IL COMMENTO
Un caso politico
di EZIO MAURO

Nel momento più acuto dello scontro sociale, con i sindacati divisi e il governo all'attacco della Cgil, scoppia il caso delle lettere di Marco Biagi, cento giorni dopo l'assassinio del giuslavorista da parte delle Brigate Rosse.

Si sapeva che la Procura di Bologna lavorava su un dischetto del computer dal quale il professore, collaboratore del ministro del Welfare Maroni, scriveva i suoi messaggi. Adesso, quel dischetto è arrivato ad una piccola rivista dell'area no global ("Zero in condotta"), che oggi pubblica le lettere di Biagi. "Repubblica" è in grado di anticipare il testo, dopo aver cercato riscontri con tutti i destinatari delle e-mail, e anche con la vedova di Marco Biagi. Sulla base di questo materiale, nascono alcune domande inquietanti, che attendono una risposta pubblica e urgente.

Le cinque lettere sono state scritte dal 2 luglio 2001 al 23 settembre dello stesso anno e sono indirizzate al direttore di Confindustria Stefano Parisi, al sottosegretario al Lavoro Maurizio Sacconi, al presidente della Camera Pierferdinando Casini, al Prefetto di Bologna e al ministro Maroni. Nei testi c'è l'angoscia lucida e disperata di un uomo che si sente bersaglio del terrorismo, che riceve telefonate minatorie, che teme di fare la fine di Massimo D'Antona: e che vede revocata la sua scorta senza un motivo spiegabile, "per ragioni che ignoro", come scrive impotente a Casini.

E' un documento terribile. Mentre si susseguono le telefonate anonime, informatissime sui suoi spostamenti e sulla sua inermità, Biagi si preoccupa per l'angoscia in cui vive la sua famiglia, e chiede a tutti di aiutarlo a portare avanti il suo lavoro, ripristinando la protezione: invano. Nella lettera a Maroni, il 23 settembre, Biagi conclude sconfortato: "Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero presi provvedimenti conseguenti." Nessuna "autorità", dopo la tragica morte di Biagi, ha sentito il bisogno e il dovere di rispettare questo desiderio.

Ma dentro le lettere, oltre ad un atto d'accusa che chiama in causa il governo e lo Stato, c'è un caso politico clamoroso. Nella lettera a Casini, infatti, il professore chiama in causa Cofferati: "Sono molto preoccupato scrive perché i miei avversari (Cofferati in primo luogo) criminalizzano la mia figura". E' il 15 luglio 2001, Biagi si sente nel mirino del terrorismo, scrive di avere "avversari" che lo "criminalizzano", e fa il nome del segretario della Cgil, che verrà poi accusato nei mesi successivi con gli stessi argomenti dal presidente del Consiglio Berlusconi e ancora l'altro ieri dai ministri Scajola e Giovanardi.

Cofferati spiega a "Repubblica" che in quel periodo non aveva avuto alcuna occasione di scontro o di polemica con Biagi: perché, si domanda, Biagi si sentiva "criminalizzato" dal segretario della Cgil tre mesi prima della polemica sul "Libro Bianco" del governo, che li oppose aspramente? Ma c'è di più. Al nostro giornale il direttore di Confindustria, Parisi, rivela che una lettera è uscita incompleta o manipolata dal dischetto: dal messaggio a lui spedito da Biagi il 2 luglio 2001, infatti, è stato espunto un passaggio che contiene un nuovo esplicito e pesante riferimento a Cofferati, e in particolare a "minacce" del segretario Cgil "riferitemi scrive il professore da persona assolutamente attendibile".

Dunque a luglio qualcuno ha parlato a Biagi di "minacce" di Cofferati. Chi, perché, in riferimento a che cosa? Perché quel passaggio che "Repubblica" ha ricostruito, pubblicando il testo integrale della lettera è stato omesso nel dischetto o nella sua trascrizione? "Vogliono coprire chi strumentalizzava le paure di Biagi domanda Cofferati indirizzandole verso di me? Vogliono rendere note le accuse nei miei confronti, nella lettera a Casini, nascondendo il suggeritore di quelle accuse, nella lettera a Parisi"?

