Ci fu un tempo in cui nel linguaggio degli italiani ...


di enzo biagi. corriere della sera 2002 -

Ci fu un tempo in cui nel linguaggio degli italiani ricorrevano spesso due frasi: «addavenì», e sottinteso, «er Baffone», individuabile in Josif Jugasvili più noto come Stalin, o «addaturnà», e lo vidi scritto in un portacenere, col nodo sabaudo, nel salotto di una signora che rimpiangeva la monarchia. Adesso anche il Parlamento non si oppone. Una volta gli italiani andavano all’assalto, e spesso morivano, gridando «Avanti Savoia». Ora si adeguano al clima e ai tempi e dicono: «Se vogliono, indietro».
Nessuno li considera un pericolo per la Repubblica che gli inconvenienti li ha in sé.
Faruk d’Egitto, che era del ramo, disse a proposito dei sovrani: «Un giorno ci saranno solo quelli delle carte e il re di Inghilterra» (forse). Che rappresenta, secondo lo storico Taylor, soprattutto un richiamo per i turisti.
Però la storia non si adegua, perché i fatti hanno una logica fatale: nessuno può cancellare le colpe di Vittorio Emanuele III, il piccolo, gelido re, che alla mostra d’arte, davanti a un paesaggio, chiedeva al pittore: «Che comune? Quanti abitanti fa?», ma che lasciò accantonare lo Statuto, permise la creazione di una milizia di parte, tollerò il Tribunale speciale e il confino, sottoscrisse le avventure dell’Africa e della Spagna, e i malefici effetti del Patto d’acciaio con la Germania nazista: comprese le leggi razziali.
Poi fece arrestare il suo primo ministro Mussolini, che lo aveva promosso Imperatore, mentre lo tratteneva in udienza, vedendolo sparire in una autoambulanza; ed Elena, la devota sposa, gli rimproverò il tradimento dell’ospitalità.
E ancora l’8 settembre; mentre l’esercito si sfaldava, in un clima tra farsa e tragedia, la «fuga a Pescara».
E sempre Elena, che praticava la nostra lingua con parsimonia, a Umberto che manifestava il proposito di correre al Nord coi partigiani, impose: «On va te tuer, Beppo. Tu n’iras pas». Ti ammazzano; e Beppo non andò.
Né lui né il figlio Vittorio Emanuele hanno responsabilità, anche per ragioni anagrafiche, dell’ascesa della dittatura. Umberto II ereditò, con la Corona, anche i guai e il regime.
Forse è inutile oggi fare il processo al passato: la corona, nelle tante avventure della Patria, gloriose e meschine, ha svolto ruoli contrastanti. Ad esempio: ha resistito sul Piave e ha mollato sul Tevere, ma di solito ci ha rappresentato.
C’è quella del Risorgimento e quella dell’8 settembre. Quella che sottoscrisse la fine della democrazia, poi la stupida impresa etiopica, che ci portò le foto delle tette delle «faccette nere» e qualche sacco di caffè di Harar, poi la dichiarazione di guerra, aspettando dopo che il fascismo si eliminasse da solo.
Ho visto una sola volta da vicino Umberto, il «re di maggio»: a Londra, al ristorante San Lorenzo, era in compagnia di Forte, il re degli alberghi. Mentre ho conversato a lungo, in Svizzera, con la sposa, Maria José, una signora colta e intelligente, di cui Benedetto Croce diceva: «È l’unico uomo di Casa Savoia».
Mi disse: «Dell’Italia mi manca la bellezza e il calore della gente».
Lo stemma sabaudo ormai resiste solo sulle etichette del Fernet.

REPUBBLICA

Il reperto ha più di un milione e 750 mila anni
L'annuncio e le foto sul "National Geographic"
C'è un antenato
che cambia la storia

Scoperto in Georgia il cranio
del primo homo eurasiatico
di CLAUDIA DI GIORGIO

ROMA - Cervello piccolo e canini grandi: sono questi gli arcaici attributi che, secondo un eccezionale ritrovamento, sponsorizzato dalla National Geographic Society e annunciato oggi su "Science", caratterizzavano i primi ominidi usciti dall'Africa per avventurarsi in Asia e in Europa. Il loro identikit è stato ricomposto grazie ad un cranio di un milione 750 mila anni fa dissepolto a Dmanisi, in Georgia, in un sito archeologico che si sta rivelando cruciale per la ricostruzione dell'albero genealogico dell'umanità. E' stato a Dmanisi che, tre anni fa, sono tornati alla luce due teschi che hanno costretto gli studiosi a retrodatare la comparsa dei primi eurasiatici a un milione 800 mila anni fa, cioè ottocentomila anni prima di quanto si credeva.

Ma il cranio che adesso Abesalon Vekua e David Lordkipanidze presentano orgogliosi sulle pagine di "Science" potrebbe obbligare i paleontologi a rivedere una convinzione ancora più radicata, vale a dire che l'epopea umana fuori dell'Africa sia associata ad un aumento del volume cerebrale e quindi al passaggio da una specie più primitiva ad una dotata di intelligenza "superiore". Secondo la teoria prevalente, gli Homo habilis, comparsi in Africa intorno ai 2 milioni e mezzo di anni fa, avevano sviluppato capacità intellettuali sufficienti a costruire i primi, rudimentali utensili di pietra, collocandosi sul primo gradino del genere Homo. Ma per spiegare la gigantesca migrazione che nel corso dei millenni si sarebbe spinta fino ai confini orientali dell'Asia da un lato e della Spagna dall'altro, ci voleva qualcosa di più: un cervello ancora più grande, capace di elaborare tecnologie più raffinate, adattandosi a nuovi ambienti. Ci voleva, insomma, una nuova specie, Homo erectus, dotata di una massa cerebrale tra gli 850 ed i 1.000 centimetri cubici (la media attuale è di 1.200 cc.).

Il nuovo cranio di Dmanisi, identificato dai suoi scopritori con la sigla D2700, sembra invece smentire questa tesi. Le sue dimensioni, scrivono i ricercatori, sono infatti "eccezionalmente piccole". Ritrovato in ottime condizioni di conservazione, è il cranio quasi completo di un individuo giovane e gracile, forse una donna, la cui capacità cerebrale era di appena 600 cc. circa: un quarto in meno dei due individui rinvenuti in precedenza in Georgia, e assai meno di quanto fosse lecito attendersi da un ominide ritrovato così lontano dall'Africa. [ab]Siamo di fronte a un nuovo enigma[bb], ha dichiarato uno dei ricercatori al "National Geographic" (la National Geographic Society finanzia in parte gli scavi di Dmanisi), che all'eccezionale scoperta dedica la copertina e un ampio articolo nel numero di agosto.
Anche la forma del volto è primitiva. Il naso corto, l'osso occipitale arrotondato e i due lunghi e grossi canini fanno scrivere ai suoi scopritori che il viso dell'ominide assomiglia a quello di un Homo habilis, "specialmente di profilo". Tuttavia, altre caratteristiche rimandano ai crani già trovati in Georgia, ed anche alla specie più moderna, Homo erectus, a cui alla fine è stato attribuito.

Almeno per ora. Vekua e colleghi non si sbilanciano, ma le loro scoperte aprono molti interrogativi. Da un lato, sembrano indicare che la ragione dell'esodo dall'Africa non abbia molto a che vedere con le dimensioni cerebrali, o perlomeno che non ne sia stata l'unica causa. Ma gli ominidi di Dmanisi potrebbero essere addirittura una nuova specie, un "anello mancante" tra Homo erectus ed i primi rappresentanti del genere Homo, capace di arrivare fino alle porte dell'Europa a dispetto del suo piccolo cervello. Oppure, ed è l'ipotesi più affascinante, l'impulso a spostarsi verso nuove terre era scritta nel DNA umano fin dalle origini.

(5 luglio 2002)

Ministro per l'Attuazione del programma di governo

Giuseppe Pisanu

Ministero nuovo per Giuseppe Pisanu, designato responsabile dell'Attuazione del programma di governo. A lui, ha spiegato Berlusconi, toccherà il compito di "controllare ogni 15 giorni l'operato dei ministri". Nato a Ittiri (Sassari) il 2 gennaio 1937, sposato, tre figli, laureato in scienze agrarie, Pisanu è stato un dirigente della Democrazia cristiana e capo della segretaria politica della Dc dal 1975 al 1980, con Benigno Zaccagnini segretario.
Per la Dc è stato eletto in Parlamento ininterrottamente dal 1972 al 1992 quando non è stato ricandidato.

