di Alessandro Natta -

Cinquant’anni di presenza, di impegno, di azione nel campo sindacale esigono senz’altro un riconoscimento schietto e un fervido augurio, in particolare da parte di chi, come è accaduto a me, ha militato a lungo nella vita politica dalla parte del movimento operaio, per l’affermazione dei diritti e l’avanzamento dei lavoratori, nel segno sempre e nel rispetto dei grandi ideali di libertà, di giustizia sociale e di eguaglianza.

Ora che ho superato la soglia degli ottant’anni, e mi ritrovo libero da obblighi e responsabilità politiche, sono sempre più indotto a rievocare, il più possibile con scrupolo di verità, il cammino difficile, spesso aspro, ma anche esaltante che la sorte mi ha concesso di percorrere.

Ho vissuto, quando ero ragazzo, in un ambiente e in una famiglia molto politicizzati, la divisione del movimento operaio, lo scontro tra "serratiani e bordighiani", e la sconfitta dolorosa che travolse tutti i partiti di sinistra e democratici e l’intera gloriosa organizzazione sindacale.

A lungo sono stato nella schiera degli sconfitti, ma non rassegnati. Giovane, negli anni dell’università, alla Scuola Normale di Pisa, mi gettai, anche per l’urto illuminante della guerra civile in Spagna, nella cospirazione antifascista in un movimento unitario che dai liberalsocialisti, ai comunisti giungeva fino ai cattolici della FUCI.

Poi fummo travolti tragicamente dalla guerra, e dalla disfatta catastrofica, militare e politica, del fascismo e della monarchia. Il popolo italiano ha duramente pagato le sue responsabilità, gli obblighi ed i cedimenti di fronte alle follie imperialistiche e belliciste del regime di Mussolini. E se dall’abisso dell’8 settembre del ‘43 siamo riusciti a riscattare l’indipendenza, la libertà e la dignità della nostra Patria, è perché le non spente forze dell’antifascismo, e del movimento sindacale, sono state capaci di organizzare una resistenza popolare, una guerra di liberazione, secondo una visione e un patto unitario.

La rinascita e il rinnovamento della Nazione e dello Stato, le conquiste fondamentali - dalla Repubblica alla Costituzione -, la prospettiva di una democrazia aperta e progressiva - di una "Repubblica democratica fondata sul lavoro!" - hanno trovato fondamento proprio nell’impegno e nell’opera comune dei partiti della sinistra (comunisti, socialisti, azionisti) e della DC, e nel sostegno di un grande e unitario sindacato.

Tra il 1947 e il ‘49, questa impresa ardua ed enorme di rifondazione e di riscostruzione subisce un duro colpo per la rottura, in campo internazionale e in Italia, della grande alleanza antifascista, e perché l’Europa passa rapidamente dalla divisione in due campi politici contrapposti alle alleanze e ai blocchi militari, dalle contese ideologiche alle tensioni della guerra fredda, agli equilibri fondati sul terrore atomico.

Giovane deputato ho vissuto con profonda amarezza e grande preoccupazione la stagione delle rotture e delle contrapposizioni nel campo politico, e forse ancor più dolorosamente, perché mi parvero meno giustificate, quelle in campo sindacale, con la costituzione di tre confederazioni, distinte e coinvolte inevitabilmente in una gara continua.

Non intendo certo affrontare l’indagine sulle responsabilità di questa lunga, dura e pericolosa divisione e scontro politico e sindacale. Mi preme invece indicare un altro dato, essenziale, mi sembra per quel bilancio storico che da parti diverse si viene oggi sollecitando, e per orientarsi nella attuale situazione del nostro Paese.

Se le lotte sociali, civili, politiche che nei primi decenni dopo la guerra hanno conosciuto manifestazioni di grande asprezza, fino ad episodi sanguinosi nelle campagne del Sud e nelle fabbriche del Nord, non hanno tuttavia travalicato, non hanno determinato né un clima né un rischio effettivo di guerra civile; se le forze di opposizione e di Governo, insomma, non sono uscite fuori dai principi e dalle regole dell’ordinamento costituzionale, non hanno dimenticato mai gli interessi generali della Nazione, i beni supremi della pace e della democrazia, ciò dovuto essenzialmente all’esperienza politica dei padri fondatori della Repubblica, a quella che io amo definire la "lezione" terribile del fascismo che era costantemente ben presente in De Gasperi, in Togliatti, in Nenni; è dovuto all’intelligenza e alla saggezza politica dei leader dei partiti democratici e delle organizzazioni sindacali. Possiamo essere andati vicini molte volte, per le vicende internazionali e per i fatti di casa nostra, al precipizio, ma lo abbiamo sempre evitato. E una ricostruzione seria della storia di questo cinquantennio deve mettere bene in evidenza questo elemento essenziale.