Ma c'è un'ultima domanda. Se Cofferati "minacciava", perché la Procura non lo ha interrogato, pur conoscendo i testi di quel dischetto? Perché non ha cercato di ricostruire la storia di quelle minacce, il profilo di quella fonte "assolutamente attendibile" che le rivelava, la verità dei fatti esposti da Biagi? L'angoscia di un uomo che si sentiva ed era condannato a morte, merita considerazione e rispetto, e il governo e la polizia non hanno avuto n'è l'una n'è l'altro, lasciando Biagi solo. Oggi le parole del professore devono far riflettere tutti, a partire dal sindacato e dal governo, troppo spesso abituati nel loro linguaggio a scambiare gli avversari per nemici. Ma intanto, la Procura faccia chiarezza, riveli tutti i testi di Biagi, porti alla luce le sue accuse, e cerchi le responsabilità: senza riguardo per nessuno ma anche senza lasciar filtrare spezzoni di accusa, omissioni interessate, usi politici postumi di lettere private. Nella peggior tradizione italiana.

(28 giugno 2002)

Interpellanza urgente al premier e al ministro Scajola
sulla mancata scorta e sul "giallo" della doppia mail a Parisi
Caso Biagi, l'Ulivo chiede
l'intervento del governo
E Fini difende Cofferati: "Non è giusto criminalizzarlo"
Scajola: "Istituzioni unite contro il terrorismo"

ROMA - Sul caso Marco Biagi, tornato d'attualità con la pubblicazione delle sue lettere su "Repubblica" l'opposizione va all'attacco. E così oggi i capigruppo parlamentari hanno presentato un'interpellanza urgente al presidente del Consiglio e al ministro dell'Interno, per avere chiarimenti su tutta la vicenda.

In particolare, i parlamentari di centrosinistra chiedono al governo valutazioni sulle responsabilità politiche della revoca e della mancata restituzione della scorta a Biagi. In più, si chiede quali autorità pubbliche siano in possesso di tutte le lettere pubblicate da "Repubblica" e dalla rivista "Zero in condotta". E anche di chiarire il giallo sul fatto che dell'e-mail indirizzata da Biagi a Stefano Parisi di Confindustria esistano due versioni: in una si fa riferimento a Sergio Cofferati, nell'altra no. L'Ulivo chiede inoltre al governo chi sia la persona "assolutamente attendibile" di cui Biagi parla, e che gli aveva riferito di presunte minacce pronunciate dal leader Cgil.

In attesa della risposta ufficiale, a nome del governo, il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, da Cipro ha commentato la vicenda delle lettere. Ribadendo "la necessità che ci sia grande unità, direi istituzionale, di tutte le forze politiche nella lotta al terrorismo interno che ha colpito D'Antona, ha colpito Biagi, senza che si siano ancora trovati i colpevoli. E che potrebbe colpire ancora".

E intanto, sempre oggi, sono numerose le dichiarazioni di solidarietà arrivate a Cofferati. Dai leader della Quercia, Piero Fassino, Massimo D'Slema, Luciano Violante; da Armando Cossutta, presidente del Pdci; dal segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti; e dal leader dell'Ulivo, Francesco Rutelli.

Prende cautamente le difese di Cofferati anche Gianfranco Fini che, pur accusando il leader della Cgil della "grave responsabilità di alimentare un aspro scontro sociale", dice che "ciò non deve autorizzare nessuno a criminalizzarlo". Per il vicepremier Cofferati "ha la grave responsabilità di alimentare un aspro quanto ingiustificato scontro sociale per ragioni politiche, che nulla hanno a che vedere con gli interessi reali dei lavoratori" ma aggiunge subito dopo che tutto ciò "non deve autorizzare nessuno a criminalizzarlo".

Dagli industriali l'invito del presidente di Confindustria Antonio D'Amato a "tenere i toni bassi per riportare il confronto nell'ambito di una seria e matura trattativa tra le parti perché molto spesso anche le parole possono essere pericolose nel creare un clima di tensione che va oltre le righe". Per il presidente degli industriali "il tono e il significato di quelle e-mail si commentano da soli" ma "occorre molta responsabilità e molta attenzione: si era creato e si crea ancora oggi un clima di forte tensione e invece il Paese ha bisogno di grande responsabilità".