Negli anni Ottanta è sottosegretario al Tesoro e alla Difesa nei governi Forlani, Spadolini, nel quinto e sesto governo Fanfani e nel governo Goria. Nel gennaio 1983 si dimette dalla carica di sottosegretario per chiarire meglio la sua posizione dopo le polemiche suscitate da un'audizione in commissione P2 sui rapporti tra lui e Flavio Carboni. All'inizio del 1994, quando la Dc si spacca, Pisanu aderisce al Ccd, ma quasi subito passa a Forza Italia, nelle cui liste è eletto alla Camera in Sardegna nel proporzionale e diventa vicepresidente vicario del gruppo parlamentare. Nel 1996 è rieletto al proporzionale e sarà poi eletto capogruppo di Forza Italia a Montecitorio.

Quest'anno, alle elezioni del 13 maggio, Pisanu è rieletto, di nuovo nel proporzionale. In campagna elettorale, il leader della Casa delle libertà Silvio Berlusconi gli ha promesso "importanti incarichi di governo".

(10 giugno 2001

Con ogni mezzo
ROSSANA ROSSANDA

SINDACATO - DA IL MANIFESTO.


Inutile girarci intorno, la bufera non è sulle scorte, la bufera è su Cofferati. Il solo scoop delle cinque lettere attribuite a Marco Biagi e pubblicate da
Repubblica non sta nelle pressanti richieste del professore, che si sentiva minacciato, ma nell'accenno che egli fa, o gli si fa fare, al segretario della Cgil. Che il governo gli avesse tolto la scorta e neppure gli avesse risposto si sapeva, e anche che Maroni, Scajola, i prefetti e le questure hanno giocato a scaricabarile quando quel cadavere era ormai sul selciato. E' stato uno scandalo, del quale l'uscita - e forse la manipolazione - delle lettere danno un'ulteriore prova; uno scandalo frutto di arroganza e indifferenza, ma presto dimenticato da un'opposizione inerte e dallo sfarfallare dei media: 10 giorni dopo non ne parlava più nessuno. E se ora se ne parlerà, sarà per il regolamento di conti interno al governo o ai corpi separati di cui si sussurra, e che per la gente normale come noi sono tutto fuorché chiari. Quel che è chiaro ma che ci si sforza di non vedere è che in Italia quando lo scontro sociale sale qualcuno getta la palla in corner. Nel 1969 un proiettile, rimasto senza mittente, fulminò l'agente Annarumma, offrendo all'allora presidente Saragat il destro per accusarne l'autunno caldo. Poi le bombe di piazza Fontana cercarono di azzerarlo. Nel 2002, a trent'anni di distanza, riparte una lotta di lavoratori di dimensioni straordinarie, un intellettuale che con i governi collabora viene ucciso, quattro mesi dopo escono alcune sue lettere che indicano in Cofferati un avversario, e si scatena una campagna furibonda contro la Cgil quale matrice oggettiva «della violenza». La moderata Cgil, consociativa finché ha potuto, negoziatrice finché ne ha visto uno spazio, tirata per i capelli da un governo che vuol togliere al lavoro quel poco che aveva conquistato. Senza di che neanche un bulldozer avrebbe smosso Sergio Cofferati dai paletti che aveva posto al suo «mestiere» di sindacalista - ma questi segnavano un limite davvero non negoziabile.

Sono questi gli elementari diritti che oggi vanno abbattuti. Questa è la posta in gioco in tutta Europa. Sarebbe anzi da capire perché il capitalismo vincente non è più capace di mediazioni ed è tornato a considerare eversivo il conflitto sociale tale e quale i fascismi degli anni `20 e `30. Certo non si pongono questa domanda i pensosi cultori del postmoderno e del postfordismo, e tanto meno i modernizzatori italiani-europei, che hanno fretta di esorcizzare ogni contraddizione fra capitale e lavoro. Ma questa è anche la vera discriminazione che passa nelle sinistre e nella stampa di rispettosa opposizione: l'ex direttore di
Repubblica Eugenio Scalfari, l'ha visto bene nel suo giornale che invece preferisce lo scoop e i complotti alla vecchia e incomoda verità.

La Cgil è sola. Con i salariati. Che però sono alcuni milioni. Dei quali il governo è avversario, l'opposizione si scorda, i media esercitano la cancellazione, mentre le altre due centrali sindacali traccheggiano. E' dunque venuto il momento - deve aver pensato qualcuno - di mettere a terra Cofferati e di minare lo sciopero generale di settembre. Le «riforme» - parola capovolta da destra e da sinistra - devono passare. In altre parole il lavoro deve tornare ad essere corveable à merci. E non si badi ai mezzi.

Non può stare
LUIGI PINTOR

IL MANIFESTO


Penso che il ministro Scajola si dimetterà oggi o domani. Non per nobili ragioni, per senso di responsabilità e rispetto della pubblica opinione, ma per convenienza personale e politica. Se rimarrà al suo posto non sarà un'anatra zoppa, come si dice, un ministro dimezzato. Sarà uno straccio, uno zombie, uno che dovrà circolare con gli occhi bassi, che provocherà imbarazzo dovunque vada e che nessuno rispetterà. Non è che abbia fatto una gaffe o commesso un errore. Ha rivelato un modo di pensare e un comportamento che ha sbalordito 40 milioni di persone, anche i più distratti o più scettici o cinici, di ogni parte politica. Non è che abbia offeso una vittima e i suoi familiari, che è questione morale, ha detto anche che non può esserci protezione e sicurezza per nessuno. Non è una cosa che si dimentica, detta da un ministro degli interni, neanche al mare in agosto.

Che autorità e credibilità avrà quest'uomo, se resterà al suo posto, non dico agli occhi del cittadino medio ma nei confronti degli apparati statali, dei corpi di polizia, degli addetti ai lavori, dell'ultimo commissariato di provincia e degli uscieri del suo ministero? Se la guerra al terrorismo e alla criminalità organizzata fosse davvero una priorità nazionale, abbiamo per capo di stato maggiore un caporale di giornata.

Mi dicono che sbaglio previsione, che l'onorevole Berlusconi non sacrificherà questo suo fidato attendente, che gli onorevoli Bossi e Buttiglione si sdraiano come tappetini, che il governo è compatto compreso l'aspirante ad interim onorevole Fini, che i gesti dei presidenti Ciampi e Casini lasciano il tempo che trovano. Sarà, ma qui non si tratta di sacrificare nessuno, il ministro Scajola si è già sacrificato da sé e nessuno può salvarlo neanche mummificandolo. Qui non si tratta di una questione personale ma di un vuoto che si è aperto nel governo, un vuoto di credibilità, e intorno a un vuoto non si può far quadrato.

L'arroganza non risolve nulla, questa volta. E se il governo lascerà le cose come stanno o le peggiorerà non sarà un ennesimo atto di spocchia ma di massima debolezza. Ci sono cose che l'onorevole Berlusconi intuisce ma altre che gli sfuggono, e questa gli è sfuggita dal primo momento. Una maggioranza parlamentare in un regime blindato può votare quello che vuole, ma mai come adesso è stata in minoranza rispetto al sentimento pubblico. C'è un secondo governo Berlusconi, il primo ha subito una sconfitta, se l'è inflitta anzi da sé, senza avere il coraggio di tenerne conto e rimediare. E il secondo è più logoro del primo.

Ogni sei mesi una verifica e un rimpasto, l'onorevole Berlusconi diceva queste cose quando era ancora un napoleonide. Oggi si chiude a riccio, un riccio infetto al proprio interno. Questo è pericoloso, lo sappiamo, anche perché (sappiamo anche questo) ha un'opposizione politica più debole dell'opposizione sociale. E però, se continuiamo a sentirci in pessime mani, ci accorgiamo anche che sono mani malferme e ci sentiamo meno soli.

Arriva nelle sale italiane "Scandalosi vecchi tempi"
un collage di cortometraggi pornografici d'epoca
Tra erotismo e nostalgia
i film porno anni Venti

di CLAUDIA MORGOGLIONE

ROMA - All'epoca, nei ruggenti anni Venti del '900, erano più che film vietati ai minori. Super-proibiti, clandestini, peccaminosi, questi cortometraggi porno venivano proiettati solo nelle sale d'aspetto dei bordelli francesi, per intrattenere clienti facoltosi e in cerca d'emozioni. Con un repertorio di situazioni "classiche" del genere: in convento, in una sartoria, a scuola, in una locanda di passaggio. E così via.

Opere destinate a finire nel dimenticatoio. E invece, all'ultimo Festival di Cannes, alcuni di questi spezzoni libertini sono stati recuperati e uniti in una pellicola a episodi, per una durata complessiva di 67 minuti. Che da venerdì 5 luglio arriva nelle sale italiane, distribuito dalla Mikado, col titolo
Scandalosi vecchi tempi.

