Paolo Rigliano: intervista a "Azione nonviolenta" sulla psichiatria a cura di Elena Buccoliero, tratta dal numero 1-2, 2002

Paolo Rigliano, amico della nonviolenza, è di professione psichiatra e psicoterapeuta e attualmente dirige una struttura psichiatrica territoriale all'Ospedale San Carlo di Milano.

In che modo lo sguardo della nonviolenza può essere uno strumento per analizzare, o modificare, o integrare, il ruolo di un terapeuta?

Direi subito che non solo è uno sguardo essenziale, ma che sia assolutamente indispensabile: non si può essere oggi terapeuti senza aver elaborato, magari in forme approssimative, la questione della violenza, con tuti gli altri temi che si trascina dietro: il rispetto assoluto e integrale dell'Altro, il potere, la prevaricazione della propria posizione di dominio, la costruzione dela conoscenza coem frutto di una relazione, la nonviolenza come metodo di conoscenza del dolore di tutti, come composizione dei conflitti familiari e interpersonali, come strategia. La nonviolenza, mi accorgo, deve essere al centro di ogni riflessione, non solo pratica ma prima di tutto teorica e epistemologica, del fare terapeutico.

A mio avviso, ci sono tante forme di violenza che avvengono (o possono avvenire) durante il percorso terapeutico. Però sembra che la violenza del medico sul paziente, come quella di chi è in guerra, sia sempre giustificata a priori, perché le cause sono fondate. Nel tuo intervento ritrovavo lo sforzo bello di sottoporre a verifica questo assunto. Mi piacerebbe che mi dicessi qualcosa al riguardo.

La nonviolenza è la revoca di ogni presunta innocenza, di ogni autoasoluzione, di ogni chiusura filosofica e pratica, conoscitiva e terapeutica: essa implica il radicale acoglimento dla paroal dell'altro, delle sue ragioni, delle sue motivazioni, dei suoi affetti. Ma questo accoglimento mai è passivo, deresponsabilizzante, superficiale: esso implica il farsi sostegno di queste ragioni, di queste sofferenze: si deve prendere posizione, responsabilità, si deve decidere, agire, pensare, vagliare, ricomporre. La sofferenza, il disagio, la conflittualità ci implicano totalmente, ci sommergono con le loro domande: allora il terapeuta deve porsi con umiltà forte al servizio della persona, come un interlocutore che neutralizza la carica di violenza insita in ogni dolore e che molte volte il dolore non curato suscita. E che, soprattutto, costruisce contro e oltre la violenza, rimanda la possibilità di rompere e di risorgere oltre essa e oltre il dolore di tutti. Altro che autoassoluzione del terapeuta. ciò che occorre una capacità autoriflessiva forte e non assolutoria, che porti al Bene dell'Altro non deciso dal terapeuta con unilateralità né da altri: nessuno ha il Bene, la verità , la giustizia a priori, esse si costruiscono con fatica e rischio.

Ci sono stati Basaglia, l’anti-psichiatria, la riapertura dei manicomi… l’idea che della malattia debba farsi carico la collettività nel suo insieme, per come è capace. Mi sembra che la tua riflessione sulla "terapia nonviolenta" abbia molti collegamenti con questo filone…

Certamente, io sono convintissimi che quella strada era ed è giusta. Ma, ancora una volta, non è indicando una strada che si fa un cammino: lungo la direzione indicata da Basaglia ci sono stati enormi fraintendimenti e abusi, violenze e indifferenze. Se perdiamo di vista il Bene del sofferente mentale, si possono compiere molte violenze pur sbandierando l'ideologia. Io intendo la rivoluzione di Basagli in senso radicale: fare l'impossibile per mantenere i presidi, i confini e el tutele della normalità , di uan normalità che sappia confrontarsi con il dolore del paziente e dei suoi familiari: e solo la strategia terapeutica nonviolenza consente di non riprodurre nel contesto di vita normale delle persone quegli stessi meccanismi di oppressione e di esclusione che operavano nei manicomi. Di più: la nonviolenza offre straordianre struemnti per pensare, analizzare, modellizzare la follia e le sue transazioni. È questa la sua carica rivoluzionaria.

