Charlie's Angels -

di McG (Joseph McGinty Nichol)


Natalie (Cameron Diaz), Dylan (Drew Barrymore) e Alex (Lucy Liu) sono le
"Charlie's Angels", le tre agenti operative dell'agenzia investigativa
diretta dal simpatico Bosley (Bill Murray) e guidata dal misterioso
Charlie, che nessuno ha mai visto. Questa volta sono alle prese col
furto di un programma informatico di riconoscimento vocale che, insieme
ad un'innovativa tecnologia satellitare, potrebbe permettere di
rintracciare qualsiasi persona sulla faccia della terra. E' una strana
nazione l'America, in cui un film ad alto budget viene dato in mano ad
un regista esordiente: ma forse senza correre dei rischi non si
otterrebbero nemmeno risultati, visto che "Charlie's Angels" e' un film
completamente riuscito sia commercialmente che tecnicamente. Il colpo
d'occhio potrebbe far pensare ad un remake cinematografico della vecchia
serie, come era gia' stato fatto per "Il santo" e "Mission: Impossible"
tra gli altri, ma in realta' l'operazione e' completamente diversa. Le
"Charlie's Angels" non sono le stesse della serie, ma 3 ragazze nuove di
zecca (non solo come attrici, il che e' normale, ma anche come
personaggi che interpretano), il che puo' lasciar spazio alla suggestiva
ipotesi che Charlie recluti di tanto in tanto nuovi angeli custodi (che
fine fanno i vecchi? Magari ci sara' spiegato in qualche eventuale
seguito del film). E anche l'atmosfera cambia radicalmente: via la serie
anni '70, via le sue ingenuita' e la sua atmosfera glamour, liquidate in
pochi istanti (bellissima la battuta sul fascino della mossa di
spostarsi i capelli tipica degli anni '70 quale mezzo di seduzione)
insieme a diverse altre serie televisive (si citano Love Boat, TJ Hooker
e Friends). E campo libero per l'azione ipercinetica alla John Woo, con
combattimenti corpo a corpo stile Matrix (di quelli, per intenderci, che
avrebbero giovato al mediocre X-Men) e interessanti tutine in pelle
nera. Chi non ama i film d'azione della Hollywood post-Hongkongiana puo'
tranquillamente stare a casa, ma chi ha amato "Mission: Impossible 2"
trovera' certo di che divertirsi.
Le tre dell'Ave Maria.

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Blair Witch 2: Il libro segreto delle streghe -

di Joe Berlinger


A Burkitsville, dopo l'uscita del film, e' scoppiata la Blairwitchmania:
migliaia di turisti invadono la tranquilla cittadina per vedere il luogo
in cui Rustin Parr uccise sette bambini molti anni prima e in cui sono
morti i ragazzi che avevano girato il documentario sulla strega di
Blair. Jeff sfrutta la moda vendendo gadget di tutti i tipi, anche via
internet, e decide di lanciarsi nel turismo con il suo "Blair Witch
Hunt", gita nei luoghi piu' macabri della zona: ma le cose, ovviamente,
non andranno per il verso giusto. Sono andato al cinema consapevole del
fatto che "Blair Witch 2" non avrebbe potuto non piacermi: in fondo per
soddisfare la mia passione da fan del primo episodio sarebbe bastato un
filmino delle vacanze con un po' di contorno horror. E il film inizia
nel migliore dei modi, con scene di metacinema documentaristico sul
successo del primo episodio. E andando avanti le cose vanno ancor
meglio: le tante telecamere, il bosco, gli urli, tutto quello che aveva
fatto grande "Blair Witch Project" viene riproposto in maniera perfetta,
a meta' tra il remake e la parodia. Le stesse paure, le stesse angosce,
il tutto continuamente sdrammatizzato per poi tornare ancora piu'
angosciante, con l'unico difetto dell'insistente commento di una
musicaccia finto-metal da quindicenni messa a bella posta per il
pubblico adolescente. Ma all'improvviso... ecco che cambia tutto: si
vuole dare al film una trama e si riescono solo a creare situazioni
pretestuose e banali, quello che era angosciante diventa ridicolo, tutto
diventa inutile e incoerente, fino ad un finale che brilla per essere
forse il peggiore degli ultimi 10 anni. Ed e' un peccato, perche' il
film non difetta di nessuno degli elementi che avevano fatto grande il
primo, pecca invece proprio in eccesso, aggiungendo quelle cose che in
"Blair Witch Project" erano state volutamente omesse. Speravo fosse una
bella docu-fiction, purtroppo e' solo un pessimo film.
La casa stregata.