Dodici filmati muti corredati di maliziose didascalie, girati di nascosto tra il 1920 e il 1930 (a eccezione del primo, datato 1905), costati circa 3 franchi ciascuno, completamente anonimi, con registi a attori non identificati. Realizzati con mezzi piuttosto approssimativi, nell'arco di un pomeriggio, in maniera casereccia: venivano coinvolti amici dei produttori e prostitute del luogo, che ottenevano un minimo rimborso.

Ma attenzione: i mezzi artigianali utilizzati, e la patina d'epoca che vediamo scorrere sullo schermo, non devono ingannare. Perchè gli episodi che compongono
Scandalosi vecchi tempi sono pornografici nel vero senso della parola. Ci sono atti sessuali di ogni tipo, orge, riprese in primo piano di tutti gli accoppiamenti possibili e immaginabili: un grande repertorio di sequenze hard, insomma, anche se certe ingenuità - nelle situazioni più boccaccesche - suscitano il sorriso nello spettatore di adesso.

E vediamo, allora, alcuni di questi episodi. Ad esempio, quello - classico per il genere - ambientato in convento: protagoniste due suore, il cuoco che gli passa il cibo attraverso un'apertura nella loro cella di clausura, l'abate che sopraggiunge e che approfitta della situazione. Oppure il moschettiere, vestito in stile Dumas, che si ferma in una locanda lungo il cammino, e che - in una lunga serie di doppi sensi, tra il gastronomico e il sessuale - prova tutte delizie del posto.

E l'elenco potrebbe continuare, in un mix di erotismo e nostalgia. A dimostrazione che, fin dagli albori del cinema, le potenzialità voyeuristiche della macchina da presa sono state subito sfruttate.

(2 luglio 2002)

Il ministro degli Interni lascia l'incarico travolto dalla bufera Biagi
Lettere a Berlusconi e Ciampi e nuove scuse alla famiglia
Scajola si è dimesso

"Doveroso atto di servizio"
Confermato il dibattito alla Camera. Il premier parla alle 18,30

da repubblica

ROMA - "Un doveroso atto di servizio". A poche ore dal dibattito in Parlamento che lo avrebbe visto sul banco degli imputati, il ministro degli Interni Claudio Scajola usa queste parole per dimettersi e lasciare il suo incarico, travolto dalla bufera suscitata dalle sue dichiarazioni sul caso Biagi. Lascia scrivendo una lettera al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel testo dattiloscritto Scajola rinnova le sue scuse alla famiglia di Marco Biagi per aver "contribuito a rinnovare il loro dolore". "Con questo gesto sereno intendo compiere un doveroso atto di servizio verso le istituzioni democratiche", scrive il ministro per proseguire: "Ai familiari del professor Biagi rinnovo il profondo e sentito rammarico per aver contribuito involontariamente a rinnovare il loro dolore". Al Viminale, Claudio Scajola, ex-democristiano imperiese, è rimasto 387 giorni non proprio facili: dal G8 al caso Biagi.

Scajola aveva già offerto le sue dimissioni al premier all'indomani delle dichiarazioni su Biagi ("un rompicoglioni" l'aveva definito il ministro in un'esternazione a Nicosia), ma Berlusconi gli aveva rinnovato la fiducia. Le polemiche dei giorni successivi, che hanno spinto anche il capo dello Stato Ciampi a intervenire per chiedere scusa, a nome di tutti gli italiani, alla vedova del giuslavorista ucciso dalle Br, la richiesta delle opposizioni di chiarire in Parlamento la vicenda Biagi e infine la spaccatura all'interno della maggioranza, che ha visto il leader di An esprimere i suoi dubbi sulla posizione di Scajola, hanno portato il ministro alla decisione di oggi.

La situazione è precipitata ieri all'ora di pranzo, durante il vertice di maggioranza a casa di Berlusconi. In quella sede pochi hanno difeso il ministro dell'Interno e soprattutto da An (Fini avrebbe definito "opportune" le dimissioni) e da settori di Fi sono giunti segnali non incoraggianti per Scajola. In serata a palazzo Grazioli Berlusconi ha ricevuto Scajola insieme a Bonaiuti, Antonione, Schifani e Letta: il ministro ha nuovamente offerto le sue dimissioni, ma nella maggioranza c'era divergenza sul nome del sostituto mentre Berlusconi non si rassegnava all'idea di perdere il Viminale presidiato da un suo fedelissimo. Dal Quirinale, poi, in serata sarebbe giunta una telefonata che sollecitava senso di responsabilità in un momento così delicato.

Dopo oltre tre ore di colloqui, Scajola ha lasciato via del Plebiscito per trasferirsi a via dell'Umiltà, sede di Forza Italia. Stamattina, dopo poche ore di sonno, di nuovo la maggioranza era all'opera. In continui colloqui e contatti telefonici Scajola ha confermato di voler lasciare il suo incarico ma ha chiesto che il Viminale non restasse scoperto a lungo. A quel punto, ormai, le dimissioni erano date per certe anche a Montecitorio, dove sono rimbalzate voci di una sostituzione da parte di Pisanu o di Frattini. La maggior parte del gruppo dirigente azzurro indicava in Pisanu il successore preferibile, mentre indicava in Frattini un esponente del partito considerato ormai in noto contrasto con Scajola.

Il ministro dell'Interno, prima di recarsi al Viminale per dare le dimissioni, ha ricevuto nella sua residenza romana il capo della Polizia De Gennaro ed altri dirigenti: un ulteriore segnale delle sue intenzioni ormai certe. Le dimissioni di Scajola, all'una, hanno quindi movimentato il Transatlantico, ma la notizia era già data per certa dai più.

Ricevute le dimissioni, Berlusconi ha incontrato nel pomeriggio Pisanu. Ora i prossimi passaggi dovrebbero essere un colloquio al Quirinale del premier e poi l'annuncio della sostituzione di Scajola con Pisanu alle 18,30 in aula alla Camera.

"Le dimissioni di Scajola sono innanzitutto un atto di responsabilità che dimostra il suo alto senso dello Stato". E' un Gianfranco Fini soddisfatto quello che commenta a caldo la scelta di Scajola: "Il suo gesto sottrae le istituzioni alla campagna denigratoria e agli attacchi strumentali di chi pensava di indebolire il governo e di rallentarne l'azione riformatrice". La definisce una "generosa decisione" il vicepresidente del Consiglio che "conferma la sua indubbia dirittura morale e ci rafforza nel convincimento che Claudio Scajola rappresenta una risorsa per il futuro della coalizione di centrodestra".

"Dimissioni tardive ma dovute" per Pietro Folena, che ritiene sia arrivato ora "il momento della chiarezza. Noi vogliamo la verità rispetto ad una vicenda cominciata mesi fa che ha aspetti assolutamente inquietanti e che hanno già posti interrogativi". Per l'esponente dei Ds "non si può infatti pensare che oggi venga archiviata o messa da parte solo perché il ministro dell'Interno ha avuto la sensibilità democratica di dimettersi. Ci attendiamo chiarezza e una verità rispetto a domande che pesano come macigni sulla Repubblica".

(3 luglio 2002)

La lettera
di Scajola

ROMA - Questo il testo della lettera di dimissioni che Claudio Scajola, ha inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi:

"Caro Presidente, rassegno le dimissioni ben consapevole dell'alta responsabilità che come ministro dell'Interno ho verso la Repubblica e i suoi cittadini".

"L'attuale momento storico reso più difficile e complesso dalla minaccia terroristica impone infatti che l'autorità nazionale di pubblica sicurezza sia assistita dalla piena fiducia della maggioranza parlamentare, dal rispetto delle forze di opposizione. Quando queste garanzie si affievoliscono deve avvertirsi la sensibilità sul piano morale e politico di rinunciare responsabilmente all'alto ufficio che si è avuto l'onore di ricoprire".

"Con questo gesto sereno intendo compiere un doveroso atto di servizio verso le Istituzioni democratiche.
Sento altresì di esprimere ai familiari del professor Marco Biagi il mio più profondo e sentito rammarico per aver involontariamente contribuito a rinnovare il loro dolore".

"Un vivo ringraziamento devo infine rivolgere all'intera amministrazione dell'Interno e a tutte le forze di polizia con l'esortazione a continuare con fedeltà, lealtà e abnegazione a servire la Nazione. Esprimo gratitudine per la fiducia in me riposta anche in questi giorni difficili".

"Ti esprimo gratitudine per la fiducia in me riposta anche in questi giorni difficili. Tuo Claudio Scajola'

(3 luglio 2002)

INTERVISTA A BRUNO TRENTIN

29.06.2002 "Ignominie contro il sindacato più colpito dal terrorismo" ROMA «C’è qualcosa di torbido...».