(28 giugno 2002)

Tutti gli enigmi dell'indagine sull'omicidio del professore
L'unica spiegazione plausibile è una "interferenza" dei Servizi
Quelle e-mail rubate
dal computer di Biagi

Una "manina" copiò l'archivio
prima dell'arrivo dei pm
di GIUSEPPE D'AVANZO

Autentiche. In questa storia oscura le parole del procuratore di Bologna Enrico Di Nicola fanno cadere l'umore. A cento giorni dall'assassinio di Marco Biagi, chi indaga non ha ancora un quadro certo, attendibile dell'archivio del professore, a chi ha scritto, che cosa ha scritto, quando lo ha scritto. Si può ipotizzare che, se in qualche file ci fosse il nome dell'assassino, gli occhiutissimi investigatori non ne saprebbero ancora niente. Pigramente ammettono che nel hard disk in loro possesso "ci potrebbero essere altre lettere ed e.mail", ma sicuramente nelle loro mani ci sono (al momento) soltanto tre lettere: una lettera al ministro del Welfare, Roberto Maroni (23 settembre 2001); una lettera al prefetto di Bologna, Sergio Iovino (1 settembre 2001); una terza al presidente della Camera, Pierferdinando Casini.
Bisogna allora subito chiedersi: da dove vengono le sei lettere (una privatissima non è stata pubblicata) raccolte nel floppy disk che una "manina" avvertita ha infilato in una busta poi imbucata nella cassetta delle lettere di "Zero in condotta"? E soprattutto: quelle lettere sono autentiche?

Le lettere sono originali. "Repubblica" ne ha verificato l'autenticità con fonti primarie e, in un caso (la e.mail a Stefano Parisi, direttore generale di Confindustria), è entrata in possesso della versione originale che la "manina" aveva, per così dire, depurato. Due delle cinque lettere pubblicate sono conosciute dalla Procura (Maroni, prefetto di Bologna), tre non lo sono (a Parisi, al sottosegretario Sacconi, al presidente Casini: quella pubblicata da "Repubblica" è diversa dalla missiva a disposizione dei magistrati).

Autentiche le lettere, sono sul tavolo la prima domanda (da dove vengono?) e le altre che il buon senso sollecita: quante sono le lettere di Marco Biagi ancora sconosciute? Chi e a quale titolo ne è in possesso? Che uso ne ha voluto fare e, soprattutto, che uso ne farà? Che cosa svelano?

* * *

Manina. Un fatto, a questo punto, è certo. Qualcuno, che non è la polizia giudiziaria né la procura di Bologna, ha avuto modo di copiare parte o l'intero hard disk del computer di Marco Biagi e di analizzarne i file. Questo "qualcuno", ammesso che la "manina" sia singola e non di clan, può essere soltanto un uomo degli apparati, va a capire se d'informazione o di investigazione. Per dirla più chiara, la "manina" è o di uno spione o di un poliziotto.

Se è uno 007, ha agito prima dell'arrivo della polizia giudiziaria. E' possibile, poteva averne il tempo e il modo. Soltanto a quarantotto ore dall'assassinio, per fare un esempio, è stato sequestrato dalla procura il computer del professore nel suo studio all'Università di Modena. Se è un poliziotto, è ragionevole pensare che l'uomo abbia partecipato alla fase iniziale delle indagini, le abbia abbandonate successivamente portando via con sé copia, in floppy disk, dei files di Marco Biagi. Anche qui l'ipotesi ha un suo ragionevole riscontro. Uomini della Digos (operazioni speciali della polizia, diciamo la polizia dell'antiterrorismo), più o meno due mesi fa, sono stati allontanati dalle indagini e dirottati formalmente sul terrorismo islamico mentre, per correre dietro agli assassini del professore, è stata costituita una "squadra speciale" che risponde esclusivamente al Viminale.
Diverse le "manine", diverse le "operazioni". Gli "spioni" hanno un obiettivo politico. Anzi due, in una mossa che è regolamento di conti dentro il governo contro il ministro dell'Interno Claudio Scajola e un'aggressione cinica a Sergio Cofferati, tirato dentro l'affare come "mandante morale" del delitto. Un bel colpo. Due piccioni, una sola fava. Che il segretario della Cgil fosse nel mirino del governo lo si era ben capito dalle recentissime dichiarazioni dei ministri Maroni, Scajola, Alemanno, Giovanardi. Ma chi, nel governo, ha sul gozzo Claudio Scajola al punto da tirargli questa fredda coltellata tra le scapole?

