IL COMMENTO
Un
caso politico
di EZIO MAURO
Nel momento
più acuto dello scontro sociale, con i sindacati divisi
e il governo all'attacco della Cgil, scoppia il caso
delle lettere di Marco Biagi, cento giorni dopo
l'assassinio del giuslavorista da parte delle Brigate
Rosse.
Si sapeva che la Procura di Bologna lavorava su un
dischetto del computer dal quale il professore,
collaboratore del ministro del Welfare Maroni, scriveva i
suoi messaggi. Adesso, quel dischetto è arrivato ad una
piccola rivista dell'area no global ("Zero in
condotta"), che oggi pubblica le lettere di Biagi.
"Repubblica" è in grado di anticipare il
testo, dopo aver cercato riscontri con tutti i
destinatari delle e-mail, e anche con la vedova di Marco
Biagi. Sulla base di questo materiale, nascono alcune
domande inquietanti, che attendono una risposta pubblica
e urgente.
Le cinque lettere sono state scritte dal 2 luglio 2001 al
23 settembre dello stesso anno e sono indirizzate al
direttore di Confindustria Stefano Parisi, al
sottosegretario al Lavoro Maurizio Sacconi, al presidente
della Camera Pierferdinando Casini, al Prefetto di
Bologna e al ministro Maroni. Nei testi c'è l'angoscia
lucida e disperata di un uomo che si sente bersaglio del
terrorismo, che riceve telefonate minatorie, che teme di
fare la fine di Massimo D'Antona: e che vede revocata la
sua scorta senza un motivo spiegabile, "per ragioni
che ignoro", come scrive impotente a Casini.
E' un documento terribile. Mentre si susseguono le
telefonate anonime, informatissime sui suoi spostamenti e
sulla sua inermità, Biagi si preoccupa per l'angoscia in
cui vive la sua famiglia, e chiede a tutti di aiutarlo a
portare avanti il suo lavoro, ripristinando la
protezione: invano. Nella lettera a Maroni, il 23
settembre, Biagi conclude sconfortato: "Qualora
dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si
sappia che avevo informato inutilmente le autorità di
queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero
presi provvedimenti conseguenti." Nessuna
"autorità", dopo la tragica morte di Biagi, ha
sentito il bisogno e il dovere di rispettare questo
desiderio.
Ma dentro le lettere, oltre ad un atto d'accusa che
chiama in causa il governo e lo Stato, c'è un caso
politico clamoroso. Nella lettera a Casini, infatti, il
professore chiama in causa Cofferati: "Sono molto
preoccupato scrive perché i miei avversari (Cofferati in
primo luogo) criminalizzano la mia figura". E' il 15
luglio 2001, Biagi si sente nel mirino del terrorismo,
scrive di avere "avversari" che lo
"criminalizzano", e fa il nome del segretario
della Cgil, che verrà poi accusato nei mesi successivi
con gli stessi argomenti dal presidente del Consiglio
Berlusconi e ancora l'altro ieri dai ministri Scajola e
Giovanardi.
Cofferati spiega a "Repubblica" che in quel
periodo non aveva avuto alcuna occasione di scontro o di
polemica con Biagi: perché, si domanda, Biagi si sentiva
"criminalizzato" dal segretario della Cgil tre
mesi prima della polemica sul "Libro Bianco"
del governo, che li oppose aspramente? Ma c'è di più.
Al nostro giornale il direttore di Confindustria, Parisi,
rivela che una lettera è uscita incompleta o manipolata
dal dischetto: dal messaggio a lui spedito da Biagi il 2
luglio 2001, infatti, è stato espunto un passaggio che
contiene un nuovo esplicito e pesante riferimento a
Cofferati, e in particolare a "minacce" del
segretario Cgil "riferitemi scrive il professore da
persona assolutamente attendibile".