Bruno Trentin non nasconde il suo turbamento per l’improvvisa fiammata speculativa attorno alla tragedia del prof. Marco Biagi. È lui stesso, prima di affrontare il tema del programma dei Ds a cui sta lavorando con Alfredo Reichlin e Giorgio Ruffolo, ad esprimere i dubbi su un caso con così tanti elementi oscuri.

Cosa la sconvolge di più?

«La successione dei tempi è più strumentale delle stesse polemiche cominciate con le accuse davvero ignobili del ministro Maroni a Sergio Cofferati».

Crede che la coincidenza non sia fortuita?

«È indubbiamente intrigante, e merita di essere adeguatamente indagata. Mi domando se Maroni abbia lanciato l’offensiva, da Giovanardi giustificata in Parlamento e da Scajola addirittura aggravata senza nulla sapere. Il governo chiarisca questa e tutte le altre responsabilità che chiamano in causa la gestione della cosa pubblica e la conduzione della polemica polemica. Sono, in tutta evidenza, nodi che investono la stessa vita democratica».

Lei che è stato segretario generale della Cgil come vive questa recrudescenza polemica sul terrorismo?

«Sento l’ignominia dell’insinuazione lanciata sull’organizzazione sindacale che ha pagato il prezzo più pesante, persino con la vita di Guido Rossa, nella lotta contro il terrorismo. Senza la Cgil non saremmo riusciti a sconfiggere il terrorismo delle Brigate rosse degli anni Settanta e non si riuscirà a sconfiggere neanche questo nemico ancora più subdolo. Per questo alla solidarietà, senza condizioni, a Sergio Cofferati e alla Cgil deve accompagnarsi alta e forte la denuncia dell’obbiettivo di dividere il movimento democratico».

Siamo in tema. La lacerazione di pochi giorni fa in Direzione, sull’ordine del giorno della minoranza in merito all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non si è riprodotta l’altro giorno in Direzione quando lei ha presentato i primi documenti, sul lavoro e sul welfare, per la Conferenza programmatica d’autunno. Ma si può dire che la divaricazione sia superata?

«Io mi auguro che una discussione positiva sui contenuti progettuali possa favorire il definitivo superamento di queste lacerazioni. Non è che non abbiamo discusso dell’articolo 18. Abbiamo cercato di evidenziare alcune scelte impegnative, e ritengo innovative, al di là della contingenza politica...».

Non è che si è volato un po’ troppo alto?

«Guardi che, semmai, la preoccupazione è di non ricadere nella tentazione antica della sinistra di anteporre i problemi di schieramento a quelli di contenuto. Già abbiamo scontato che un lavoro progettuale serio, come quello condotto da Giorgio Ruffolo, sia finito nei cassetti proprio per la difficoltà ad affrontare un confronto senza pregiudiziali che, appunto, prescindesse dalla contingenza. Se abbiamo tentato di volare alto, allora, è perché vogliamo riportare la dialettica che c’è nel partito ad esprimersi liberamente. Non è che sia stato tutto pacifico. Anzi, ci poniamo adesso il problema di come evidenziare le diverse opzioni».

Davvero, e quali sarebbero?

«Con i documenti abbiamo posto la questione se sia giusto ripartire da una nuova generazione di diritti per fronteggiare le trasformazioni in atto e legittimare l’alternativa di uno sviluppo economico di qualità fondato sul governo del mercato del lavoro, delle condizioni della competitività, della centralità delle riforme sulla formazione permanente, di più equi ammortizzatori sociali. Non come mera riproduzione di vecchi diritti ma come diritti che valgono ancor più per il futuro».

Contrastata da quale posizione?

«Quella che considera i diritti come un tema difensivo, rivendicativo, mentre il vero problema sarebbe di definire una politica di sviluppo confacente ai bisogni di oggi, senza privilegiare l’interlocuzione con il mondo del lavoro».

Ma qual è la linea di maggioranza e quale quella di minoranza? «Vede, come è difficile ritrovare riferimenti schematici agli schieramenti congressuali?». Significa che alla conferenza programmatica si possono rimescolare gli schieramenti?

«Ritengo possa essere una opportunità. Non si parte più - mi sia permessa questa personalissima critica al percorso congressuale - dalla fiducia a una candidatura alla segreteria da parte di schieramenti che poi cercano gli elementi programmatici distintivi per giustificarla, ma da una discussione senza pregiudiziali che proprio non rispecchiando gli schemi di corrente può consentire convergenze orizzontali. Per arrivare a una nuova e più efficace sintesi politica riformatrice».

I contenuti, allora. Come si caratterizza questa nuova generazione dei diritti rispetto ai vecchi tanto discussi?

«È una nuova generazione di diritti quella che punta ad affermare una uguaglianza di opportunità nell’accesso al lavoro e alla vita sociale, superando le barriere e le discriminazioni che caratterizzano lo stato sociale così com’è oggi. Prendiamo proprio l’esempio dell’articolo 18: più il lavoro diventa precario e flessibile più ha bisogno di tutele. È tanto più vero per chi ha un contratto per 3 o 6 mesi: già paga questo prezzo all’insicurezza per restare in balia dell’insicurezza quotidiana. In certi casi, anzi, diventa un diritto reciproco, ovvero per i lavoratori e per le stesse imprese...».

È un paradosso?

«Niente affatto. Pensi alle prestazioni temporalmente limitate ma molto personalizzate e altamente professionalizzate: ha o no l’imprenditore che deve realizzare un progetto in 3 o 6 mesi il diritto a non vedersi piantato in asso dopo qualche giorno solo perché l’altro soggetto del contratto ha trovato una occasione di lavoro più redditizia o gratificante?».

Crede davvero che possa bastare a chi invoca la flessibilità e la competitività?

«Nel momento in cui a tutte le forme di lavoro oggi esistenti si chiede non più l’esecuzione cieca, propria del passato sistema fordista, ma responsabilità, attenzione, coinvolgimento, diventa un diritto fondamentale poter intervenire sull’organizzazione del lavoro, sui processi di ristrutturazione, sullo stesso governo del tempo sia di lavoro sia di vita. Se si vuole concretamente affrontare questioni come quella della flessibilità, allora diventa un diritto comune quello alla formazione durante l’intero arco della vita, così come quello a nuove occasioni di impiego in una vita sempre più interrotta da soluzioni di continuità. Ecco, stiamo parlando di una generazione di diritti e di un welfare che sfociano naturalmente in una strategia di sviluppo essenziale per la stessa qualità dell’economia e della società».

C’è, però, un problema: le riforme, si sa, costano. Come e dove reperire le risorse necessarie?

«Diciamolo apertamente: una riforma del welfare che non sia il mero abbattimento dello stato sociale perseguito dal centrodestra comporta un duro scontro con l’egemonia del pensiero unico liberista che fa dipendere tutto dall’abbattimento indiscriminato dell’imposizione fiscale». Non è molto popolare dire che non si debbono diminuire le tasse...

«È popolare cancellare una scelta come quella dell’Irap che coinvolge l’impresa ma riduce il costo del lavoro per poi colpire indiscriminatamente, che so, l’accesso ai servizi sanitari? È vero, ci sono incongruenze e diseguaglianze nel prelievo fiscale, e si deve procedere a una redistribuzione nell’uso delle risorse non soltanto in modo più vicino ai ceti popolari ma anche alle esigenze di sviluppo delle imprese e del paese. Altra cosa però è la demagogia che mette in discussione il modello sociale europeo. In questo c’è una coerenza occulta del centrodestra. E, purtroppo, c’è un ritardo del centro sinistra. Il loro slogan è: meno tasse e meno stato sociale. Noi non abbiamo detto meno stato sociale, ma ci siamo lasciati ipnotizzare che meno tasse fosse la soluzione. Quando persino il governo inglese, per finanziare la riforma del sistema sanitario, deve aumentarle le tasse, in certi settori più di quanto non siano state abbassate...».

Ma come un nuovo modello di welfare può mettere a nudo la mistificazione?

«Prendiamo la questione più scabrosa: la previdenza. È evidente che un problema di sopravvivenza del sistema universale si pone quando l’aspettativa di vita è di 80 anni e nel 2004 la classe di età tra i 55 e 65 anni supererà in numero la classe 15-25 anni. Il centrodestra ha propagandato l’aumento a un milione delle pensioni minime, che però sconta l’abbattimento delle pensioni per chi sta sopra il milione. Insomma, una soglia minima e, per il resto, ognuno si arrangi, chi può con i fondi integrativi e chi non può si salvi come crede. L’alternativa, la nostra alternativa, non può che difendere il diritto universale alla pensione dando risposte di riforma al problema enorme dell’invecchiamento attivo e volontario nel proseguimento del rapporto del lavoro, scongiurando l’esclusione di intere generazioni dall’attività sociale».

Anche a costo di rimettere in discussione le vecchie certezze?