C’è l’aspetto del cedere il controllo di sé ad un’altra persona, che è il terapeuta. Questo è vero in tutte le terapie, non solo quelle psi, ma in questo caso forse è più "grave"… Questo affidarsi, mi sembra, è già vero nel rapporto terapeuta-paziente anche su disagi "lievi", poiché ciò su cui il terapeuta agisce ha a che vedere con il pensiero, l’emozione, la volontà...

Ma proprio qui si gioca una scommmessa fondamentale: il rapporto terapeutico realmente rispettoso e efficace non deve essere basato sul cedere il controllo al terapeuta: ad ogni passo la persona deve poter scegliere -e imparare a scegliere, anche con la dovuta forza nonviolenta!- per il proprio bene, individuato criticamente! Il vero terapeuta è quello che apre posibilità, indica percorsi -con i dubi e le difficoltà che questo comporta- ipotesi, soluzioni, alternative, con relativi rischi e pericoli. E dunque mette il paziente in condizioni dimaturità e responsabilità. La nonviolenza, come la terapia si fondando sulla soggettività libera e responsabile.

A proposito di grossi guai. Tu stesso parlavi, a Torino, dei trattamenti sanitari obbligatori, e dei procedimenti che comportano. Quant’è difficile stabilire un confine tra violenza "giusta", terapeutica, necessaria, e violenza che si può evitare! E come si fa, allora, a introdurre uno sguardo nonviolento in procedimenti terapeutici che necessariamente comportano prevaricazione?

Si può fare, perché il nonviolento si assume sempre la responsabilità di prendere posizione rispetto all'abbassamento del livello di violenza, puntando sulla sua neutralizzazione. La nonviolenza non fa miracoli e non fa salti, non illude e non spera scioccamente: ma anche nelle situazioni estreme, si pone il problema dell'altro, e della converisone della violenza in opportunità di crescita e di esperienza liberatoria.

Una questione specifica, che m’impressiona, è poi quella dell’elettrochock… a proposito di violenza: obbligatoria, in certi casi?

L'elettroshock è sempre il frutto di un fallimento terapeutico, un colpo inferto alla persona e al senso del suo dolore: esso si giustifica solo in quanto il terapeuta è un fallito e non vuole ammetterlo, e si fa forza della violenza propria di questa pratica per piegare il paziente. Di fornte all'incapacità di attribuire un significato al dolore depressivo, per esempio, si pretende di imporre uno scossone: ma così la propria insensatezza e la propria incapacità di restituire un senso al dolore trova un corrispettivo nell'incapacità e nella violenza di voler comunque e a tutti i costi ritornare alla normalità.Tutti gli interventi terapeutici, però, vanno contestualizzati: anche una pillola può essere violenta altrettanto e ho ascoltato storie di psicoterapie di inaudita gravità e violenza.

Nella perdita di controllo c’è anche la questione degli psicofarmaci. A Torino hai detto qualcosa al riguardo. Mi piacerebbe che provassi a scriverlo. In che misura la somministrazione di farmaci è una violenza sulla persona?

Quando è fatta: 1) al di fuori di un consenso, di uno scopo emancipativo, di una prospettiva, di un bene innanzitutto della persona, realizzabile anche con l'ausilio del farmaco; 2) al di fuori di uno scopo fondato sul benessere del paziente, bensì su quello di altri, siano essi terapeuti o familiari o agenti sociali; 3) quando non sono previste revisioni, salvaguardie, autoriflessioni, e limiti da parte del terapeuta; 4) quando il farmaco è tutto, esaurendosi in esso ogni aiuto, pensiero, atto e relazione; 5) quando massimo è il disinteresse reale verso la persona; 6) quando è il primo o l'unico o il primario intervento; 7) quando non è contestualizzato, finalizzato, interrogato; 8) quando non sono previsti passaggi, movimenti, ridiscussioni, verifiche. In defintiva, quando si lavora non avendo in mente l'obiettivo assoluto e primario di creare un senso al dolore da condividere con il paziente, allora il farmaco è pericoloso.