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Himalaya: l'infanzia di un capo -

di Eric Valli


Dallo sperduto villaggio del Dolpo, in Himalaya, a 5000 metri di
altitudine, ogni anno parte una carovana che percorre chilometri e
chilometri per arrivare al lontanissimo mercato dove scambiare il sale
con il frumento necessario al sostentamento. Alla morte del primogenito
l'anziano Tinle' decide di guidare la carovana, senza seguire il
consiglio dei saggi che gli chiedono di farsi aiutare dal giovane Karma,
che lui pero' ritiene responsabile della morte del figlio. Ecco allora
che i conflitti si faranno piu' aspri e due carovane partiranno, a
distanza di giorni l'una dall'altra: riusciranno a raggiungere la meta i
giovani guidati dal vigoroso ma inesperto Karma? E gli anziani guidati
dall'esperto ma ormai avanti con gli anni Tinle'? Eric Valli ha abitato
per diciassette anni tra le popolazioni nepalesi, e prova con questo
film a ricreare la magica atmosfera di quei luoghi, utilizzando per
molti ruoli attori non professionisti, autentici carovanieri. E infatti
parlando di "Himalaya" viene spesso fuori il nome di Flaherty,
considerato il maggior esponente, se non l'inventore, della docufiction,
di quelle pellicole che ci mostrano usi e costumi delle popolazioni a
noi sconosciute inserendole in una trama inventata ma plausibile. Ma
l'accostamente, anche se non del tutto fuori luogo, non e' totalmente
esatto. E' vero, Valli mette in scena la realta' sfruttando tutti i
trucchi e le possibilita' del mezzo cinematografico, ma lo fa in una
maniera fin troppo curata, lontana dalle realistiche avventure di "Nanuk
l'eschimese". Se l'intreccio e i personaggi potrebbero essere
tranquillamente Flahertiani, la confezione in realta' ricorda molto di
piu' il tocco tipicamente francese di Jean-Jacques Annaud ne "L'orso".
Niente di grave, per carita', anzi in questo modo abbiamo un film piu'
adatto per il grande pubblico, ma e' comunque un peccato, perche' con un
tocco di follia in piu', con immagini piu' ruvide, con protagonisti meno
belli e piu' veri, avremmo avuto un film fuori dai consueti schemi.
Cosi' ci rimane un ottimo film, di sicura presa sul pubblico, epico e
avvincente, ma la cui carica documentaristica si perde tra vezzi
autoriali.

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Chiedimi se sono felice -

di Aldo, Giovanni, Giacomo e Massimo Venier


Aldo, comparsa nelle opere liriche, Giovanni, rumorista nel doppiaggio
dei film e Giacomo, statua vivente dei grandi magazzini, sono tre amici
che decidono di mettere in scena uno spettacolo teatrale. Il loro
rapporto, pero', e' inevitabilmente destinato ad incrinarsi... Aldo,
Giovanni e Giacomo con questa ultima fatica chiudono idealmente una
trilogia. Innanzituto perche' arrivano infine a realizzare un vero film,
scevro dalle gag televisive che tanto erano presenti nel primo episodio
e, in misura comunque molto minore, nel secondo, poi perche' scelgono di
chiudere il cerchio facendo innamorare della bella Marina Giovanni (era
gia' toccato a Giacomo e ad Aldo nei due precedenti film). Proprio
perche' privo degli elementi televisivi, il film manca parzialmente
della freschezza che ha sempre caratterizzato il trio, che evidentemente
col mezzo cinematografico deve ancora maturare una completa esperienza,
ma il risultato e' comunque piu' che soddisfacente. Ci sarebbe da
rivedere un finale un po' troppo scontato, o da riaggiustare qualche
piccola lungaggine, ma la strada e' indubbiamente quella giusta.
Sperando che, chiusa la trilogia d'esordio, Aldo, Giovanni & Giacomo si
decidano finalmente a girare il gangster-movie ironico che sognano da
tanto tempo.