Dunque a luglio qualcuno ha parlato a Biagi di
"minacce" di Cofferati. Chi, perché, in
riferimento a che cosa? Perché quel passaggio che
"Repubblica" ha ricostruito, pubblicando il
testo integrale della lettera è stato omesso nel
dischetto o nella sua trascrizione? "Vogliono
coprire chi strumentalizzava le paure di Biagi domanda
Cofferati indirizzandole verso di me? Vogliono rendere
note le accuse nei miei confronti, nella lettera a
Casini, nascondendo il suggeritore di quelle accuse,
nella lettera a Parisi"?
Ma c'è un'ultima domanda. Se Cofferati
"minacciava", perché la Procura non lo ha
interrogato, pur conoscendo i testi di quel dischetto?
Perché non ha cercato di ricostruire la storia di quelle
minacce, il profilo di quella fonte "assolutamente
attendibile" che le rivelava, la verità dei fatti
esposti da Biagi? L'angoscia di un uomo che si sentiva ed
era condannato a morte, merita considerazione e rispetto,
e il governo e la polizia non hanno avuto n'è l'una n'è
l'altro, lasciando Biagi solo. Oggi le parole del
professore devono far riflettere tutti, a partire dal
sindacato e dal governo, troppo spesso abituati nel loro
linguaggio a scambiare gli avversari per nemici. Ma
intanto, la Procura faccia chiarezza, riveli tutti i
testi di Biagi, porti alla luce le sue accuse, e cerchi
le responsabilità: senza riguardo per nessuno ma anche
senza lasciar filtrare spezzoni di accusa, omissioni
interessate, usi politici postumi di lettere private.
Nella peggior tradizione italiana.
(28 giugno 2002)
|
Interpellanza urgente al premier e al
ministro Scajola
sulla mancata scorta e sul "giallo" della
doppia mail a Parisi
Caso Biagi,
l'Ulivo chiede
l'intervento del governo
E Fini difende Cofferati:
"Non è giusto criminalizzarlo"
Scajola: "Istituzioni unite contro il
terrorismo"
ROMA - Sul caso Marco
Biagi, tornato d'attualità con la pubblicazione delle sue lettere su
"Repubblica" l'opposizione
va all'attacco. E così oggi i capigruppo parlamentari
hanno presentato un'interpellanza urgente al presidente
del Consiglio e al ministro dell'Interno, per avere
chiarimenti su tutta la vicenda.
In particolare, i parlamentari di centrosinistra chiedono
al governo valutazioni sulle responsabilità politiche
della revoca e della mancata restituzione della scorta a
Biagi. In più, si chiede quali autorità pubbliche siano
in possesso di tutte le lettere pubblicate da
"Repubblica" e dalla rivista "Zero in
condotta". E anche di chiarire il giallo sul fatto
che dell'e-mail indirizzata da Biagi a Stefano Parisi di
Confindustria esistano due versioni: in una si fa
riferimento a Sergio Cofferati, nell'altra no. L'Ulivo
chiede inoltre al governo chi sia la persona
"assolutamente attendibile" di cui Biagi parla,
e che gli aveva riferito di presunte minacce pronunciate
dal leader Cgil.
In attesa della risposta ufficiale, a nome del governo,
il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, da Cipro ha
commentato la vicenda delle lettere. Ribadendo "la
necessità che ci sia grande unità, direi istituzionale,
di tutte le forze politiche nella lotta al terrorismo
interno che ha colpito D'Antona, ha colpito Biagi, senza
che si siano ancora trovati i colpevoli. E che potrebbe
colpire ancora".
E intanto, sempre oggi, sono numerose le dichiarazioni di
solidarietà arrivate a Cofferati. Dai leader della
Quercia, Piero Fassino, Massimo D'Slema, Luciano
Violante; da Armando Cossutta, presidente del Pdci; dal
segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti;
e dal leader dell'Ulivo, Francesco Rutelli.
