Ragazzi bruciati d’America: l’Essere e l’America

 di elisa santucci

La raccolta Burned Children of America, a cura di Cassini e Testa, è fra le più accattivanti che siano ultimamente apparse nel panorama dei racconti (non sempre eclettici e vari) che giungono in stampa. Predomina una componente fortemente narrativa, dove le azioni e le situazioni cicatrizzano delle realtà umane profondamente radicate nel nostro vivere. Sulla pagina di questi giovani autori emergono le piaghe delle anime straziate, con gli incubi, le effusioni, le emotività castrate e le gigantesche paure, emergono sul salvagente della pagina, emarginate, come gli uomini che si raccontano, nella consuetudinarietà del vivere. E presentano un immaginario forse rassegnato ma deciso a raccontare i propri incubi, presentare con cinismo estenuato le scaglie, gli avanzi, la carne sbranata che questa storia macera. «Indossa la tua ferita con onore, A quelli come te non dovrebbe essere permesso di accendere alcun fuoco». Deve essere scritto in inglese, non c’è nessun’altra lingua, che non sia quella dell’America (e di chi l’America l’ha intuita), quella della civiltà dolorante ed allucinata proprio nel suo massimo splendore, che soffre delle spaventose vertigini cui si è innalzata, dove è sprofondata, in cui possa emergere senza parafrasi e balle varie, questa verità, la verità del nostro tempo, che è la verità dell’America. Forse un tempo giustamente ci si è chiesto cosa fosse l’essere, forse Heidegger aveva solo il tedesco in cui chiederlo, cui chiederlo e la risposta davvero nel Greco, e poi forse nessun’altro che non fosse l’ebreo perso con gli ultimi dei Prussiani (il sangue blu da vene tagliate ha ubriacato gli occhi e il mondo) avrebbe potuto smentire, e un po’ alla francese buttare tutto al macero, alla Derrida, alla qui per là, ma oggi, oggi, la domanda è “cosa sia l’America”. Lo hanno urlato per i cieli d’Europa le rockstars… «era California, era libertà», «fammi volare, forte sempre più forte, come fosse l’America»… il grande sogno masturbatorio dell’America! Dovremmo entrare nel cesso, come un tempo s’entrava nel confessionale, e davanti al mega schermo del più fottutissimo buio e sporco cinema, con odore di fritto e pop corn, sbraitare con Hervin Keitel, davanti alla nostra anima, non “Dio!” ma, “l’America!”. Possiamo parlare di questo nostro presente sporco di reminescenze latine e verdure e vino toscano e crostini, impoltigliato nella melma, soltanto se riusciamo a cercare, con l’introspezione, dentro di noi, non la nostra anima, ma sempre lei, l’America. Ed il mostro nostro, l’inconscio allucinato, parlerà la lingua degli angeli mutilati, nella sua schizoidia isterica e frenetica in inglese, e sarà il peggiore degli incubi cinematografici mai scritti. La nostra bambina killer, parla in inglese, lo strascica, lo sbava, ed ha la faccia d’una bambola i cui occhi sono ormai pasticche indelebili, cosa sanno? Cosa non saranno mai più? Zadie Smith, nella quarta di copertina, conclude con parole dall’eco prosopopeica: «Voi conoscevate questi scrittori prima di chiunque altro, e un giorno tutte le persone del mondo, e tutti i loro cani, vi renderanno onore per questo»; sarebbe stato altrettanto efficace avesse spiegato che “voi pure li dimenticherete come nulla, e sarà uguale”, perché questi scrittori non sono altro che tutto quel che ormai è possibile che sarà, soltanto – ma accipicchia, non vogliamo più volere qualcosa di più che questo –: «un bel gruppo di giovani scrittori americani che sono più divertenti, più lucidi e più eloquenti di quanto voi stessi riuscirete mai a essere», ed è questa l’America. La differenza fra questi racconti – non fate caso a questo generalizzare, il loro stile lo richiede – e la letteratura, è la stessa che passa fra la il cinema e la scrittura. C’è una storia, quasi sempre dei personaggi, c’è una realtà che t’aggancia, qualche sbavatura, e vale per loro quel che Benjamin pensava del primo cinema al suo comparire, che non sarà mai corretto, mai arte e solo arte (nell’era della riproducibilità tecnica), perché la realtà resta presente come materia, come oggetto che compare, per quanto utilizzato e masterizzato, rimane, rimane l’impronta del documentario in ogni fiction. Ogni inquadratura non sarà mai tutta pensata e tutta pensiero come siamo abituati a credere delle frasi e della poesia, perché c’è troppa roba che vi accade, e troppa roba che passa. La macchina da presa raccoglie, non inventa. Questa verità d’ogni lingua c’è tornata davanti con la prepotenza della realtà, con la violenza del rassettare di ogni linguaggio su una realtà che c’è. Punto, e basta. La fantasia è violenta. Il pensiero è violento. La forma è violenta. Ogni linguaggio è violento. Solo nella lingua delle origini lo si poteva capire, prima che ci cascassimo dentro, dentro il Greco a chiederci “l’essere dov’è?” – che idioti! Il cinema riesce a dirci questo, nella sua nuova realtà: “io voglio dirti questo”, e cadiamo nelle emozioni e nella sua poesia, ma è inevitabile accorgersi che ce lo dice con quest’altro, con inquadrature, pezzi di roba messa lì, che avanzano al loro compito, che ce stanno di troppo. Sono nostri. Quando Marx – per tutti suoi motivi – pose la distinzione fra valore d’uso e valore di scambio, a cui si è potuto tranquillamente aggiungere: valore funzionale, e aggiungiamoci quel che ci pare, aveva visto sotto la lingua altro, ha visto la lingua cadere. Una lingua che strozzava. Nella locomotiva dei Lumier che si muoveva c’era qualche bullone di troppo, il vetro della telecamera – o chiamiamola come preferiamo – sporco, degli oggetti, delle realtà che esuberano decisamente al senso del tutto. Ed in questa rozzezza del nuovo arnese ci ri sta di nuovo tutta la possibilità per la realtà di entrarci nelle fibre, starci e parlare (starnuti, accidenti, brutte pose). In questo equilibrio che la cultura classica sta dimenticando addormentando, e che queste paginacce scarabocchiate di brutti e bravi ragazzi americani ripescano fra una parolaccia ed un discorso sporco, l’America parla inglese. Parla slang, parla una lingua da cani. Equilibrio che la poesia fino a un certo punto ritrova, a questo punto che dobbiamo starci a giocare. Cascata di cattedra, buttata lì e buttata via. Nella poesia, in questo tipo di poesia smanacciata, antiautoritaria ed egocentrica, un po’ all’arrembaggio, che non sa cosa dire ma prova a dirlo, sta tornando la realtà con la sua lingua. E i cani – effettivamente – ci renderanno merito di questo.