Certo, con eguale chiarezza, bisogna poi indicare i dati critici.

L’esasperante lentezza, ad esempio, della DC nel passaggio dal centralismo al centro-sinistra; il rapido decadere dei progetti di riforma nella collaborazione tra la DC e il PSI, negli anni sessanta. Anche noi comunisti abbiamo proceduto con un eccesso di cautela nella affermazione piena della nostra autonomia e collocazione, sotto il profilo internazionale, nel quadro delle alleanze dell’Italia e nella Comunità Europea.

Le strozzature, il blocco della democrazia, la negazione di reali alternative di governo, motivate o meno che fossero, hanno duramente pesato e sono state all’origine di fenomeni e processi degenerativi nella vita politica, nell’economia, e nel costume pubblico della società italiana. È superfluo ricordare da parte mia che non avrebbero dovuto esserci dubbi disorta sulla vocazione e la legittimità democratica del PCI. Mi preme invece affermare che alla metà degli anni settanta non avrebbero davvero avuto più ragione di esistere riserve e pregiudiziali. E invece abbiamo vissuto ancora a lungo con la ripresa delle più assurde e pretestuose discriminanti, con i "preamboli" ed altri marchingegni. Ed ancora oggi, dopo il sommovimento che ha sconvolto i vecchi equilibri mondiali e fatto saltare in aria il sistema politico in Italia, dobbiamo assistere allo spettacolo grottesco di un avvilente anticomunismo di ritorno, e alla messa in discussione, anche da parte di settori di sinistra e socialisti, di un governo perché, tra altri poco chiari o rancorosi motivi, il suo capo non garantirebbe il successo, oggi e nel 2001, non si comprende bene se per la sua provenienza politica o per la sua troppo spiccata caratterizzazione di sinistra (che in verità a me sembra perfino troppo debole!).

Così per il sindacato: nessuno, in buona fede, e certamente non io, può esitare a riconoscere lo sforzo, grande e travagliato, delle confederazioni - CGIL, CISL, UIL - (le metto in ordine di grandezza e non per classifica di meriti!) rivolto a superare, dopo gli errori, i guasti, le tensioni e le lotte, l’amara fase delle separazioni e delle accanite contrapposizioni; e a ricercare, e costruire un qualche rapporto, un dialogo, un impegno comune per la difesa degli interessi fondamentali, e per la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, tutti, dai salariati delle campagne agli operai delle fabbriche, dagli insegnanti della scuola ai funzionari dei ministeri.

Chi ha vissuto, e spesso sofferto, nel corso dei decenni questo processo, sa bene che non si è trattato di una impresa da poco, perché le difficoltà maggiori non erano certo quelle di un antagonismo di basso profilo, di bottega o di sigla, ma avevano a che fare, più nobilmente, con concezioni e tradizioni diverse del sindacato, del rapporto tra sindacalismo e politica, e con riferimenti alle diverse forze politiche, di governo e di opposizione, che avevano origini e legami consolidati.

In questo lungo processo, inteso a costruire un rapporto, una unità di azione, nelle rivendicazioni e nelle lotte, da quelle contrattuali a quelle per nuove e salde conquiste in campo sociale, civile, per i lavoratori e più in generale per il progresso della società; e a intraprendere poi la via di un più ambizioso progetto - quello dell’unità organica in una sola confederazione - non sono mancati momenti positivi, atti di avanzamento, già negli anni sessanta, e poi in quelli dell’affermazione e del riconoscimento di un ruolo più spiccato e incisivo del sindacato; quale soggetto politico, interlocutore rilevante nella vita nazionale e cardine della democrazia e dei suoi principi e valori.

Ma non sono mancati nemmeno, in verità, i colpi di arresto, i ritorni indietro, le sconfitte dolorose. Per non essere troppo allusivo, voglio indicare come un momento grave di crisi quello della divisione e dello scontro, nel 1984-85, sul decreto del governo Craxi in merito al taglio e al superamento della Scala Mobile, e sul successivo referendum.