«So bene che si deve scontare una battaglia politica, anche tra le nostre forze. Ma abbiamo dei discrimini di grande portata sociale, etica e politica da far valere con i contenuti di un vero riformismo».

Un giorno nella vita della Repubblica
di Furio Colombo

In un giorno neanche tanto lontano (diciamo fra alcuni anni) qualcuno racconterà la storia del conflitto di interessi di Berlusconi. Apparirà come una delle pagine più brutte di una pur tormentata storia italiana. La parte triste e umiliante di quella storia non sarà la protervia di chi vuol far valere ad ogni costo i propri interessi e le proprie convenienze, di chi è deciso a piegare leggi e istituzioni pur di ottenere insieme tutto il potere del governo e tutto il controllo della vasta porzione di privato che possiede.
La storia del mondo è piena di personaggi che sono riusciti a imporre la propria convenienza su quella della Repubblica.
Il peggio non saranno neppure le schiere di avvocati che hanno sostenuto oltre ogni limite di ragionevolezza ciò esige Berlusconi: la pretesa di governare benché proprietario e di restare proprietario benché capo del governo e titolare di una concessione governativa data a se stesso.
Certo, si racconterà a lungo degli avvocati divenuti membri del Parlamento e presidenti di commissioni chiave (come la Commissione Giustizia, la Commissione Affari Costituzionali) che hanno sbrigato i propri doveri legali dalle due parti della legge, cambiandola e facendola applicare.
Ma si tratta pur sempre di professionisti a parcella, che restano legati prima di tutto al cliente anche quando diventano ministri della Repubblica.
Certo, è facile immaginare che nei computer in cui si narrerà la storia italiana di questi giorni resterà l’immagine audio-video del ministro Frattini, comparsa sul TG 1 del 27 giugno 2002. Quella inquadratura fissa tipo annuncio di arrivo degli extraterrestri, in cui Frattini scandisce un comunicato nel quale si spiega che la legge sul conflitto di interessi definisce Silvio Berlusconi esente - lui solo - dalla legge stessa resterà come un’icona del tempo. Resterà a dimostrare che tutto è stato architettato da un vasto gioco di potere senza interlocutori e senza ostacoli. Si dirà che è molto strano e assolutamente insolito che una variegata maggioranza, con provenienze e sensibilità culturali diverse, con storie e visioni politiche tutt’altro che identiche si sia saldata in un blocco rigido, che non discute, non ascolta, non ha nulla da dire alla Camera e al Senato, si limita a eseguire premendo il tasto del voto, diventa cemento senza occhi e senza orecchie intorno al leader di cui ti dicono: comunque ha ragione.
Si farà notare che una simile compattezza, che non ha nulla di ideologico e non ha alcun senso politico, rivela un culto personale del leader che è estraneo alla vita democratica.
Di questo si parlerà, e dello straordinario impulso a servire il capo che ha fatto perdere a tanti parlamentari della maggioranza identità e reputazione, e persino la traccia di una dignitosa presenza in aula. Infatti il conflitto di interesse di Berlusconi non è una questione di destra o di sinistra, non è un problema di maggioranza o di governo, non è uno strumento malefico dell’opposizione.
È un fatto, che non può essere negato e che costituisce un problema vistoso, grave, ingombrante. Viola legge, credibilità, la dignità dei cittadini, ma anche la dignità del protagonista del conflitto di interesse. Se non lo cancella è continuamente sospettabile di profittarne. Se non ne profittasse lo cancellerebbe.
I cronisti di questa vicenda ci ricorderanno qualcosa che gli avvocati-deputati del primo ministro dicevano sempre. Dicevano che una legge sul conflitto di interessi non c’era perché l’opposizione, quando era maggioranza, non l’aveva fatta. E’ vero. Però servirà a poco ricordare questo fatto quando si ridiscuterà questo evento negli anni a venire. Tutta l’attenzione si concentrerà sulla legge che gli avvocati di Berlusconi hanno fatto per Berlusconi. Niente impediva che fosse una buona legge, una vera e propria «lezione» agli avversari del Premier.
I nostri concittadini del prossimo futuro saranno incuriositi dalla battuta che gli avvocati-deputati fanno circolare: «lo volevano espropriare, perché l’espropriazione è il chiodo fisso dei comunisti».
Prima di tutto, ricorderanno coloro che avranno ricostruito gli eventi, era il chiodo fisso di costituzionalisti, giuristi e politologi celebri nel mondo e niente affatto di sinistra, come Giovanni Sartori. E poi non la «espropriazione» (la parola viene sibilata dal ministro Frattini, autore della legge per Berlusconi, come se dicesse «Siberia») era il tema, ma la separazione fra la proprietà privata (specialmente se basata su una concessione governativa) e il controllo pubblico. Governare è una facoltà e un privilegio, ma non un obbligo, e vi sono sempre stati alcuni requisiti per esercitare il potere democratico , come ve ne sono per fare il medico (ci vuole la laurea e la specializzazione e nessuno direbbe che è un sopruso) o l’ingegnere costruttore. Il punto è così semplice che farà prima ridere e poi preoccupare i cittadini italiani che leggeranno fra qualche anno di questa storia.
Infatti l’esercizio di una funzione pubblica, che coinvolge una comunità, richiede sempre una garanzia che non è solo il voto.
Quando una legge è una buona legge? Quando garantisce tutti. Tu non puoi essere controllato e controllore. Non puoi essere l’unico al mondo a beneficiare di una certa legge. Questa, diranno fra qualche anno, è la imperdonabile stranezza della legge Frattini. E’ stata fatta per Berlusconi, solo per lui, ricalcata sulle sue esigenze. Si pretende di credere sulla parola che non gestisce i suoi beni e non ne sa niente quando fa leggi su editoria, assicurazioni, immobili, giornali e televisioni. Si pretende di credere che non sa niente e che non c’entra niente quando le televisioni che gli appartengono più quelle che controlla come Primo ministro si occupano di lui e lo raccomandano ai cittadini come un personaggio di singolare valore.
Diranno e ripeteranno che la legge è - nel senso più ovvio e più semplice - incostituzionale, perché, come si usa dire in tutti i tribunali, la legge è uguale per tutti e non può esistere la legge uguale per uno solo, anche se essa viene presentata al TG1 dal Ministro Frattini senza contraddittorio e sillabando le parole come per un editto. Fra qualche anno diranno e ripeteranno i nomi di coloro che si sono prestati. Non tanto, non solo la parte politica che appartiene a Berlusconi, il cui silenzio disciplinato è impressionante. Quando tutti coloro che, in diverse posizioni e diversi ruoli, dal direttore di giornale alla carica istituzionale, potevano dire no e non lo hanno fatto, potevano fermare quella legge, che apparirà un misto tra ridicolo e vergogna, e hanno permesso che entrasse nei codici della Repubblica.
Ma noi stiamo parlando con un ingiusto pregiudizio. La legge non c’è. Mancano alcuni giorni. Non è ancora stata accettata e lodata dai giornali più liberi e dai commentatori più indipendenti come «una buona legge» e «una soluzione adeguata». Non è stata promulgata.
Per ora l’onore della Repubblica è intatto.