Seconda ipotesi. Non si tratta di manina di 007, ma di poliziotto. L'obiettivo varia. L'operazione muta di segno. E' meno "politica", è conflitto di apparati. Il coltello deve finire tra le scapole del capo della polizia Gianni De Gennaro e del ministro Scajola che lo protegge perché c'è un secondo fatto indiscutibile. Le lettere di Biagi svelano che il ministro dell'Interno non ha detto la verità al Parlamento. Forse in cattiva fede. Forse, non informato dal capo della polizia, in buona fede. Nell'uno e nell'altro caso, balza agli occhi senza ombre la responsabilità del Viminale di aver abbandonato al suo solitario destino di morte Marco Biagi. E' necessario riepilogare le date, i fatti, le parole.

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"Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero presi provvedimenti conseguenti". (Marco Biagi, 23 settembre 2001).

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Urgenza.
Il 6 luglio del 2000 fu chiaro che il pentolone del terrorismo cominciava a borbottare. Due ordigni incendiari messi su alla buona vengono sistemati alle finestre della Cisl di via Tadino a Milano. La "rivendicazione", dieci cartelle via e.mail, del Nucleo Proletario Rivoluzionario è un insensato delirio contro il patto per il lavoro, sottoscritto da Cisl e Uil, rifiutato dalla Cgil: "Il principio di organizzazione sociale che radica il patto di Milano ha un contenuto proto o post-nazista". Marco Biagi ha lavorato a quel "patto". Appare il pericolo. I prefetti di Bologna (25 luglio 2000), di Milano (2 settembre 2000), di Roma (7 settembre 2000) e di Modena (11 settembre 2000) decidono di proteggerlo con una scorta. Passa un anno e, per dirla nel burocratese del ministero, "in occasione delle periodiche verifiche della sussistenza di concrete situazioni di esposizione al rischio" si decide di fare marcia indietro. Per il prefetto di Roma, il 9 giugno del 2001 non c'è più un pericolo che minaccia il professore di Bologna. Marco Biagi, al contrario, si sente ancora "a rischio". E' consulente del ministero del Welfare, è ancora esposto, si sente ancora in prima linea. Forse più di ieri. Il 2 luglio scrive al sottosegretario Sacconi: "Caro Maurizio, ti prego di aiutarmi con la massima urgenza e determinazione. Hanno revocato la mia tutela a Roma confermata invece in altre parti in Italia. Mia moglie è come me allarmatissima". Nello stesso giorno invia una e.mail a Stefano Parisi. Qualcuno, che egli ritiene "assolutamente attendibile" ingrassa la sua angoscia ("Cofferati ti minaccia"). Biagi scrive: "Caro Stefano, intervieni sul questore per ripristinare la mia tutela anche su Roma...". Non accade nulla. Il 15 luglio il professore si decide a interpellare Pierferdinando Casini. Biagi non si dà ragione dello stato delle cose. Era protetto, ed era "estensore tecnico del Patto per il lavoro di Milano", perché non lo è ora che collabora "con Confindustria e Cisl, nonché con il ministro Maroni per realizzare una strategia di flessibilità sul lavoro"? "Caro Presidente, scrive Biagi, ti chiederei la cortesia di fare il possibile affinché venga tutelato a Roma come lo sono a Milano, Bologna, Modena e in genere in tutt'Italia". Casini si muove. Dopo la fine del G8 di Genova incontra Gianni De Gennaro. E' il 24 o il 25 luglio. Il presidente della Camera invita il capo della polizia a risolvere la questione. De Gennaro verifica. I prefetti di Milano, Bologna e Modena ha confermato la protezione. Deve sembrargli sufficiente. Tranquillizza Casini. Per nulla tranquillizzato è Biagi. Il primo settembre scrive al prefetto di Bologna. Ricorda "le telefonate anonime da cui si comprende facilmente che l'interlocutore è al corrente di alcune mie attività per il ministro Maroni nonché dei miei spostamenti fisici". Avverte di averne parlato "con il presidente Casini che ne ha parlato al dott. De Gennaro". Conclude: "Ormai troppe volte mi sono rivolto a lei per segnalare questo stato di cose. Non mi resta che esprimerle di nuovo la mia preoccupazione". La situazione peggiora non migliora accompagnata da una panica esasperazione.

