sentenza della Corte d'assise. Con un documento di una sessantina di pagine depositate in cancelleria, pochi minuti prima del termine previsto dalla legge per la presentazione dell'appello, si riapre dunque il fronte giudiziario umbro che per anni, insieme al processo per associazione mafiosa a Palermo, ha accompagnato Andreotti.

Gli avvocati difensori non hanno visto le nuove tesi dell'accusa. Quali novità ci possano essere nell'impianto accusatorio rispetto al dibattimento di primo grado è per ora difficile da capire. Il procuratore capo Nicola Miriano ha detto in modo ermetico: "Ci sono istanze di rinnovazione del dibattimento. Sul tenore preferisco non pronunciarmi. Ci sono stimoli a una lettura delle risultanze processuali dal punto di vista della procura".

E' comunque probabile che l'attenzione dei pubblici ministeri si sia concentrata su quegli elementi che i giudici di primo grado avevano considerato non completamente provati. In particolare il collegamento tra Calò e Danilo Abbruciati, tra mafia e banda della Magliana, ma anche il coinvolgimento di Cosa nostra nel delitto o il collegamento tra Andreotti e l'omicidio.

Elementi che i pm cercheranno di provare nel processo di secondo grado, unendoli forse a quelli già considerati attendibili dalla Corte al termine del processo di primo grado: dai rapporti Salvo-Andreotti a quelli banda della Magliana-Vitalone.

La decisione della procura di Perugia di impugnare la sentenza è stata commentata con la solita ironia da Andreotti. "E vabbè Giulia, vorrà dire che sarà un'occasione per rivederci", ha detto il senatore a uno dei suoi difensori, l'avvocato Giulia Bongiorno.

Pienamente soddisfatto invece è apparso l'avvocato Carlo Taormina, difensore di Vitalone. Sul magistrato rischiavano di rimanere infatti degli "schizzi di fango": così la sentenza di primo grado definiva i suoi presunti rapporti con qualche esponente della banda della Magliana.




18 ottobre 2000
Allarme a Milano
una bomba in Duomo


MILANO - L'ha trovata quasi per caso un impiegato, poco prima di mezzogiorno. In un sacchetto apparentemente innocuo, sul camminamento delle terrazze del Duomo di Milano, c'era una bomba pronta a esplodere, in un posto estremamente visibile, ed estremamente frequentato: il camminamento delle terrazze. L'ordigno era stato sistemato sul davanzale dal quale i turisti di solito si affacciano per vedere la piazza. Precisamente, all'altezza della terza guglia da sinistra guardando la facciata. Quando la bomba è stata trovata, su quel camminamento c'erano almeno 130 persone.

L'ordigno, dotato di timer, sarebbe esploso alle 15. Subito dopo il ritrovamento, è scattato l'allarme. E' stato chiamato il 113 e sul posto si sono recati anche il questore di Milano, Giovanni Finazzo, e il sostituto procuratore Stefano Dambruoso.

Gli artificieri della polizia hanno quindi disattivato l'ordigno.

All'interno del sacchetto c'era dell'esplosivo con un congegno, che comprendeva una sveglia. Il congegno doveva attivare un chilogrammo di polvere da cava in un contenitore per alimenti e avrebbe dovuto esplodere alle 15.00. La deflagrazione, comunque, qualora fosse avvenuta, sarebbe stata attutita dal fatto che la bomba era all'aperto.

Gli inquirenti parlano genericamente di "cosa seria". Tanto che accertato il contenuto del sacchetto, dal quale fuoriuscivano dei fili, tutte le persone che si trovavano sulle terrazze del Duomo sono state fatte scendere. E parte della zona adiacente è stata transennata.

Oggi era in programma una manifestazione per la presentazione del "Concerto di Natale 2000", promossa dal Comune e dalla Regione. Il 28 giugno scorso, alcune bottiglie molotov erano state trovate nella basilica di Sant'Ambrogio.


19 dicembre 2000

Elezioni americane

Il repubblicano, con i 271 voti del Collegio elettorale,
è ufficialmente il 43esimo presidente degli Stati Uniti

Il Grandi Elettori
incoronano
George W. Bush

WASHINGTON - I Grandi Elettori hanno detto "sì": George W. Bush è, da oggi ufficialmente, il quarantateesimo presidente degli Stati Uniti. La "boa" presidenziale è stata superata quando il Nevada ha annunciato che i suoi quattro voti andavano al governatore del Texas, facendogli superare la fatidica soglia dei 270 voti: con 271 preferenze Bush Jr. ha conquistato il biglietto d'ingresso per la Casa Bianca.

Un lasciapassare che gli ha affidato il Collegio elettorale, composto di 538 Grandi Elettori che normalmente - o per legge o per tradizione (la norma varia da stato a stato) - votano per il candidato che ha ricevuto nelle consultazioni popolari la maggioranza dei voti nel suo stato.