Come ai tempi dei servizi deviati

di Nicola Tranfaglia

Non c’è vicenda critica o drammatica della storia dell’Italia repubblicana nella quale di fronte a un contrasto politico su cui si concentra l'attenzione dei media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, non si usino, da parte di chi ha il potere, dei servizi segreti puntualmente poi definiti «deviati», dossier e rivelazioni in grado di indicare possibili colpevoli e di suggerire ai telespettatori e ai lettori la spiegazione del dramma. È successo così, per fermarsi a un caso traumatico di oltre vent’anni fa, per il rapimento e l’assassino di Aldo Moro dove per giorni e giorni si è parlato di testimonianze poi non risultate attendibili e di lettere dello statista diverse da quelle recepite dalla magistratura e puntualmente si verifica ogni volta che siamo di fronte a un episodio della lotta politica o sindacale che divide il paese e le differenti forze politiche. È come se una parte della classe politica al potere non tollerasse il dissenso, soprattutto se espressione non di una sola persona ma di grandi masse popolari e, di fronte a un’opinione pubblica divisa e magari incerta sulla posizione da prendere, intervenisse con una regia accorta quanto oscura per far pendere la bilancia dalla parte che le sta a cuore. La vicenda tragica dell'economista Marco Biagi, ucciso da terroristi di cui ancora oggi non sappiamo molto dalle indagini di polizia, è, in questo senso, esemplare e ripercorre scenari che purtroppo si sono più volte ripetuti nella nostra storia recente. Al centro dello scenario torbido che caratterizza tutta la storia c’è un governo che non ha ancora fornito nessuna spiegazione su un elemento che si è rilevato decisivo nella dinamica dell’assassinio: c’è un uomo che si sente in pericolo per le telefonate minatorie che ormai da mesi riceve e, malgrado l’importanza del suo lavoro e le lettere che invia al presidente della Camera, al ministro del Lavoro, al sottosegretario, al prefetto di Bologna, non riceve nessun aiuto e nessuna risposta seguita dai fatti. Qui sorge un primo interrogativo a cui né il governo né gli altri interlocutori hanno mai risposto: perché a Biagi non è stata data la scorta? Perché si è sottovalutato il pericolo o perché si voleva creare la vittima? È una domanda terribile e crudele a cui gli italiani vorrebbero che fosse data una risposta ed è vergognoso - come ha detto Sergio Cofferati - che di fronte a questo elemento di fondo si continui a non rispondere, addirittura a ignorarlo completamente come se il comportamento dell’esecutivo non fosse carico di pesanti responsabilità e non meritasse di essere condannato dal parlamento e dalla pubblica opinione. Il secondo interrogativo riguarda la regia della fuga di notizie che in quest’occasione, come più volte in passato, caratterizza l’inchiesta giudiziaria. La procura della repubblica di Bologna che sta compiendo le indagini sull’assassinio, qualche ora dopo la diffusione delle notizie arrivate dalla rivista bolognese «Zero in condotta» e riprese con grande larghezza e amplificazione dal quotidiano «la Repubblica», ha dichiarato che le lettere di Biagi di cui dispone sono tre e ha affermato che «agli atti non ci sono lettere di Marco Biagi che parlano di Cofferati». Vedremo in seguito se le indagini successive accerteranno l'autenticità delle lettere pubblicate ma non c’è dubbio sul fatto che qualcuno abbia scelto il momento politicamente adatto per la pubblicazione piombata come un macigno nella tragica vicenda di Biagi. Ed è agevole rendersi conto, pur senza conoscere ancora i retroscena della storia, che chi lo ha fatto ha voluto intervenire pesantemente nell’aspro confronto politico e sindacale che oggi divide il governo dall’opposizione, isolare ancor di più la CGIL e Cofferati, far pendere la bilancia a favore del governo e di chi lo sostiene. In questo senso, se c’è un momento in cui appare vitale e necessario non soltanto per tutta la sinistra ma anche per tutti quelli che rifiutano la logica dei dossier e della calunnia, sostenere le ragioni di chi non è d’accordo con l’attuale maggioranza di centro destra e lotta contro lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello Stato sociale, il momento è proprio questo. Per portare a termine la vergognosa operazione contro la maggioranza dei lavoratori, si cerca di isolare, con la forza delle istituzioni e dei media a propria disposizione, il sindacato che ha il maggior numero di iscritti e il maggior consenso sociale nel paese, che il 23 marzo scorso a Roma ha portato tre milioni di italiani a manifestare per la difesa dei diritti, che ha sempre lottato apertamente contro il terrorismo di ogni colore e ha pagato con la vita di Guido Rossa e di tanti altri (basta pensare a tutti i sindacalisti uccisi dalla mafia nella Sicilia del dopoguerra). Il rischio è grave, così grave da costringere persino alcuni esponenti del governo Berlusconi ad accennare timidamente a far marcia indietro. Si è trattato, d’altra parte, di un crescendo di intimidazioni e di minacce negli ultimi giorni: contro chi dissente da alcuni mesi nelle strade e nelle piazze definendoli cattivi maestri o vicini ai terroristi, contro questo giornale per la sua campagna che chiedeva al governo chiarezza e senso di responsabilità istituzionale, contro il più grande sindacato dei lavoratori per non aver accettato di trattare sull’articolo 18 (ma non lo avevano deciso tutti insieme i tre sindacati qualche mese fa?), in particolare contro il suo leader Sergio Cofferati che ha fatto il miracolo di spiegare con calma e civiltà perché non accetta un piano del lavoro e della previdenza che punta a indebolire il movimento sindacale e a farne un’entità corporativa e parastatale. Altro che prove di regime! Qui siamo al tentativo di far tacere il dissenso, soprattutto da parte delle masse popolari, a costo di qualsiasi strappo, utilizzando una vicenda tragica come quella di Biagi, cercando, invece dei veri colpevoli, qualcuno da additare a chi sa poco o nulla di quello che è successo. Opporsi con metodi democratici e trasparenti diventa una colpa invece di essere il diritto di ogni cittadino di questo paese. È un altro strappo, assai doloroso, alle libertà di cui dovremmo poter disporre pienamente nella democrazia repubblicana.

Fassino:

"E' una provocazione. Chi ha inserito il nome di Cofferati nelle lettere?"

di red.

«Vogliamo sapere chi ha inserito il nome di Cofferati in quelle lettere, essendo ormai chiaro che si è trattato di una provocazione». Piero Fassino, a margine della Conferenza nazionale sull'auto organizzata dalla Quercia a Torino, chiede chiarezza sulla vicenda delle e-mail inviate da Marco Biagi. Per il segretario Ds, «si impone assolutamente un chiarimento da parte del governo che deve venire in Parlamento a riferire su una vicenda che assume connotati sempre più inquietanti e torbidi». «Ci sono molti interrogativi - ha aggiunto Fassino - che richiedono una risposta: chi ha messo in circolazione queste lettere di Biagi? Le lettere sono vere o no? Sono state alterate? Chi le ha ricevute ha fatto tutto quello che era necessario per segnalare l' angoscia in cui Biagi viveva e i rischi che correva? E, soprattutto, come mai le autorità che ne avevano la responsabilità non presero alcuna misura per difendere Biagi e mettere in sicurezza lui e la sua famiglia? In quelle lettere c'era l'angoscia di un uomo che si sente braccato, intimidito e impaurito». Ma c'è un' altra cosa che sta a cuore a Fassino: «Bisogna abbandonare definitivamente qualsiasi tentativo di accreditare contiguità e connessione tra lotte sindacali e terrorismo. Non c'è assolutamente, basta conoscere la storia democratica di questo paese. Il sindacato ha fatto tutta la sua parte sempre, basterebbe ricordare il ruolo che ebbe Luciano Lama. Manifesto la solidarietà mia personale e dei Ds a Cofferati e al movimento sindacale che sono oggetto dell' attacco».

Vittorio Sgarbi ‘licenziato’

da sottosegretario ai Beni culturali. La causa: la legge sui monumenti in vendita e i contrasti con il ministro Urbani. Intervista al critico d’arte: ‘la perdita del posto è un onore. Lascio Forza Italia’. L’opposizione: ‘un segnale pessimo'

