UNA PIOGGIA
BIPARTISAN DI ARMI AMERICANE SUL
MEDIORIENTE
Il clan neocon di George Bush prepara un addio al
potere letteralmente col botto. Quella che sarà
probabilmente l'ultima mossa dell'amministrazione
americana in Medioriente segnerà il futuro della
regione per i prossimi anni, all'insegna della
dottrina del "caos creativo", che sta dando
ottimi
frutti (per Bush e alleati) in Iraq e in Palestina. Il
presidente americano chiederà al Congresso un
finanziamento a pioggia di circa sessanta miliardi di
dollari in armamenti per Israele, Egitto, Arabia
Saudita e i regimi filo-americani nel Golfo. Il
pacchetto include bombe a guida satellitare, caccia
ultramoderni e navi da guerra.Il motivo ufficiale è
accerchiare la crescente potenza iraniana rafforzando
gli alleati sunniti. Pesantemente contrarie le
reazioni della Germania (che si oppone anche allo
scudo antimissile di Bush in Europa orientale) ma
soprattutto di una coalizione bipartisan del
Congresso, che minaccia battaglia in aula. Dopo
l'appoggio al progetto nucleare indiano, che sta
cambiando l'assetto geopolitico asiatico, Bush decide
di lasciare il segno anche in Medioriente. Ad un anno
dalle elezioni presidenziali, che porteranno
probabilmente ad un graduale disimpegno dall'Iraq,
l'amministrazione più guerrafondaia della storia
guarda lontano e cerca di plasmare il nuovo scenario
regionale nei prossimi decenni.
La strategia è quella di ricreare una sorta di guerra
fredda mediorientale, contrapponendo all'asse del male
sciita Iran-Siria-Hizbullah una alleanza tra Israele e
i regimi filo-americani sunniti del Golfo. La parte
cruciale del progetto riguarda il finanziameno di
venti miliardi di dollari in armamenti di ultima
generazione per l'Arabia Saudita e gli Emirati del
Golfo Persico. In questo modo, il regime saudita
riuscirà a colmare il graduale vuoto di potere che
seguirà al ritiro americano dall'Iraq e si occuperà in
prima persona di contrastare la crescenta egemonia
iraniana nell'area. Le aspirazioni iraniane di potenza
regionale sono infatti la prima preoccupazione per i
sauditi e i loro alleati e, anche se le frizioni per
ora sono circoscritte alla cruenta guerra civile in
Iraq, con il ritiro americano potrebbero estendersi a
tutto il Golfo e fino in Libano.
Per discutere i dettagli della proposta, il Segretario
di Stato Rice e il Ministro della Difesa Gates si sono
imbarcati in un tour regionale (la prima volta di
questa inedita accoppiata), affermando infatti che
"questo sforzo americano rafforzerà le forze
moderate
e costruirà una strategia più ampia di contenimento di
al-Qaeda, Hizbullah, Siria e Iran." La reazione
europea alla gigantesca operazione militare è stata
affidata al ministro degli esteri tedesco Steinmeier.
Questi ha stigmatizzato la deplorevole corsa al
riarmo, riaffermando la necessità di aprire un fronte
diplomatico, forse temendo che un attacco all'Iran
possa mettere in crisi i forti legami commerciali tra
l'UE e il regime persiano. Questa posizione tedesca va
di pari passo con l'opposizione al progetto americano
di uno scudo antimissile in funzione anti-russa
nell'europa orientale, che si annuncia come una
riedizione della cortina di ferro e minaccia a sua
volta gli stretti rapporti economici tra la locomotiva
dell'UE e il regime di Putin.
L'annunciato aiuto massiccio al regime saudita sta
creando non pochi problemi a Bush anche in patria. Un
fronte bipartisan di deputati democratici e
repubblicani ha dichiarato battaglia. Non è la prima
volta che gli affari spregiudicati del clan Bush
creano problemi all'amministrazione: l'anno scorso
fece scandalo infatti la decisione di dare in gestione
le autorità portuali statunitensi ad una società araba
di Dubai.
Molti deputati si opposero
citando la
priorità della sicurezza nazionale sui profitti
privati e, nonostante il forte pressing di Bush, la
proposta fu infine respinta al Congresso. Questa
volta, l'obiezione mossa a Bush è l'atteggiamento
ambiguo del regime saudita nei confronti del
terrorismo internazionale, se non altro per l'origine
e gli appoggi forniti dai sauditi ad al-Qaeda: il
fatto che diciotto su diciannove dirottatori
dell'undici settembre fossero proprio cittadini
sauditi non è stato ancora dimenticato negli USA. Il
gruppo di deputati dissidenti presenterà un disegno di
legge per bloccare qualsiasi vendita di armi
all'Arabia Saudita, vincolando futuri finanziamenti
all'esplicito riconoscimento da parte saudita degli
interessi americani nell'area.
Per superare l'ennesima possibile empasse al
Congresso, Bush ha un asso nella manica: l'aumento di
un quinto degli aiuti militari americani ad Israele,
che lieviterebbero alla formidabile cifra di trenta
miliardi di dollari in dieci anni. Legando in un unico
provvedimento gli aiuti israeliani e quelli sauditi,
Bush dovrebbe spuntarla ancora una volta, con la
tacita minaccia di spostare lo scontro politico sul
piano dell'antisemitismo, in caso di bocciatura della
legge.