Prende cautamente le difese di Cofferati anche Gianfranco
Fini che, pur accusando il leader della Cgil della
"grave responsabilità di alimentare un aspro
scontro sociale", dice che "ciò non deve
autorizzare nessuno a criminalizzarlo". Per il
vicepremier Cofferati "ha la grave responsabilità
di alimentare un aspro quanto ingiustificato scontro
sociale per ragioni politiche, che nulla hanno a che
vedere con gli interessi reali dei lavoratori" ma
aggiunge subito dopo che tutto ciò "non deve
autorizzare nessuno a criminalizzarlo".
Dagli industriali l'invito del presidente di
Confindustria Antonio D'Amato a "tenere i toni bassi
per riportare il confronto nell'ambito di una seria e
matura trattativa tra le parti perché molto spesso anche
le parole possono essere pericolose nel creare un clima
di tensione che va oltre le righe". Per il
presidente degli industriali "il tono e il
significato di quelle e-mail si commentano da soli"
ma "occorre molta responsabilità e molta
attenzione: si era creato e si crea ancora oggi un clima
di forte tensione e invece il Paese ha bisogno di grande
responsabilità".
(28 giugno 2002)
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Tutti gli enigmi dell'indagine
sull'omicidio del professore
L'unica spiegazione plausibile è una
"interferenza" dei Servizi
Quelle e-mail
rubate
dal computer di Biagi
Una "manina" copiò l'archivio
prima dell'arrivo dei pm
di GIUSEPPE D'AVANZO
Autentiche. In questa storia
oscura le parole del procuratore di Bologna Enrico Di
Nicola fanno cadere l'umore. A cento giorni
dall'assassinio di Marco Biagi, chi indaga non ha ancora
un quadro certo, attendibile dell'archivio del
professore, a chi ha scritto, che cosa ha scritto, quando
lo ha scritto. Si può ipotizzare che, se in qualche file
ci fosse il nome dell'assassino, gli occhiutissimi
investigatori non ne saprebbero ancora niente. Pigramente
ammettono che nel hard disk in loro possesso "ci
potrebbero essere altre lettere ed e.mail", ma
sicuramente nelle loro mani ci sono (al momento) soltanto
tre lettere: una lettera al ministro del Welfare, Roberto
Maroni (23 settembre 2001); una lettera al prefetto di
Bologna, Sergio Iovino (1 settembre 2001); una terza al
presidente della Camera, Pierferdinando Casini.
Bisogna allora subito chiedersi: da dove vengono le sei
lettere (una privatissima non è stata pubblicata)
raccolte nel floppy disk che una "manina"
avvertita ha infilato in una busta poi imbucata nella
cassetta delle lettere di "Zero in condotta"? E
soprattutto: quelle lettere sono autentiche?
Le lettere sono originali. "Repubblica" ne ha
verificato l'autenticità con fonti primarie e, in un
caso (la e.mail a Stefano Parisi, direttore generale di
Confindustria), è entrata in possesso della versione
originale che la "manina" aveva, per così
dire, depurato. Due delle cinque lettere pubblicate sono
conosciute dalla Procura (Maroni, prefetto di Bologna),
tre non lo sono (a Parisi, al sottosegretario Sacconi, al
presidente Casini: quella pubblicata da
"Repubblica" è diversa dalla missiva a
disposizione dei magistrati).
Autentiche le lettere, sono sul tavolo
la prima domanda (da dove vengono?) e le altre che il
buon senso sollecita: quante sono le lettere di Marco
Biagi ancora sconosciute? Chi e a quale titolo ne è in
possesso? Che uso ne ha voluto fare e, soprattutto, che
uso ne farà? Che cosa svelano?
* * *
Manina. Un fatto, a questo punto, è certo. Qualcuno, che
non è la polizia giudiziaria né la procura di Bologna,
ha avuto modo di copiare parte o l'intero hard disk del
computer di Marco Biagi e di analizzarne i file. Questo
"qualcuno", ammesso che la "manina"
sia singola e non di clan, può essere soltanto un uomo
degli apparati, va a capire se d'informazione o di
investigazione. Per dirla più chiara, la
"manina" è o di uno spione o di un poliziotto.
