Alessandro Gilioli, giornalista
direttore di Happy Web, è coautore - insieme allo
zio, il neuropsichiatra Renato Gilioli - di Stress Economy. I due avevano già pubblicato per Mondadori un
testo sul mobbing, Cattivi capi, cattivi colleghi.
Abbiamo rivolto ad Alessandro Gilioli alcune domande.
Perché pubblicare un libro
sulla New Economy connotandola tramite lo stress?
Avevamo già pubblicato un libro sui conflitti
intraziendali, centrato sul mobbing. Il disagio emergeva
in maniera allarmante. Allora abbiamo investigato le
cause del disagio, allargando il panorama e prendendo in
considerazione le grandi trasformazioni che determinano
una serie di problemi profondi, nei gruppi e negli
individui. Abbiamo pensato di raccontare la storia di
persone reali (ovviamente proteggendole con l'anonimato)
che, qui in Italia, scontano oggi il peso di queste
trasformazioni imposte da una società tecnocentrata.
Un recente rapporto dell'OMS sottolinea l'aumento di
patologie psichiche borderline, a discapito delle
classificazioni più ortodosse. Il borderline, è stato
rilevato, vive l'azienda come donatrice di identità.
E' un'analisi corretta e plausibile. La pressione
psicologica indotta dalla rivoluzione digitale è immensa
e difficilmente sopportabile dall'individuo. Quando il
proprio bagaglio di conoscenze va aggiornato nell'arco di
due o tre anni, come è chiaro che sta accadendo, i
disagi emergono potenti. Si assiste a una somatizzazione
dei disagi: depressione, ansie, fobie si accompagnano a
problemi gastrici e respiratori.
C'è una storia che raccontate, quella di Lucrezia che
lavora da Mc Donald's, che non ha nulla a che vedere con
la rivoluzione digitale, eppure risulta assai emblematica
della stress economy...
Apparentemente Lucrezia non riveste una posizione
connessa all'economia digitale. In realtà, se pensiamo
al brand per cui lavora, ci rendiamo conto che soddisfa
tutti i criteri con cui Rifkin determina la
trasformazione di cui la New Economy è portatrice:
franchising, flessibilità, desindacalizzazione,
familiarizzazione dell'atmosfera lavorativa. Le grandi
catene sono protagoniste di questa rivoluzione. Mi viene
in mente l'incipit di Chainwork: "prima si lavorava
sotto catene; poi si lavorava alle catene (di montaggio);
ora si lavora per le catene".
Cosa ti ha colpito di più, stendendo questa
fenomenologia dell'Era dell'Accesso?
Soprattutto il ribaltamento dei valori. Faccio un
esempio. Per un'azienda lanciata nella New Economy,
l'esperienza non è un plus, ma un minus: un lavoratore
di cinquant'anni è un pezzo di carne andata a male. C'è
questa sorta di mistica della competitività, di spinta
alla ricerca progressiva del miglioramento dei risultati
che, ormai, si è tradotta definitivamente in una nuova
ideologia.
E la previsione dell'apertura, grazie alle nuove
tecnologie, di ampie zone di tempo libero?
E' l'opinione del sociologo De Masi, che però aggiunge
come tempo libero e tempo dedicato all'azienda vadano
commistionandosi, cosicché un content provider
che va al cinema non solo assiste a un film, ma lo
contamina con il suo lavoro. E' una situazione rischiosa,
che permette lo sviluppo di quelli che la psicologia
chiama pensieri intrusivi: ossessioni che occupano
tutto il tempo la mente di una persona...
Soluzioni prospettate?
Regole contro la deregulation che va totalmente a
svantaggio degli individui. Mi auspico che accada
qualcosa di simile a quanto successo in Francia, dove
Jospin ha sospeso i finanziamenti ad aziende che, pur
essendo in attivo, licenziavano per ottenere fiammate in
Borsa. Le regole, forse, se non la soluzione, sono un
correttivo necessario.
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