Irragionevolmente, Biagi che si sentiva in pericolo soltanto nelle sue trasferte nella Capitale, si vede cancellare ogni protezione a Milano (il 19 settembre 2001) e due giorni dopo (21 settembre) anche nella "sua" Bologna. Perché? Biagi non riesce a rintracciarne una ragione plausibile. Nessuno gliela offre. E' evidente, ai suoi occhi, che più intensifica la sua collaborazione con governo, Confindustria e Cisl più aumentano i pericoli. Chi lo minaccia sembra sapere tutto di lui, della sua attività, della sua agenda, dei suoi trasferimenti. Biagi scrive a Maroni. E' il 23 settembre, ora ha la scorta soltanto a Modena quando raggiunge l'Università. Scrive al ministro: "Oggi ho ricevuto un'altra telefonata minatoria da un anonimo che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei viaggi a Roma senza protezieone alcuna... Desidero assicurarla che non intendo desistere dalla mia attività di collaborazione con lei e con il ministero. Nel contempo vorrei rappresentarle tutta l'urgenza affinchè vengano presi provvedimenti adeguati...". Sei giorni dopo, Maroni chiede esplicitamente la protezione di Marco Biagi curiosamente non al ministero, non al capo della polizia, non al ministro dell'Interno, ma alla prefettura di Roma. Passa un pugno di giorni e il 3 ottobre anche il prefetto di Modena ritiene "cessate le esigenze di tutela". In quello stesso giorno viene pubblicamente presentato il Libro Bianco. Porta la firma di Marco Biagi. Nello stesso giorno in cui il professore si espone personalmente e diventa anche per l'opinione pubblica, una faccia, un nome, una responsabilità visibile ogni sostegno dello Stato viene a cadere. E' una contraddizione che non ha trovato ancora una decente ragione. Più Marco Biagi avvertiva alle sue spalle i passi degli assassini, maggiore era il livello istituzionale che coinvolgeva nella angoscia che gli pungeva il petto. Più alto era il livello istituzionale allertato (ministro, capo della polizia, presidente della Camera), minore era il grado di protezione che lo Stato era in grado di offrirgli. Dopo Roma, che apre la strada, "cadono" Milano e Bologna. Resta soltanto Modena e anche questa protezione "cade" nel giorno stesso in cui Biagi si consegna ad una sfida pubblica. Quanto pericolosa, lo si poteva immaginare. Le due ruote - dell'esposizione e della protezione - sembrano girare, ciascuna per suo contro, in direzione opposta. E ancora non c'è nessuna plausibile spiegazione di come sia potuto accadere.

* * *

Viminale.
Il ministro dell'Interno dice: "Non sapevamo". Il 16 aprile al Senato Claudio Scajola ha scandito al Senato: "Mai vi fu interessamento del ministro" al caso Biagi, "Mai qualcuno lo chiese", "Mai il ministro ne venne informato". E ancora più esplicitamente il ministro aggiunse: "Voglio dirlo forte: né era ipotizzabile il mio interessamento mai richiesto da alcuno su una vicenda di cui non ero mai stato informato". E Casini? Il presidente della Camera non ne parlò con il capo della polizia? Il capo della polizia ne parlò con il ministro prima del delitto? Forse no, forse sì. E' ragionevole ipotizzare però che De Gennaro ne abbia parlato a Scajola almeno dopo l'assassinio del 19 marzo. E allora perché sostenere in Parlamento che "Mai qualcuno chiese" di proteggere Biagi? Perché accreditare l'ipotesi che il Viminale non fosse stato informato e che quel che era accaduto non indicava "profili di responsabilità penale o disciplinare" ma soltanto "distonie e disomogeneità del sistema"? Può reggere oggi questa rappresentazione?