Se è uno 007, ha agito prima dell'arrivo della polizia
giudiziaria. E' possibile, poteva averne il tempo e il
modo. Soltanto a quarantotto ore dall'assassinio, per
fare un esempio, è stato sequestrato dalla procura il
computer del professore nel suo studio all'Università di
Modena. Se è un poliziotto, è ragionevole pensare che
l'uomo abbia partecipato alla fase iniziale delle
indagini, le abbia abbandonate successivamente portando
via con sé copia, in floppy disk, dei files di Marco
Biagi. Anche qui l'ipotesi ha un suo ragionevole
riscontro. Uomini della Digos (operazioni speciali della
polizia, diciamo la polizia dell'antiterrorismo), più o
meno due mesi fa, sono stati allontanati dalle indagini e
dirottati formalmente sul terrorismo islamico mentre, per
correre dietro agli assassini del professore, è stata
costituita una "squadra speciale" che risponde
esclusivamente al Viminale.
Diverse le "manine", diverse le
"operazioni". Gli "spioni" hanno un
obiettivo politico. Anzi due, in una mossa che è
regolamento di conti dentro il governo contro il ministro
dell'Interno Claudio Scajola e un'aggressione cinica a
Sergio Cofferati, tirato dentro l'affare come
"mandante morale" del delitto. Un bel colpo.
Due piccioni, una sola fava. Che il segretario della Cgil
fosse nel mirino del governo lo si era ben capito dalle
recentissime dichiarazioni dei ministri Maroni, Scajola,
Alemanno, Giovanardi. Ma chi, nel governo, ha sul gozzo
Claudio Scajola al punto da tirargli questa fredda
coltellata tra le scapole?
Seconda ipotesi. Non si tratta di
manina di 007, ma di poliziotto. L'obiettivo varia.
L'operazione muta di segno. E' meno "politica",
è conflitto di apparati. Il coltello deve finire tra le
scapole del capo della polizia Gianni De Gennaro e del
ministro Scajola che lo protegge perché c'è un secondo
fatto indiscutibile. Le lettere di Biagi svelano che il
ministro dell'Interno non ha detto la verità al
Parlamento. Forse in cattiva fede. Forse, non informato
dal capo della polizia, in buona fede. Nell'uno e
nell'altro caso, balza agli occhi senza ombre la
responsabilità del Viminale di aver abbandonato al suo
solitario destino di morte Marco Biagi. E' necessario
riepilogare le date, i fatti, le parole.
* * *
"Qualora dovesse malauguratamente occorrermi
qualcosa, desidero si sappia che avevo informato
inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate
minatorie senza che venissero presi provvedimenti
conseguenti". (Marco Biagi, 23 settembre 2001).
* * *
Urgenza. Il 6 luglio del 2000 fu chiaro che il
pentolone del terrorismo cominciava a borbottare. Due
ordigni incendiari messi su alla buona vengono sistemati
alle finestre della Cisl di via Tadino a Milano. La
"rivendicazione", dieci cartelle via e.mail,
del Nucleo Proletario Rivoluzionario è un insensato
delirio contro il patto per il lavoro, sottoscritto da
Cisl e Uil, rifiutato dalla Cgil: "Il principio di
organizzazione sociale che radica il patto di Milano ha
un contenuto proto o post-nazista". Marco Biagi ha
lavorato a quel "patto". Appare il pericolo. I
prefetti di Bologna (25 luglio 2000), di Milano (2
settembre 2000), di Roma (7 settembre 2000) e di Modena
(11 settembre 2000) decidono di proteggerlo con una
scorta. Passa un anno e, per dirla nel burocratese del
ministero, "in occasione delle periodiche verifiche
della sussistenza di concrete situazioni di esposizione
al rischio" si decide di fare marcia indietro. Per
il prefetto di Roma, il 9 giugno del 2001 non c'è più
un pericolo che minaccia il professore di Bologna. Marco
Biagi, al contrario, si sente ancora "a
rischio". E' consulente del ministero del Welfare,
è ancora esposto, si sente ancora in prima linea. Forse
più di ieri. Il 2 luglio scrive al sottosegretario
Sacconi: "Caro Maurizio, ti prego di aiutarmi con la
massima urgenza e determinazione. Hanno revocato la mia
tutela a Roma confermata invece in altre parti in Italia.