Il premier israeliano Olmert,
in grave
difficoltà in patria a causa del rapporto sui
fallimenti della guerra in Libano, ringrazia e si
prepara ad incassare l'aumento. L'unica voce contraria
nel panorama israeliano è a sorpresa quella di
Netanyahu, che ha ribadito al contrario la priorità
esistenziale per Israele di sganciarsi gradualmente
dal controllo americano, per raggiungere in
prospettiva l'autosufficienza militare, nel caso in
cui gli interessi americani si spostino in futuro su
altri fronti.
Mentre Condoleezza Rice afferma che il progetto
"rafforzerà la pace e la stabilità in Medioriente,
assicurando libertà e indipendenza al Libano", il
premier libanese Siniora, pur a capo di una coalizione
filo-americana, si è detto esterreffato dall'aumento
di aiuti americani a Israele, notando che questo
incoraggerà ancor di più nello stato ebraico la falsa
illusione che la sua sicurezza risieda esclusivamente
nella superiorità militare, a scapito di un'uscita
diplomatica dal conflitto.
Siniora ha aggiunto che,
invece di finanziare il riarmo, gli Stati Uniti
dovrebbero usare quei soldi per ricostruire la
regione, devastata da decenni di guerre continue. Ma
la causa di tale contrarietà potrebbe essere legata
anche al trasferimento di armi all'Arabia Saudita. Il
Libano, infatti, ha visto recentemente aumentare le
attività di fazioni jihadiste internazionali, che
utilizzano canali sauditi per l'approvvigionamento di
armi e uomini.
Le tensioni interne sono recentemente deflagrate negli
scontri nel campo profughi di Nahr al Bared tra
esercito libanese e gruppi di combattenti
internazionali, che si sono poi estese a tutto il
Libano. Siniora teme dunque che un'escalation
nell'area mediorientale porterebbe, come già successo
in passato, alla drammatica ripresa della guerra
civile nel paese dei cedri, teatro della guerra sporca
tra Iran, Siria e Hizbullah da un lato e una inedita
alleanza di israeliani, americani e jihadisti sunniti
dall'altra.
Un caso a parte rappresenta la commessa di tredici
miliardi di dollari in aiuti promessi all'Egitto. Da
sempre alleato americano, il regime laico di Mubarak
ricopre una posizione strategica su diversi fronti. In
primo luogo, è un baluardo contro l'avanzata del
radicalismo islamico sunnita, in questo caso
rappresentato dai Fratelli Musulmani, di cui il
movimento palestinese di Hamas è un'emanazione.
Rafforzare Mubarak dunque rientra nel piano di
accerchiamento di Hamas in Palestina. D'altra parte,
non è da escludere che Bush guardi lontano,
interpretando i recenti episodi di guerra tra Somalia
ed Etiopia e in Darfur come preludio di un
allargamento del conflitto nell'intera regione. In
questo caso, l'Egitto rafforzerebbe la sua posizione
di garante degli interessi americani nell'area.
La contraddizione dell'aiuto ai regimi sunniti in
funzione anti-iraniana da una parte e la repressione
dei gruppi sunniti in Egitto e Palestina dall'altra è
in realtà solo apparente. La strategia
dell'amministrazione Bush in questo caso vorrebbe
essere pragmatica, appoggiando di volta in volta
gruppi diversi in diversi contesti. Se in Iraq la
guerra civile tra sunniti e sciiti rende più agevole
il controllo delle risorse del paese da parte
dell'amministrazione, che altrimenti si troverebbe a
combattere un fronte iracheno unito contro il comune
nemico americano, sul contrasto al regime di Teheran
Bush ha deciso di passare la mano in futuro
direttamente all'altra potenzia regionale, l'Arabia
Saudita.
L'esperienza irachena è stata
adattata poi
con successo alla situazione palestinese, sfruttando
l'esistenza della fazione palestinese laica di Fatah,
in funzione questa volta anti-islamica. Prova ne sia
il continuo afflusso di armi, fornite da USA e Israele
a Fatah, e persino l'addestramento degli uomini della
sicurezza palestinese da parte dei consiglieri
militari americani, secondo schemi ampiamente testati
in America Latina.
La guerra al movimento sunnita di Hamas non è in
contraddizione con l'aiuto ai regimi sunniti in
funzione anti-iraniana. Per l'Arabia Saudita il
conflitto palestinese in questo momento è più un
problema che una risorsa, come dimostra il recente
avvicinamento diplomatico tra i sauditi e Israele. I
regimi filo-americani all'interno della Lega Araba
preferirebbero firmare una pace separata con Israele
anche in assenza di una soluzione definitiva della
questione palestinese.
Tuttavia, è chiaro che questa
ennesima applicazione della dottrina del "caos
creativo" potrebbe portare a risultati del tutto
imprevedibili: aumentando l'instabilità della regione
qualsiasi attrito locale potrebbe portare a nuovi
conflitti su larga scala. La guerra della scorsa
estate in Libano ne è infatti l'esempio più recente.
Dal momento che anche Siria e Iran si stanno a loro
volta riarmando, aiutati dal Cremlino, è difficile
prevedere cosa succederà nel prossimo futuro.
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