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Galline in fuga -

di Peter Lord e Nick Park


La gallina Ginger cerca un piano per evadere dal pollaio in cui viene
tenuta prigioniera con le sue amiche galline da Mr. e Mrs. Tweedy,
allevatori senza scrupoli. L'arrivo di Rocky, il gallo volante, le fa
intravedere una possibilita' di fuga. I soliti luoghi comuni che
accompagnano l'opera seconda di un autore, o la sua prima prova al
lungometraggio, li ho sempre odiati. Pero', in questo caso, non si puo'
parlare del film senza notare il calo rispetto alle produzioni
precedenti di Nick Park e Peter Lord ("Wallace and Gromit" vi dice
niente?). I personaggi sono ben caratterizzati, la storia divertente,
l'animazione ottima, e in complesso il film, su questo non si discute,
e' indubbiamente bello e di gran lunga superiore ai soliti mattoni
Disney e Dreamworks, ma purtroppo manca quella leggera vena di
surrealismo che rendeva i cortometraggi dei due autori inglesi qualcosa
di veramente diverso. Per adesso e' comunque un bene vedere che i ritmi
reggono anche nel lungometraggio, per il resto c'e' sempre tempo. E mi
raccomando di non perdere i titoli di coda, per una piccola e gustosa
aggiunta finale.

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Unbreakable: il predestinato

- di M. Night Shyamalan


David Dunn (Bruce Willis), unico sopravvissuto di un disastroso
incidente, viene contattato da Elijah (Samuel L. Jackson), strano
appassionato di fumetti che soffre di una rara malattia che rende
fragili le sue ossa, che gli fa notare alcune strane coincidenze del suo
passato, come il non essersi mai ammalato. E' bello vedere come a
Hollywood siano arrivati registi capaci di realizzare film insoliti ed
innovativi. In questo M. Night Shyamalan puo' essere accostato all'altra
grande rivelazione degli ultimi anni, David Fincher: entrambi i registi
hanno preso un'icona del cinema commerciale trasformandola completamente
(Brad Pitt per Fincher, Bruce Willis per Shyamalan), entrambi basano i
film su colpi di scena ad effetto (inseriti comunque in una
sceneggiatura complessa e non banale, e non come eventi fini a se
stessi), ed entrambi hanno rivoluzionato la narrazione di stampo
classico dei blockbuster hollywoodiani. Le similitudini pero' finiscono
qui perche' Shyamalan, al contrario di Fincher, predilige un tipo di
narrazione molto lento e realizza i film (regia e sceneggiatura)
interamente da solo, riuscendo nell'intento di svecchiare i generi pur
restando all'interno del sistema, senza prendere posizioni di tipo
apertamente anarchico come a volte fa il regista di Fight Club.
Unbreakable e' un film eccezionale, una rivisitazione del fumetto
supereroistico visto da un punto di vista quotidiano, sulla scia dei
"Realworlds" di recente pubblicazione da parte della DC Comics e in
linea con il rinnovamento del genere operato da Alan Moore negli anni
'80. Tutto e' perfetto, e anche le presunte forzature della trama si
devono in realta' ad un impianto filosofico solidissimo, che vede nel
supereroe (e nella sua nemesi, perche' un supereroe per avere una
ragione di esistere deve per forza avere dei nemici a cui opporsi) non
una persona che acquisisce poteri in seguito a motivazioni piu' o meno
strampalate, ma un vero e proprio predestinato, qualcuno che viene
"scelto" dal destino per riempire un vuoto della societa'. Un punto di
vista totalmente inedito per il grande schermo, in cui l'eroe non e'
importante per le azioni che compie, per le vite che salva, ma in quanto
eroe tout court. Peccato pero' per un piccolo difetto, spero imputabile
alla cattiva traduzione italiana: piu' volte Elijah cita i fumetti,
riferendosi in realta' non ai fumetti tout court ma ai soli fumetti
supereroistici; e' una sineddoche imperdonabile, un evento improbabile,
anche in una societa' semplicistica come quella americana, che un vero
appassionato di fumetti parli in questi termini, dimenticando tutto
quello che c'e' stato prima (e dopo). E peccato, soprattutto, per tutte
quelle persone che, non conoscendo per niente il mondo del fumetto, non
potranno cogliere le mille sfumature di questa splendida pellicola.