Non intendo ora riaprire dispute, se cioè la difesa tenace di quell’istituto fosse una misura valida, di una qualche efficacia ancora contro l'ondata del neoliberismo, del predominio prorompente del mercato che ormai investiva la politica italiana. Con maggior sicurezza mi sento di affermare che più importante della posta economica, messa in gioco, era la difesa di un sistema di regole nel rapporto tra le parti sociali e tra queste e il potere esecutivo. L’atto di imperio da parte del governo era una pessima strada per intraprendere delle riforme, grandi o piccole che fossero, in qualsiasi campo, da quello delle relazioni sociali e quello delle istituzioni. E rappresentò comunque un colpo alla autorità e al prestigio dei sindacati, di tutti, e certamente un intoppo sul cammino dell’unità.

Non ho intenzione, sia chiaro, di enfatizzare quell’episodio, né posso avere la presunzione di ripercorrere la vicenda del sindacalismo italiano, e di esprimere giudizi sulle realtà compiute nel periodo sconvolgente e per tanti aspetti traumatico, che corre dalla fine degli anni ottanta a questo inizio incerto, in particolare nel nostro paese, di un nuovo ed "emblematico" anno.

Se posso esprimere una opinione, quella necessariamente sintetica, forse un po’ troppo da lontano, ma disinteressata, come accade a chi da tempo è fuori da ogni sorta di impegno, responsabilità e colleganza, a me pare che né la politica né il sindacalismo godano di buona salute, almeno di quella che sarebbe indispensabile per riuscire a far fronte alla grandezza, ed anche alla enormità, dei problemi e dei compiti che l’Italia e l’Europa debbono risolvere, per non dire di quelli che incombono, in modo sempre più disumano e intollerabile su scala mondiale, e che sempre più ci coinvolgeranno.

Si badi che io non appartengo affatto alla schiera dei delusi, dei detrattori, e tanto meno dei demonizzatori, oggi di moda, della vicenda storica della nostra Repubblica.

So misurare, ed anche con qualche orgoglio per il contributo dato dalle forze, politiche e sindacali, del movimento operaio, lo sviluppo e il progresso grandissimi, che nei campi essenziali dell’economia, dei livelli di vita, del costume civile, della cultura e della scienza, l’Italia ha realizzato in questo cinquantennio: né sottovaluto certo i risultati, raggiunti con sacrificio e fatica, nella esperienza più recente dei governi del centrosinistra. Non ho condiviso certo, e mantengo le mie riserve, su scelte di grande rilievo, dalle motivazioni alle forme, ad esempio, dell’intervento nella generale questione iugoslava, e in particolare nella guerra per il Kossovo. Non sono per nulla persuaso della linea seguita per le riforme istituzionali, e per tanti aspetti della politica economica e sociale.

Ma il punto decisivo del mio giudizio critico è più di fondo.

La crisi di governo che si è aperta nello scorso dicembre è stata una manifestazione gravissima, desolante e umiliante, del generale degrado della politica italiana, del sostanziale fallimento delle vie finora tentate per rinnovare e rinsaldare l’ordinamento e il funzionamento della nostra democrazia.

A me preme, però, chiamare in causa la sinistra, tutta, e nelle sue diverse componenti e tradizioni, ideologiche, culturali e politiche - socialiste, socialdemocratiche, comuniste, azioniste -: ecco, se una lezione c’era da trarre, non dall’‘89, non dal ‘92 - dico - ma dall’esperienza compiuta qui, nel nostro Paese, dalla Liberazione ad oggi, era proprio quella del cimento e dell’impegno a fondo, tassativi, per costruire una nuova grande formazione di sinistra sulla base di un progetto moderno, rigoroso e coerente di avanzamento e di trasformazione democratica della società e dello stato, di presenza di azione in Europa e in campo internazionale per la pace, innanzitutto, per la liberazione e l’eguaglianza dei popoli, e i diritti dell’uomo, ovunque.

E invece siamo - per parlar solenne - al campo di Agramante, alle membra sparse, ai litigi e dispetti penosi, alla perdita di consenso e di prestigio.

Il mio è un grido di allarme: ma vuole essere anche un appello accorato e schietto: su la testa, sinistra; più ardimento, più coraggio; più lungimiranza! Questa è la condizione prima anche per costruire alleanze e coalizioni, serie e durevoli, nella chiarezza, nel rispetto reciproco, e nell’interesse dell’intera nazione e dei lavoratori.

Non vorrei essere altrettanto severo con il mondo del sindacato, ma non posso certo nascondere la delusione bruciante nel dover constatare ancora una volta alla fine di questo decennio, che è stato mancato l’obiettivo preminente, progettato e promesso ripetutamente dai dirigenti delle tre confederazioni, di dar vita ad un’unica e forte organizzazione.