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Bersaglio.
Dunque, un primo colpo della "manina" va a segno. Il Viminale sapeva. Per lo meno, nella persona del capo della polizia. E, delle due l'una: o il ministro Scajola non è stato informato dal capo della polizia o sapeva e ha taciuto mentendo al Parlamento. Quale che sia la verità, il Viminale che aveva chiuso il "caso" aggrappandosi agli ingorghi della burocrazia dovrà riaprire il caso con esiti che si annunciano dolorosi per troppi. Ma il colpo della "manina" può essere di lunga durata se si guarda l'affare da un altro punto di vista, da altre date. E' il 3 ottobre 2001. Biagi non ha più la scorta in nessuna della città che frequenta per lavoro (Roma, Milano, Modena) né nella città in cui vive (Bologna). E' un uomo angosciato fino all'esasperazione. Il suo nome è compilato quotidianamente nelle cronache che raccontano lo scontro sulla riforma del mercato del lavoro. Non è più soltanto un addetto ai lavori conosciuto soltanto da addetti ai lavori. E' un personaggio pubblico e riconoscibile che ha messo in gioco il suo nome, la sua dottrina, il suo pensiero in quella riforma. Se già a luglio si sentiva sulla graticola, dopo la presentazione del Libro Bianco e le polemiche che indirettamente lo coinvolgono, deve sentirsi all'inferno. Mancano più di cinque mesi alla sua morte. Possibile che non protesti più, che non si ribelli, che non implori che lo Stato faccia la sua parte con chi lo serve? A chi si rivolge in quei mesi? Con quali toni? E i suoi interlocutori come reagiscono, che pedine muovono se le muovono?
Con ogni probabilità, la "manina" conosce le risposte. Sul floppy disk, nel quale ha copiato l'archivio del professore, quelle lettere ci sono. E deciderà secondo convenienza di renderle pubbliche. Ma per colpire chi? Un ministro del governo troppo potente? Un antagonista inflessibile del governo? O per liquidare qualche presenza ostile nell'apparato della sicurezza? Purtroppo, questa storia oscura è soltanto al primo capitolo.

(29 giugno 2002)

Lo rivelano fonti vicine alla Procura di Bologna
Casini verrà ascoltato come persona informata dei fatti
"I file dei pc di Biagi
accessibili a molte persone"

Gli inquirenti copiarono le memorie dei computer del docente
ma poi li restituirono alla famiglia e all'ateneo di Modena

BOLOGNA - Continua a infittirsi, il mistero legato alla diffusione delle lettere di Marco Biagi. Fonti vicine alla Procura di Bologna rivelano oggi che molte persone, anche al di fuori degli apparati investigativi, potevano avere accesso ai file dei computer del professore, da lui utilizzati per scrivere le missive. Appena partite le indagini sull'omicidio, infatti, gli inquirenti fecero una copia della memoria dei pc in uso al docente: il portatile; in computer fisso della sua abitazione; e un altro fisso all'Università di Modena. Dopo la copiatura dei file, fatta da un consulente tecnico e da un ufficiale di polizia giudiziaria, i pc furono però lasciati ai proprietari: la famiglia Biagi e l'Ateneo. E soprattutto dal computer dell'Università, chiunque fosse a conoscenza della password poteva entrare nei documenti del docente ucciso.

L'analisi del materiale contenuto negli hard disk di Biagi fu una delle prime preoccupazioni dell'inchiesta: i magistrati diedero infatti subito l'incarico di fare una copia di tutti i suoi file. Non fu invece ritenuto indispensabile, o comunque utile ai fini delle indagini, il sequestro dei pc. Le ragioni della scelta dei magistrati furono diverse. Rispetto al portatile e al pc fisso nell'abitazione del docente, una volta copiati i documenti, fu deciso di lasciare i computer alla famiglia, per la quale costituivano un ricordo.

Ma l'analisi del materiale informatico non è stata priva di difficoltà, visto che - come è stato confermato ieri in Procura - ci sono file copiati dagli hard disk dei pc fissi che non sono stati ancora analizzati. Il problema deriva dall'enormità di documenti caricati in memoria, soprattutto nel computer usato dal professore all'Università di Modena. Proprio per questo motivo nei file non ancora esaminati ci potrebbero essere anche le lettere pubblicate ieri, e ignote ai magistrati: anche se questa resta un'ipotesi ancora da verificare. In ogni caso, alla luce delle missive pubblicate ieri, in Procura si fa notare che molti possono aver avuto accesso ai pc del professore: soprattutto quello all'università di Modena.

E intanto, sempre nell'ambito dell'inchiesta in corso, quasi certamente sarà sentito il presidente della Camera, Pierferdinando Casini, destinatario di una delle lettere. E dovrebbe essere lo stesso procuratore capo Enrico di Nicola, da poche settimane alla guida della Procura di Bologna, a concordare tempi e modalità dell'appuntamento con Casini, coinvolto nella veste di persona informata dei fatti.

(29 giugno 2002)