Mia moglie è come me allarmatissima". Nello stesso
giorno invia una e.mail a Stefano Parisi. Qualcuno, che
egli ritiene "assolutamente attendibile"
ingrassa la sua angoscia ("Cofferati ti
minaccia"). Biagi scrive: "Caro Stefano,
intervieni sul questore per ripristinare la mia tutela
anche su Roma...". Non accade nulla. Il 15 luglio il
professore si decide a interpellare Pierferdinando
Casini. Biagi non si dà ragione dello stato delle cose.
Era protetto, ed era "estensore tecnico del Patto
per il lavoro di Milano", perché non lo è ora che
collabora "con Confindustria e Cisl, nonché con il
ministro Maroni per realizzare una strategia di
flessibilità sul lavoro"? "Caro Presidente,
scrive Biagi, ti chiederei la cortesia di fare il
possibile affinché venga tutelato a Roma come lo sono a
Milano, Bologna, Modena e in genere in tutt'Italia".
Casini si muove. Dopo la fine del G8 di Genova incontra
Gianni De Gennaro. E' il 24 o il 25 luglio. Il presidente
della Camera invita il capo della polizia a risolvere la
questione. De Gennaro verifica. I prefetti di Milano,
Bologna e Modena ha confermato la protezione. Deve
sembrargli sufficiente. Tranquillizza Casini. Per nulla
tranquillizzato è Biagi. Il primo settembre scrive al
prefetto di Bologna. Ricorda "le telefonate anonime
da cui si comprende facilmente che l'interlocutore è al
corrente di alcune mie attività per il ministro Maroni
nonché dei miei spostamenti fisici". Avverte di
averne parlato "con il presidente Casini che ne ha
parlato al dott. De Gennaro". Conclude: "Ormai
troppe volte mi sono rivolto a lei per segnalare questo
stato di cose. Non mi resta che esprimerle di nuovo la
mia preoccupazione". La situazione peggiora non
migliora accompagnata da una panica esasperazione.
Irragionevolmente, Biagi che si sentiva in pericolo
soltanto nelle sue trasferte nella Capitale, si vede
cancellare ogni protezione a Milano (il 19 settembre
2001) e due giorni dopo (21 settembre) anche nella
"sua" Bologna. Perché? Biagi non riesce a
rintracciarne una ragione plausibile. Nessuno gliela
offre. E' evidente, ai suoi occhi, che più intensifica
la sua collaborazione con governo, Confindustria e Cisl
più aumentano i pericoli. Chi lo minaccia sembra sapere
tutto di lui, della sua attività, della sua agenda, dei
suoi trasferimenti. Biagi scrive a Maroni. E' il 23
settembre, ora ha la scorta soltanto a Modena quando
raggiunge l'Università. Scrive al ministro: "Oggi
ho ricevuto un'altra telefonata minatoria da un anonimo
che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei
viaggi a Roma senza protezieone alcuna... Desidero
assicurarla che non intendo desistere dalla mia attività
di collaborazione con lei e con il ministero. Nel
contempo vorrei rappresentarle tutta l'urgenza affinchè
vengano presi provvedimenti adeguati...". Sei giorni
dopo, Maroni chiede esplicitamente la protezione di Marco
Biagi curiosamente non al ministero, non al capo della
polizia, non al ministro dell'Interno, ma alla prefettura
di Roma. Passa un pugno di giorni e il 3 ottobre anche il
prefetto di Modena ritiene "cessate le esigenze di
tutela". In quello stesso giorno viene pubblicamente
presentato il Libro Bianco. Porta la firma di Marco
Biagi. Nello stesso giorno in cui il professore si espone
personalmente e diventa anche per l'opinione pubblica,
una faccia, un nome, una responsabilità visibile ogni
sostegno dello Stato viene a cadere. E' una