Fino a dove è possibile delegare al farmaco (o sostenere con esso) la soluzione di un problema?

Il farmaco in sé e per sé non risolve e non risolverà mai -per fortuna!- nessun problema. I farmaci efficaci, semplicemente, creano una o più condizioni psichiche perché la persona possa con più agio affrontare da sé e con l'aiuto di altri i propri problemi. Che sono sempre problemi di orientamento nel mondo, verso gli altri e verso se stessi, di visione esistenziale, di azione e controreazione rispetto a eventi, significati, relazioni.

Ho la sensazione che i farmaci vengano applicati sempre di più e con maggiore facilità, sia nel settore del disagio mentale, sia in quello delle dipendenze (in cui lavoro io, ma nella prevenzione). Cioè mi sembra che ci sia una tendenza diffusa a medicalizzare ogni malessere e a riportare tutto alla clinica. Assisto a discussioni in cui colleghi medici, che fanno terapia al Ser.T., parlano del "neurone della ipersensibilità alle sostanze" (loro usano termini diversi, scientifici, che non ricordo, ma se non capisco male la sostanza è quella) da cui dipenderebbe la condizione di dipendenza di un soggetto e non di un altro. Non sarà un altro modo per frammentare la questione, e scaricarsi responsabilità?

Hai perfettamente ragione: domina ormai a livello planetario un paradigma biologistico, che tende a nullificare l'espereinza psicologia e mentale e sociale e affettiva dele persone, a favore di sciocche e banalissime e primitive "spiegazioni" biologiche. Questo è un punto centrale con cui saremo sempre più chiamati a fare i conti. Bisogna attrezzarsi assai bene, evitando ogni critica stupidamente disinformata e superficiale emotiva e ideologica: la critica va condotta con strumenti adeguati, scientifici e sofisticati (vedi il mio libro sulle dipendenze e l'ultimo sull'omosessualità), che implicano l'analisi epistemologica, dei modeli e dei procedimenti conoscitivi che vengono impiegati. Indubbiamente, la nonviolenza è uno strumento formidabile per ogni vera operazione critica.

I problemi che si presentano ad un terapeuta, o che si vogliono acquietare con i farmaci, possono essere: del paziente, dei familiari, dell’ambiente diretto in cui vive, della società nel suo insieme…? E il grande successo dei farmaci che relazione ha con questo?

È molto meglio individuare un punto solo di tutta una catena, presumendo di ridurlo al silenzio grazie all'intervento questo punto: né è detto che questa procedura non abbia i suoi vantaggi, in certi momenti. Il problema nasce quando in realtà si vuole silenziare questo punto, questo individuo, e queta è l'unica prospettiva e l'unico scopo. Allora l'intervento mirerà solo a mettere in condizione di non disturbo un singolo. I farmaci realizzano questa promessa, ma soprattuto illudono le persone che sia possibile non affrontare la questione centrale: quale signifcato ha il mio/suo/nostro malessere? Quale senso è possibile attribuirvi? Cosa posso fare io/tu/noi per capirlo e farvi fronte? Se non prende in considerazione queste domande, allora veramente chi usa i farmaci fa violenza.

A proposito di medicalizzare. Lavoro molto nelle scuole, anche con psicologi. A loro rimprovero di leggere la realtà come se sapessero già in che modo le cose dovrebbero stare. Voglio dire: l’amore maturo deve essere così e così… e se non lo è vuol dire che è patologico, e va curato; la relazione genitori-figli matura e corretta deve essere… e via di questo passo. Voglio dire, spesso ho l’impressione che questa specie di psicologismo diffuso (di cui poi le persone si appropriano e secondo me fanno anche un mucchio di danni) preveda degli "standard minimi" di sviluppo, competenza sociale ecc., che ognuno di noi deve raggiungere, altrimenti va curato. Personalmente mi ribello a questa "scuola" che dà per buono un solo modo di vivere. Al tempo stesso riconosco che ci sono relazioni davvero disfunzionali. Dove sono i limiti?