Il vicepresidente Al Gore, candidato democratico, aveva ottenuto un numero maggiore di voti popolari su scala nazionale rispetto a Bush (300.000 voti in più). Ma il suo sogno di diventare presidente è svanito quando ha perso la battaglia legale per assicurarsi i voti dei 25 Grandi Elettori della Florida.

L'ultimo atto delle elezioni americane si consuma così: in 50 parlamenti statali e nel Distretto di Columbia i grandi elettori, vestiti a festa come si confà alle grandi occasioni, hanno compilato una scheda di voto esprimendo le preferenze a cui erano stati vincolati dall'esito della consultazione del 7 novembre.

Ma l'atto tradizionalmente cerimoniale che di solito si consuma nel disinteresse generale, quest'anno si è svolge sotto la luce dei riflettori: le telecamere della Cnn hanno seguito l'avvenimento partendo dal Tennessee, lo stato di origine del democratico Al Gore che il 7 novembre ha "tradito" il vice-presidente democratico consegnando i suoi undici grandi elettori al repubblicano Bush.

E' stata quindi la volta della Florida, il teatro della grande contesa sui "chad", i coriandoli di carta delle schede non contate dai computer in cui Gore aveva riposto le sue speranze di vittoria: "E' un momento storico", ha salutato l'occasione il governatore dello stato Jeb Bush, fratello del presidente eletto, poco prima che i 25 elettori repubblicani consegnassero ufficialmente lo stato nelle mani di George W.

Bush e del suo vice Dick Cheney.

Il timore di colpi di scena della vigilia, col passare delle ore, è andato scemando: ma lo stretto margine tra i due candidati (271 voti elettorali per Bush, 267 per Gore) ha tenuto tutti, fino all'ultimo, sulla corda. Se tre elettori di Bush avessero cambiato bandiera, la prossima presidenza in teoria avrebbe potuto ancora andare a Gore.

Per questo, quando in Ohio uno dei grandi elettori si è ammalato, l'establishment repubblicano ha preferito andare sul sicuro, e ha scelto un "vice" a prova di bomba: il presidente locale del partito Bob Bennett. Ci sono state complicazioni anche nel nevoso Minnesota dove le strade inagibili hanno impedito a tre grandi elettori di raggiungere la capitale St. Paul: sono stati a loro volta rimpiazzati da democratici "doc" e i dieci voti dello stato dove è nato Bob Dylan sono finiti nel calderone dei voti per Gore.

In alcuni stati ha prevalso il colore locale. In North Carolina prima del voto dei grandi elettori ha suonato la banda, in Montana un coro scolastico ha cantato l'inno nazionale. Nell'Alabama, reduce da violenti tornado, cittadini in costume si sono mascherati da "padri della patria" indossando abiti e parrucche da James Madison e Benjamin Franklin.

Dopo un così lungo travaglio, c'è bisogno di esorcizzare: l'incertezza è svanita, l'America ha un presidente, il mondo (e le sue Borse) possono tirare un respiro. La conta ufficiale dei certificati è prevista, per il 5 gennaio, al Congresso degli Stati Uniti. Ma quella sarà - veramente - una semplice formalità.



22 dicembre 2000
Roma, bomba al Manifesto
Un ferito, è l'attentatore

 

ROMA - E' appena passato mezzogiorno. Via Tomacelli, pieno centro di Roma: dal terzo piano dell'edificio che ospita il Manifesto, un boato. Lo sentono tutti nel palazzo e nei negozi sulla strada. Lo sentono i tantissimi romani che nella vicina via del Corso si accalcano sulle vetrine per le ultime compere natalizie. E' scoppiata una bomba, proprio fuori dalla porta della redazione del quotidiano. I giornalisti che aspettano dentro i locali l'ora della riunione di redazione - le 12.30 - capiscono d'un colpo cosa sta accadendo: i vetri della redazione saltano in pezzi, gli armadi si sventrano, il soffitto dell'ingresso si frantuma. Corrono verso l'uscita: sul pianerottolo un ferito. "Ha le gambe spappolate", grida chi arriva per primo alla porta. Il ferito è Andrea Insabato , quarantenne, ex militante nei gruppi di estrema destra, prima Nar, poi Terza posizione. Vicino anche a Forza Nuova, anche se Roberto Fiore, leader del movimento, smentisce ogni legame: "Andrea Insabato lo conosco da vent'anni, sono un suo amico, ma non è dei nostri. E' un tipo eccentrico, e la Digos lo sa benissimo, un 'cane sciolto' come si diceva un volta, gira dappertutto e lo si può trovare ai comizi di An, a quelli del Movimento sociale Fiamma Tricolore, come anche ai nostri".

In ogni caso, è lui l'attentatore. Stava piazzando l'ordigno quando gli è esploso addosso. Forse gli è caduto, forse gli è esploso perché l'ha appoggiato a terra con troppa violenza nella fretta di scappare. Dopo essere stato ricoverato con ferite gravi alle gambe e piantonato al vicino ospedale San Giacomo, a un passo dal luogo dell'esplosione, Insabato è stato trasferito al San Camillo. Ad Insabato è stata amputata una falange della mano sinistra. Salva invece la gamba destra che era rimasta gravemente lesa nello scoppio.