contraddizione che non ha trovato ancora una decente
ragione. Più Marco Biagi avvertiva alle sue spalle i
passi degli assassini, maggiore era il livello
istituzionale che coinvolgeva nella angoscia che gli
pungeva il petto. Più alto era il livello istituzionale
allertato (ministro, capo della polizia, presidente della
Camera), minore era il grado di protezione che lo Stato
era in grado di offrirgli. Dopo Roma, che apre la strada,
"cadono" Milano e Bologna. Resta soltanto
Modena e anche questa protezione "cade" nel
giorno stesso in cui Biagi si consegna ad una sfida
pubblica. Quanto pericolosa, lo si poteva immaginare. Le
due ruote - dell'esposizione e della protezione -
sembrano girare, ciascuna per suo contro, in direzione
opposta. E ancora non c'è nessuna plausibile spiegazione
di come sia potuto accadere.
* * *
Viminale. Il ministro dell'Interno dice: "Non
sapevamo". Il 16 aprile al Senato Claudio Scajola ha
scandito al Senato: "Mai vi fu interessamento del
ministro" al caso Biagi, "Mai qualcuno lo
chiese", "Mai il ministro ne venne
informato". E ancora più esplicitamente il ministro
aggiunse: "Voglio dirlo forte: né era ipotizzabile
il mio interessamento mai richiesto da alcuno su una
vicenda di cui non ero mai stato informato". E
Casini? Il presidente della Camera non ne parlò con il
capo della polizia? Il capo della polizia ne parlò con
il ministro prima del delitto? Forse no, forse sì. E'
ragionevole ipotizzare però che De Gennaro ne abbia
parlato a Scajola almeno dopo l'assassinio del 19 marzo.
E allora perché sostenere in Parlamento che "Mai
qualcuno chiese" di proteggere Biagi? Perché
accreditare l'ipotesi che il Viminale non fosse stato
informato e che quel che era accaduto non indicava
"profili di responsabilità penale o
disciplinare" ma soltanto "distonie e
disomogeneità del sistema"? Può reggere oggi
questa rappresentazione?
* * *
Bersaglio. Dunque, un primo colpo della
"manina" va a segno. Il Viminale sapeva. Per lo
meno, nella persona del capo della polizia. E, delle due
l'una: o il ministro Scajola non è stato informato dal
capo della polizia o sapeva e ha taciuto mentendo al
Parlamento. Quale che sia la verità, il Viminale che
aveva chiuso il "caso" aggrappandosi agli
ingorghi della burocrazia dovrà riaprire il caso con
esiti che si annunciano dolorosi per troppi. Ma il colpo
della "manina" può essere di lunga durata se
si guarda l'affare da un altro punto di vista, da altre
date. E' il 3 ottobre 2001. Biagi non ha più la scorta
in nessuna della città che frequenta per lavoro (Roma,
Milano, Modena) né nella città in cui vive (Bologna).
E' un uomo angosciato fino all'esasperazione. Il suo nome
è compilato quotidianamente nelle cronache che
raccontano lo scontro sulla riforma del mercato del
lavoro. Non è più soltanto un addetto ai lavori
conosciuto soltanto da addetti ai lavori. E' un
personaggio pubblico e riconoscibile che ha messo in
gioco il suo nome, la sua dottrina, il suo pensiero in
quella riforma. Se già a luglio si sentiva sulla
graticola, dopo la presentazione del Libro Bianco e le
polemiche che indirettamente lo coinvolgono, deve
sentirsi all'inferno. Mancano più di cinque mesi alla
sua morte. Possibile che non protesti più, che non si
ribelli, che non implori che lo Stato faccia la sua parte
con chi lo serve? A chi si rivolge in quei mesi? Con
quali toni? E i suoi interlocutori come reagiscono, che
pedine muovono se le muovono?