ROMA - Ora è un re senza corona e senza scorta. Vittorio Sgarbi è stato licenziato dal consiglio dei ministri che, Silvio Berlusconi in testa, gli ha revocato l’incarico da sottosegretario ai beni e alle attività culturali. È caduto il 20 di giugno, vigilia del dell’inizio ufficiale dell’estate, giorno in cui la chiesa cattolica celebra il martirio di Ettore, nome che evoca anche un eroe perdente, caduto nella difesa di Troia. Ed anche Sgarbi è oggi un "eroe" perdente: si trova ad essere difeso dall’opposizione, con cui si è scontrato per quasi un anno, e abbandonato da quella maggioranza che lo aveva quasi elevato al soglio ministeriale. Sottosegretario, anche se lui si sentiva il ministro, anzi era convinto d’essere il vero ministro del patrimonio artistico e forse per questo pronto a gettarsi in audaci pugne con Giuliano Urbani, il vero titolare del dicastero. È da questo scontro che è nato il suo licenziamento, deciso a tavolino, a freddo, prima della riunione del consiglio dei ministri, tanto che Urbani non si è volutamente presentato a Palazzo Chigi a fianco, i link alle reazioni e alle precedenti notizie sul provvedimento). Sgarbi licenziato dunque, lascia le stanze di via del Collegio Romano per tornare nella sua bella casa. Alle inaugurazioni di mostre e musei non rappresenterà più il ministero, lo Stato. Sarà soltanto l’onorevole Vittorio Sgarbi, deputato di Forza Italia. Ma chissà se resterà ancora lungo nella casa degli azzurri. Lo racconta lui stesso, mentre rientra da Perugia a Roma, dove ha partecipato all’inaugurazione dell’ampliamento della galleria nazionale dell’Umbria, sicuramente l’ultimo impegno da sottosegretario, e nella conferenza stampa che ha tenuto al ministero. È aggressivo, battagliero ma non ha ancora una linea chiarissima: "Cosa farò adesso? Farò quello che ho sempre fatto. Continuo a rappresentare il mio pensiero. Aver perso il posto per avere fatto quelle dichiarazioni sulla necessità di definire in modo chiaro quali sono i beni inalienabili dello Stato mi rende onore e, credo, che mi porterà consensi". Ma all’interno di Forza Italia o in un altro partito? È inevitabile, lascerò Forza Italia e tornerò nel gruppo misto, dove sono stato prima di questa esperienza. A sinistra non vado, ma mi distacco dalla destra, mi costringono a determinare una 'enclave' di autonomia di pensiero. Su questo immagino un movimento per la difesa della cultura e dell'ambiente, anche in vista delle elezioni europee, in quanto esiste una sensibilità che non è né di destra né di sinistra e sulla quale non ci dovrebbe essere lotta politica. E poi il danno che posso fare fuori è ben più grande. Potrò dire quello che penso e quello che so. Saprò bene cose che potrò raccontare di Urbani ... Per esempio sull'Alta velocità a Modena. Lei intanto continua a parlare di Ciampi… La cosa che più mi lusinga infatti è la dichiarazione del presidente della Repubblica che rispecchia pienamente la mia posizione. Hanno sfiduciato me ma il conflitto rimane. Ora Berlusconi dovrà rispondere a Ciampi: se darà ragione al presidente sconfesserà Urbani e viceversa. È evidente che lo scontro non è tra me e Urbani ma tra Urbani e Ciampi. Questo fatto non lo vivo come una questione personale. Ma è evidente che tutto il paese è contro il ministro. Ma è sicuro che non è una questione personale? Non c’è un fatto personale. Io ho evidenziato un problema strutturale di visione del mondo e non intendo recedere da questa posizione. In un regime di liberismo è necessario porre dei capisaldi che stabiliscano quali beni sono inalienabili e quali no. C' è una parte del nostro patrimonio che non può essere venduta per ragioni simboliche o perché sede di qualche ufficio. Ma l’unica loro ragione è la 'buona creanza istituzionale', dicono che Sgarbi è stato troppo duro, violento. Di sicuro non ho avuto uno sviluppo ritardato come il direttore delle Arti visive della Biennale Bonami o come Tremonti, lo si capisce dalla loro faccia. Sì, è vero, ho un carattere terribile, ma non ho i problemi che hanno avuto loro per un certo tipo di sviluppo e il mio stile di vita mi consente delle libertà che altri non hanno. In verità se è questa la questione, è marginale. Il problema in realtà è politico, non solo perché hanno scelto una linea sbagliata. Determinano spaesamento, a cominciar da me stesso: non posso andare a sinistra, ma non posso riconoscermi neanche nella destra. Quanto a Urbani… Apparentemente è gentile, misurato. Tuttavia sono più le scorrettezze che io ho subito da lui che quelle che gli ho fatto, questo nel metodo. E altrettanto si può dire dei suoi atti, alcuni dei quali sono stati irruenti' . Ma non le sembra di aver provocato questa situazione? Ieri notte dicono che non si è presentato in orario a una riunione della commissione dei lavori pubblici per questioni di cuore, riunione che si sarebbe conclusa con un "inciucio" con la sinistra, un emendamento congiunto che poi Berlusconi ha bloccato. Cosa è accaduto? No, le cose non stanno così. Io non ho fatto alcun "inciucio" con l’Ulivo. Prima ho scherzato e ho detto che potevo andare da una ragazza e invece mi sono presentato in commissione alle tre per spiegare le cose. Non possiamo fare come Moretti che dice a D’Alema: dì qualcosa di sinistra. Non possiamo regalare alla sinistra la frase "non si possono vendere gli Uffizi". Nella notte c’è stato un accordo per presentare un emendamento unico firmato da centro destra e centro sinistra sull’inalienabilità del patrimonio artistico, emendamento che ricalcava quello da me già presentato insieme a Vizzini. Era un accordo chiaro, alla luce del sole. Nessun "inciucio". Era una vittoria anche per il centro destra perché il centro sinistra avrebbe ritirato i mille emendamenti presentati in aula. Ma alla 8.30 Berlusconi ha detto di no, ha bloccato tutto. Ho detto ai parlamentari del centro destra che fanno diventare una battaglia della sinistra anche la cultura che può essere un valore tranquillamente e largamente condiviso. Il mio pensiero è quello di Fisichella, di Vizzini… Lei era convinto di avere l’appoggio di Berlusconi. Non c’è stato… È vero, questo è evidente . E a questo punto non si sente isolato… A questo punto è isolato il governo. E poi isolato da chi? Dalla maggioranza di cui lei fa parte… Questo mi è assolutamente incomprensibile. L’isolamento da me è l’isolamento della maggioranza da Ciampi. La posizione del presidente della repubblica è chiara . Dal 21 giugno lei dovrà lasciare gli uffici di via del Collegio Romano. Se ne andranno anche Elkann, gli altri suoi collaboratori? Hanno dei contratti firmati e sottoscritti dal ministro. Io me ne vado. Loro restano . (Paolo Vagheggi)

Un'imbarcazione del Nord invade le acque del Sud e spara
A rischio la politica di riconciliazione fra i due governi
Scontro navale fra le due Coree
quattro morti e diciotto feriti

Seul: "Provocazione studiata per rovinarci la festa del calcio"

SEUL - Quattro marinai sudcoreani sono morti e altri 18 sono stati feriti in uno scontro a fuoco fra un'unità navale della Corea del Sud e una dela Corea nel Nord nel Mar Giallo. Il governo di Seul ha accusato la nave del Nord di aver sconfinato e aperto il fuoco contro la sua imbarcazione: quello di Pyongyang ha risposto dicendo che la responsabilità dello scontro è dei marinai del Sud, e che la sua imbarcazione è stata costretta a sparare per autodifesa. L'incidente mette a grave rischio la politica di riconciliazione fra le due Coree fortemente voluta dal presidente sudcoreano Kim Dae-Jung, che per il suo impegno in questo senso è stato premiato con il Nobel per la pace.

Lo stesso Kim Dae-Jung ha convocato per le prossime ore una riunione d'urgenza del Consiglio nazionale di sicurezza e ha fatto sapere di "non poter tollerare" l'aggressione nordcoreana. La notizia dello scontro ha fatto svanire in Corea del Sud il clima di attesa e di festa per la finalina del mondiale di calcio che vede impegnata la nazionale. "E' stata una provocazione a freddo, calcolata a tavolino per rovinarci la festa", hanno detto fonti del ministero della Difesa di Seul. Dallo stesso ministero è venuta una richiesta a Pyongyang perchè presenti scuse ufficiali per l'accaduto: ma la Corea del Nord non sembra averne nessuna intenzione.

Lo scontro si è verificato nelle pescose acque attorno all'isola di Yeonpueong, nel Mar Giallo: ad aprire il fuoco sarebbe stata per prima l'imbarcazione nordcoreana, di scorta ad alcuni pescherecci che avrebbero violato le acque territoriali della Corea del Sud.

Navi nordcoreane hanno attraversato nove volte la linea di demarcazione marittima tra la Corea del Nord e quella del Sud dall'inizio dell'anno, ma nessun incidente aveva provocato l'uso di armi da fuoco. Nel giugno 1999, una pattuglia nordcoreana era stata affondata dalla marina sudcoreana in una zona vicina a quella della battaglia odierna.

(29 giugno 2002)

Il giorno dell'orgoglio omosessuale celebrato con cortei
in molte città. Nella capitale francese c'era anche il sindaco
Da Roma a Parigi a New York
tante sfilate per il Gay Pride

ROMA - Hanno sfilato nelle maggiori capitali del mondo, Roma compresa, per rivendicare i loro diritti e per celebrare l'orgoglio omosessuale: oggi è stato il giorno del Gay Pride. Una serie di manifestazioni diverse soprattutto per il numero di partecipanti: si va dai 500 mila di Parigi alle poche centinaia di Zagabria, in Croazia, dove il corteo è stato organizzato per la prima volta.

Ma cominciamo da Roma, dove, secondo le associazioni che hanno preparato la manifestazione, sono scese in strada 30 mila persone; un numero che scende molto, a circa 5 mila, secondo le stime di osservatori esterni. La gente ha sfilato da piazza Esedra alla Bocca della verità, tra canti, slogan e rivendicazione di diritti concreti. Come la legalizzazione delle unioni omosessuali, che, come ha ricordato il leader dell'Arcigay Franco Grillini, sono in qualche modo riconosciute in 9 dei 15 paesi Ue.

Dall'Italia alla Francia. A Parigi hanno partecipato in 500 mila a un corteo che ha avuto come tema centrale la lotta per la libera espressione degli orientamenti sessuali, anche in campo professionale. Il sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoe, gay dichiarato, ha aperto la manifestazione, accanto ad altre personalità politiche locali e nazionali, di vari partiti.
"Ogni momento in cui si difendono le conquiste, in tema di rispetto e uguaglianza, è importante - ha dichiarato il sindaco quando la pittoresca sfilata ha preso il via a Montparnasse - bisogna vigilare affinchè la nuova uguaglianza che rende tutti più liberi sia difesa".