Ed anzi si è perfino compiuto qualche rischioso passo indietro.

Ma, ancora una volta, non mi si fraintenda. Non mi passa proprio per la testa di mettere in discussione conquiste ormai secolari e limpidi principi costituzionali, quali la libertà di associazione e di organizzazione sindacali.

Non sogno sindacati "cinghie di trasmissione" o comunque subalterni al potere politico.

L’indipendenza nella critica e nel giudizio della realtà sociale e l'autonomia nella azione sono, e debbono restare, beni preziosi e intangibili.

E non continuo nel ribadire principi che sono delle ovvietà.

Ma è impossibile, d’altra parte, non vedere e tacere che la proliferazione crescente, la frammentazione, e spesso la confusione e la conflittualità nel campo della rappresentanza sindacale e nella difesa di interessi e diritti dei lavoratori in settori particolarmente rilevanti - si pensi a quello vitale dei servizi nei trasporti - sembrano essere giunti al livello di guardia della ragionevolezza, e della comprensibilità per l’opinione pubblica, non molto diversamente da ciò che accade per i 30 o 40 partiti e partitini, sigle o simboli, leader e capi, più o meno comprensibili e tollerabili nella vita politica.

Ed ancora: è impossibile non avvertire allarme e preoccupazione quando ci si ritrova di fronte ad episodi della vecchia e insidiosa pratica degli accordi separati.

O quando si propongono, non so bene se come una scelta effettiva o come un temporaneo e dispettoso tamponamento, idee come quella dell’unità competitiva.

O quando ci si lascia andare al gioco delle differenziazioni, delle iniziative o delle proclamazioni unilaterali di lotta, proprio nel tempo della pratica, da nessuno smentita della concertazione e di fronte ad un governo che, pur dichiarandosi di centrosinistra e sensibile ai diritti dei lavoratori e alle istanze di giustizia sociale, alle esigenze di promozione, di qualificazione, di sicurezza del lavoro, aveva - parlo del "primo" D’Alema - e forse ancor più avrà - mi riferisco al "secondo" D’Alema - bisogno evidente di trovare nel sindacato un interlocutore lucido, combattivo e fortemente unitario.

Nessuno, e tanto meno i responsabili delle maggiori e storiche organizzazioni sindacali, può permettersi di essere disattento o distratto di fronte ai segni del tempo.

Attenti, se perfino tra i banditori di ideali e indirizzi liberaldemocratici, ai confini e perfino alleati della sinistra, si levano voci che non solo mettono in discussione, un giorno si e l’altro pure, tasselli importanti dello stato sociale, o dello Statuto dei lavoratori, ma che ben più a fondo indicano nel sindacato una sorta di impaccio, di fastidio per il magnifico dispiegarsi del mercato, nel globo e in Italia, quasi un reperto ormai di tipo archeologico.

Attenti, se qui e ora può avvenire, senza un qualche serio contrasto ed anzi perfino con cerimoniose attenzioni, una aggressione, come quella referendaria dei liberali liberisti libertari, assurdamente demolitrice in molti campi, ma particolarmente rivolta a colpire istituti rilevanti di tutela dei lavoratori.

Attenti, se crescono, come risulta evidente, i segni di una caduta, di un appannamento dell’interesse, della partecipazione, della passione nella vita e nella militanza politica e sindacale.

Non credo che questo mio sguardo sia troppo critico o annebbiato da una qualche nostalgia del passato.

Guardare con occhi il più possibile lucidi, ed anche duri, al presente stato delle cose, nella società, nella vita politica, nel sindacalismo italiano a me sembra la condizione prima per individuare e percorrere le vie nuove del progresso della civiltà, della pace, della giustizia, e delle forme moderne dell’organizzazione e della partecipazione dei cittadini e dei lavoratori per questi grandi e irrinunciabili obiettivi.

Mi ha fatto piacere che l’amico e compagno Larizza abbia chiesto anche a me una testimonianza per i 50 anni di vita della UIL, e ritengo che si attendesse non tanto il riconoscimento di meriti e di risultati, quanto piuttosto un consiglio, schietto e limpido, per quanto modesto possa essere il mio.

Ecco: il mio suggerimento è che, occorre più che mai impegnarci in modo serio, coerente e fermo per costruire finalmente in Italia una grande e unitaria formazione politica della sinistra e un grande unitario sindacato dei lavoratori, dell’intero e complesso mondo del lavoro.

E questo è anche l’auspicio, e l’augurio più vivo e fraterno che formulo per voi, militanti e dirigenti della UIL, all’inizio del 2000!