A volte penso: la sofferenza della persona dà il segnale. Ma è proprio vero? Perché si è anche capacissimi di adattarsi al disagio, e allora chi decide? Quanto resta di ideologico nel decidere che cosa è "sano"?

E a te non sembra che con questa storia della "salute mentale" in tutti gli aspetti della vita, tante persone abbiano paura a muovere un passo, perché i sensi di colpa… la dipendenza… la prevaricazione…

Mi poni delle domande bellissime perché radicali! Concordo pienamente con il prevalere di uno psicologismo diffuso e nefasto, idiota e prevaricatore, che contribuisce a creare una nuova versione del senso comune altrettanto deleteria di quella antica. Moltissimi esperti sono poi assai poco esperti, trincerati dietro un presunto sapere e certezze ben discutibili! Sopratutto nell'intervento verso i giovani (su questo vorrei scrivere!) trionfano il pressappochismo e l'ideologia corriva, del perdonismo e dell'immaturità, del giustificazionismo e della delega, delle spiegazioni passpartout, con effetti micidiali.... Si oscilla tra tutto è permesso e niente va bene, tra paure di assumersi responsabilità e scaricamento di colpe, oneri e conseguenze sempre su qualcun altro... Il limite, in realtà, non è mai dato una volta per tutte: sempre va decifrato, interrogato ananlizzato e indagato da tutti, con la responsabilità e l'abilità di tutti e di ognuno di noi in particolare: proprio per questo la nonviolenza, artee scienza dei limiti, è essenziale, perché ci può aiutare a colloquiare, ricercare, costruire confini possibile perchè utili, rispondenti alle necessità delle persone.

Questo medicalizzare così frequente non sarà anche un modo per riportare nel privato, e nell’istituzione che cura, problemi che riguardano non soltanto il singolo? Voglio dire: siamo tutti un po’ nevrotici, andiamo tutti a farci curare. Il che può andar bene, perché siamo nevrotici. Ma forse c’è un’altra parte di lavoro che dovrebbe essere fatta ad un livello più ampio, perché magari il disagio mentale di qualcuno è sintomo di una violenza o di un conflitto che riguarda lui e molti altri, a livello strutturale o anche psicologico (familiare… altro).

Certamente, il disagio del singolo è sempre il frutto -e la spia- di un più generale malessere. Attenzione però a riamndare sempre al generale, al contesto, alla società: io devo riuscire a far star meglio quella persona lì, in carne e ossa, nella sua unicità e storicità, ben sapendo che ci sono altri e più temibili livelli e piani e contesti implicati. Agiamo qui e ora, abbiamo rapporti con l'uno e non con l'altro, e questo fa parte dei limiti ma anche delle possibilità del nostro agire. La nonviolenza ci aiuta a curare chi abbiamo di fronte e a non dimenticare mai lo sfondo su cui lui enoi ci incontriamo.

Mentre ti ascoltavo, mi è tornata in mente una lettura dell’università, Come si diventa devianti di Matza, e ripensavo alla violenza dell’etichetta sulla persona. Questo credo sia vero anche a livelli di disagio "normale", quella di chi magari dorme un po’ a fatica ma riesce tutto sommato a controllare la propria vita… E pensavo a come chi si occupa di terapia, o chi sta intorno, può smussare o accentuare il peso dell’etichetta.

Vero: ma il problema è in realtà, e da un punto di vista nonviolento, più radicale: dare anche le etichette giuste significa -se uno non è bene avvertito- dare un giudizio di irremovibilità, di non cambiamento, di staticità, estranea ad ogni senso processo, aspettativa, motivazione. L'etichetta mi può aiutare a individuare un quadro anche preciso dla situazione, un campo di dinamiche, ma non mi dice in realtà delle cose altrewttanto importanti: i signiifcati in gioco, il ocntesto, i processi, le storie, le motivazioni, l'autopercezione e le possibilità autocostruttive di quella persona. Dire che in Sudaafrica c'era un regime di apartheid era una diagnosi corretta ma assolutamente insuficiente e persino fuorviante, perché non ci diceva delle cose essenziali circa la costruzione della autoconsapevolezza della popolazione che quella