Sfilate, sempre piene di colore, anche in altre città europee. A Vienna i manifestanti sono stati circa 100 mila: hanno marciato sul Ring con camion trasformati in teatrini ambulanti e con una carrozza. A Zagabria erano molto meno, poche centinaia, ma fieri di dare vita al primo Gay Pride della storia della Croazia. Che si è concluso, però, con alcuni incidenti provocati dagli skinhead.

Ancora, a Zurigo 4 mila gay e lesbiche hanno marciato ricordando gli scontri tra omosessuali e polizia avvenuti trent'anni fa a New York. E anche nella Grande Mela, con qualche ora di ritardo dovuta al fuso orario, si tiene una maxi-sfilata, a cui partecipa anche il sindaco Michael Bloomberg.

(29 giugno 2002)

LE 5 LETTERE DI BIAGI

Il vicepresidente del Senato Calderoli dopo i casi di stupro a Milano: "Un colpo di forbice non necessariamente sterilizzata"
Proposta choc della Lega
"Castrare gli stupratori"

"I delinquenti sono quasi tutti extracomunitari
E' ora di finirla con il buonismo ipocrita"

MILANO - Castrare gli stupratori. La proposta viene dal vicepresidente del Senato e coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord, Roberto Calderoli, dopo gli episodi di violenza sessuale avvenuti a Milano nei giorni scorsi. "In una sola settimana a Milano sono state stuprate quattro donne e, guarda caso, i delinquenti sono tutti d'origine extracomunitaria", dice Calderoli in una nota. "Si tratta di una situazione intollerabile. Per prevenire simili vergognosi reati serve una sola soluzione: la castrazione fisica di quei delinquenti. Un tempo si parlava di castrazione chimica, ma personalmente sono propenso a metodi più semplici: un colpo di forbice, non necessariamente sterilizzata".

"Vedo purtroppo che esponenti laici e cattolici minimizzano la gravità del fenomeno", accusa Calderoli, "sembrano quasi voler difendere i delinquenti invece di solidarizzare con le vittime e pensare a impedire in maniera decisa il ripetersi di simili reati. Chissà se, qualora venissero stuprate le loro mogli o le loro figlie o le loro sorelle, quei 'buonisti' ipocriti avrebbero il coraggio di cambiare idea in proposito".

"Visto che sono soprattutto gli immigrati extracomunitari a compiere stupri, a maggior ragione va approvata la legge Bossi-Fini sull'immigrazione", aggiunge, "senza però dimenticare il problema della violenza sessuale in generale. Bisogna garantire la certezza della pena e punire in maniera esemplare quei luridi individui. Lo stupro infatti, oltre a devastare psicologicamente e fisicamente le donne che ne sono vittime, può causare anche gravidanze indesiderate e contaminazioni di virus e malattie anche gravissime, quali l'Aids".

(29 giugno 2002)

Il leader della Cgil: "Chi diceva a Biagi
che lo minacciavo? E perché lo faceva?"
Cofferati: "Sono indignato
perché i pm non mi interrogano?"
di MASSIMO GIANNINI

ROMA - Cofferati, le lettere di Biagi per la prima volta la chiamano in causa come "l'avversario che lo criminalizza", o addirittura che "lo minaccia".


"Sono indignato, e profondamente determinato ad arrivare ad un chiarimento definitivo su questa vicenda, che mi appare oscura e inquietante".

Perché oscura e inquietante? Ci sono ben cinque lettere inviate nell'estate di un anno fa dal professore, ad altrettante autorità istituzionali e politiche del Paese. Crede che siano un falso?


"No, evidentemente ci sono riscontri precisi sull'esistenza di queste lettere. Ma a questo punto è utile fare un passo indietro, capirne la genesi e inquadrarla nel contesto delle polemiche di questi giorni. La premessa è semplice: io non ho mai avuto una sola occasione di incontro diretto con Biagi negli ultimi anni, e meno che mai ho avuto momenti di polemica diretta e personale nei suoi confronti".

E le liti sul Patto di Milano? E i conflitti sul Libro Bianco?


"Ho contestato anche duramente il Patto di Milano. Ma intanto ho saputo solo dopo alcuni mesi che Biagi ne era stato uno degli estensori. E in ogni caso anche su quell'accordo, che la Cgil non firmò, io non ho mai criticato una sola volta le persone".

Sta di fatto che nella lettera al presidente della Camera Biagi scrive che lei è uno degli avversari che lo criminalizza...


"A questo punto le date diventano essenziali. La lettera a Casini è datata 15 luglio 2001. Il patto di Milano è del settembre '99. In due anni ho polemizzato tante volte con D'Antoni, allora leader della Cisl, ma mai una sola volta ho citato il nome di Biagi, né in modo diretto né in modo indiretto. Dunque il professore, nella lettera al presidente della Camera, parla di me come uno degli avversari che lo criminalizza, senza che in quel momento vi sia stata una sola occasione, pubblica o privata, che dia sostanza ai suoi timori".

Le polemiche vere allora cominciano con il Libro Bianco. Lei polemizzò a un convegno a Torino, quando denunciò il collateralismo di chi lavorava per governo e Confindustria, e poi al congresso della Cgil, parlando di "Libro limaccioso".


"Anche in questo caso contano le date. Il Libro Bianco ci fu presentato il 3 ottobre, il convegno di Torino di cui lei parla fu successivo, e anche in quell'occasione io parlai in generale del collateralismo, e non feci mai il nome di Biagi. In quella, come in altre occasioni successive, criticai il frutto del suo lavoro, e cioè il Libro Bianco. Ma con un linguaggio e un'ottica rigorosamente sindacale, senza mai fare attacchi alle persone. Dunque non si capisce perché più di tre mesi prima il professore parlasse di me come di un suo avversario. E' noto a tutti, come poi abbiamo purtroppo scoperto, che Biagi era angosciato per le telefonate anonime che aveva ricevuto, e per la scorta che inspiegabilmente gli avevano tolto a Milano. Ma è un fatto che il professore diventa noto all'opinione pubblica con il Libro Bianco. Tuttavia inizia a sentirsi terrorizzato diversi mesi prima. Questo per me resta un fatto inspiegabile, e inquietante".

La risposta può essere nella lettera che il professore manda a Parisi, della quale esistono due versioni. Nella prima, pubblicata da "Zero in condotta" ma misteriosamente tagliata, il professore fa un generico riferimento alle sue preoccupazioni. Nella seconda, integrale, parla esplicitamente di sue "minacce" nei suoi confronti, riportategli da "fonte attendibilissima". Come lo spiega?


"Questo è il lato più oscuro di tutta la vicenda. E su questo sono io che chiedo spiegazioni e faccio domande, alle quali qualcuno dovrà rispondere. Prima di tutto, a quel che mi risulta il floppy disk nel quale queste lettere sono contenute è agli atti, presso la Procura di Bologna. E allora, perché esistono due diverse versioni di questa lettera? Poi c'è un secondo aspetto, ancora più anomalo. Nella lettera a Casini Biagi afferma che io lo criminalizzo. Nella lettera a Parisi Biagi riferisce che qualcuno gli ha detto che io lo minaccio. Sono due cose profondamente diverse. Nel primo caso, io sarei il "mandante morale" del suo omicidio. E questo rientra nel quadro delle accuse infamanti che finora, e l'ultima volta due giorni fa alla Camera, ministri di questo governo hanno continuato a rivolgermi. Ma nel secondo caso, io ne diventerei il "mandante materiale"".

Cofferati, dove vuole arrivare?


"Io voglio sapere: chi in quei mesi disse a Biagi che io lo minacciavo? Per quale ragione gli andava raccontando che io ero l'uomo nero? E ancora: se Parisi ha ricevuto quella lettera, nella versione in cui Biagi scrive delle mie presunte minacce riferitegli da "persona attendibilissima", perché oggi ne esce anche una versione "censurata"? C'è qualcuno che vuole coprire chi strumentalizzava le paure di Biagi indirizzandole verso di me? C'è qualcuno che vuole rendere note solo le accuse nei miei confronti, contenute nella lettera a Casini, nascondendo il suggeritore di quelle accuse, nella lettera a Parisi? E comunque, visto che queste lettere sono nel fascicolo dei pm, perché i magistrati non mi convocano in Procura per interrogarmi?".

Lei non è mai stato contattato dai pm?


"Mai. Sono a disposizione, per dare tutti i chiarimenti possibili. Ma a questo punto credo che sarà qualcun altro a dover chiarire questa vicenda stranissima, e soprattutto gravissima".

(28 giugno 2002)