Con ogni probabilità, la "manina" conosce le
risposte. Sul floppy disk, nel quale ha copiato
l'archivio del professore, quelle lettere ci sono. E
deciderà secondo convenienza di renderle pubbliche. Ma
per colpire chi? Un ministro del governo troppo potente?
Un antagonista inflessibile del governo? O per liquidare
qualche presenza ostile nell'apparato della sicurezza?
Purtroppo, questa storia oscura è soltanto al primo
capitolo.
(29 giugno 2002)
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Lo rivelano fonti vicine alla Procura
di Bologna
Casini verrà ascoltato come persona informata dei fatti
"I file dei
pc di Biagi
accessibili a molte persone"
Gli inquirenti copiarono le memorie dei computer del
docente
ma poi li restituirono alla famiglia e all'ateneo di
Modena
BOLOGNA - Continua a
infittirsi, il mistero legato alla diffusione delle
lettere di Marco Biagi. Fonti vicine alla Procura di
Bologna rivelano oggi che molte persone, anche al di
fuori degli apparati investigativi, potevano avere
accesso ai file dei computer del professore, da lui
utilizzati per scrivere le missive. Appena partite le
indagini sull'omicidio, infatti, gli inquirenti fecero
una copia della memoria dei pc in uso al docente: il
portatile; in computer fisso della sua abitazione; e un
altro fisso all'Università di Modena. Dopo la copiatura
dei file, fatta da un consulente tecnico e da un
ufficiale di polizia giudiziaria, i pc furono però
lasciati ai proprietari: la famiglia Biagi e l'Ateneo. E
soprattutto dal computer dell'Università, chiunque fosse
a conoscenza della password poteva entrare nei documenti
del docente ucciso.
L'analisi del materiale contenuto negli hard disk di
Biagi fu una delle prime preoccupazioni dell'inchiesta: i
magistrati diedero infatti subito l'incarico di fare una
copia di tutti i suoi file. Non fu invece ritenuto
indispensabile, o comunque utile ai fini delle indagini,
il sequestro dei pc. Le ragioni della scelta dei
magistrati furono diverse. Rispetto al portatile e al pc
fisso nell'abitazione del docente, una volta copiati i
documenti, fu deciso di lasciare i computer alla
famiglia, per la quale costituivano un ricordo.
Ma l'analisi del materiale informatico non è stata priva
di difficoltà, visto che - come è stato confermato ieri
in Procura - ci sono file copiati dagli hard disk dei pc
fissi che non sono stati ancora analizzati. Il problema
deriva dall'enormità di documenti caricati in memoria,
soprattutto nel computer usato dal professore
all'Università di Modena. Proprio per questo motivo nei
file non ancora esaminati ci potrebbero essere anche le
lettere pubblicate ieri, e ignote ai magistrati: anche se
questa resta un'ipotesi ancora da verificare. In ogni
caso, alla luce delle missive pubblicate ieri, in Procura
si fa notare che molti possono aver avuto accesso ai pc
del professore: soprattutto quello all'università di
Modena.
E intanto, sempre nell'ambito dell'inchiesta in corso,
quasi certamente sarà sentito il presidente della
Camera, Pierferdinando Casini, destinatario di una delle
lettere. E dovrebbe essere lo stesso procuratore capo
Enrico di Nicola, da poche settimane alla guida della
Procura di Bologna, a concordare tempi e modalità
dell'appuntamento con Casini, coinvolto nella veste di
persona informata dei fatti.
(29 giugno 2002)
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