Intanto, dal fronte investigativo, spunta la pista di un complice. Insabato, dicono gli inquirenti, non era solo. Aveva un complice che si sarebbe allontanato da via Tomacelli su un motorino dopo lo scoppio, secondo le testimonianze di alcuni testimoni, cui la polizia crede. L'ordigno, a quanto gli investigatori hanno riferito ai giornalisti del Manifesto, era fatto da oltre un chilo di polvere nera e pirica assemblata da vari bomboni pirotecnici, con una miccia troppo corta.

Subito dopo l'esplosione,
via Tomacelli e dintorni si trasfigura : alle luci natalizie e ai Babbo Natale che offrono giri in finte slitte, alle cornamusa che risuonano di festa, si sostituiscono le luci delle sirene di polizia, ambulanze, vigili del fuoco. Un elicottero sorvola la zona. La gente, confusa dalle corse ai negozi, accorre dove tutti si affollano, sotto la redazione del Manifesto. Alle forze dell'ordine non riesce semplice gestire l'improvviso cambio di scenario in questa zona della città. Fanno cordone, isolano quanto possono e chi possono. Ma arrivano le telecamere, i giornalisti, esponenti politici. Si accavallano i racconti.

"Abbiamo sentito un botto fortissimo. Subito le stanze sono state invase dal fumo e dall'odore di polvere e fuoco. La porta del giornale è stata scardinata, sul pianerottolo c'era quest'uomo ferito in un lago di sangue", racconta con un filo di voce il direttore del giornale, Riccardo Barenghi. Valentino Parlato, l'ex direttore del quotidiano, era al primo piano dell'edificio al momento dello scoppio. "E' diventato tutto buio d'improvviso. I danni sono tanti, ma niente in confronto a quello che sarebbe potuto accedere se la bomba fosse stata buttata dentro la redazione: una strage".

E sulla dinamica dell'attentato la polizia sta ancora indagando. Secondo quanto riporta
KwNews, la bomba era nascosta in un pacco di Natale: un testimone racconta che l'uomo che portava il pacco è salito al quarto piano, dove si trovano gli uffici della pubblicità del Manifesto. Quando si è reso conto che quella non era la sede della redazione, l'attentatore è sceso per le scale dal quarto al terzo piano. A questo punto la bomba è esplosa e Insabato è rimasto ferito. Gli inquirenti in questa fase, in attesa di interrogare Insabato, non sono ancora in grado di precisare se l'intenzione dell'uomo era quella di lasciare il pacco davanti alla porta della sede del quotidiano o se, addirittura, avesse intenzione di consegnarlo all'interno. In tal caso, sarebbe davvero stata una strage.




23 dicembre 2000
Assolto con formula piena
il cardinal Giordano

LAGONEGRO (Potenza) - Il cardinale di Napoli Michele Giordano è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura, usura continuata e appropriazione indebita. Il gup Vincenzo Starita ha assolto anche il nipote del cardinale, Nicola Giordano.

Il cardinale rientrerà domani a Napoli e domenica 24 celebrerà la messa di mezzanotte nel duomo. Per ora si limita a dire: "Sono sereno come ieri e come sempre, perchè lo era la mia coscienza. La mia coscienza mi diceva che il verdetto non poteva che essere questo. Ora torno con più forza alla mia attività pastorale".

Soddisfazione per l'assoluzione del cardinale viene espressa dal portavoce della Santa Sede Joaquin Navarro che però parla anche di violazione del Concordato, di indagini che si sono "volute" proseguire, di "sorpresa" per le modalità delle perquisizioni e di turbativa del libero esercizio del lavoro di un cardinale, garantito dall'accordo con l'Italia.

"Sin dall'inizio del procedimento - ha aggiunto Navarro - è apparsa certa la estraneità del cardinale alle vicende in imputazione. A conclusione del processo non si pò non deplorare che una persona abbia dovuto subire un danno così grave e prolungato per due anni e mezzo; un danno che indirettamente si è riversato anche su istituzioni della Chiesa. Non si può infine dimenticare l'avvenuta violazione del Concordato per la mancata comunicazione dell'emissione di un avviso di garanzia nei confronti del cardinale".

"I magistrati parlano nelle aule giudiziarie e non fuori", dichiara invece il pm Michelangelo Russo. "Noi abbiamo fatto il nostro dovere, con costanza e con coraggio. Aspettiamo di leggere la sentenza". Mentre l'ex sostituto procuratore di Lagonegro, Manuela Comodi (che assieme al procuratore capo Russo ha condotto per circa tre anni l'inchiesta sull'usura in Val d'Agri) si limita "a prender atto" della sentenza.

Infine il commento, lapidario, del giudice per le indagini preliminari Starita: "Ritengo di aver fatto solo il mio dovere: sono un umile servitore di questa Repubblica".