Il supermarket della precarietà e " le apocalissi culturali "

di Wanda Piccinonno

L’entrata in vigore della " riforma Biagi " , violando le leggi dell’etica e della decenza , spinge a decostruire criticamente il tema spinoso della precarietà del lavoro . Intanto è opportuno fare un esplicito riferimento alle " innovazioni " della suddetta riforma , anche perché vengono introdotte più di 40 tipologie di contratti . Questi ultimi includono il "job on call " , lo " staff leasing " , il " job scharing " . Per quanto concerne il " job on call ", ossia il lavoro a chiamata , il lavoratore sarà a completa disposizione dell’impresa , sicché l’imprenditore , libero da ogni vincolo , potrà stabilire sia il tempo di lavoro , sia la retribuzione . Con il "job sharing " poi ogni principio democratico assume le connotazioni di zavorra passatista , tant’è che addirittura un solo posto di lavoro viene ripartito tra due lavoratori . Inoltre , con lo " staff leasing " , ovvero " affitto di squadre " , i lavoratori potranno essere affittati a vita .

Le innovazioni sono indubbiamente inquietanti , ma sarebbe riduttivo circoscrivere la legge Biagi solo in un circuito nazionale . Difatti , al di là delle ricorrenti robinsonate della sinistra ufficiale e dell’endemico provincialismo del nostro paese , essa è intrinsecamente incorporata alla vulgata neoliberista . Ne consegue che sarebbe estremamente fuorviante attribuire tutte le responsabilità al " Principe - mercante " Berlusconi , ossia il capocomico dell’Italietta , perché la suddetta legge si inscrive nello spirito del capitalismo postfordista . Ciò significa che il Trattato di Maastricht , il " Patto sociale " di Treu , la legge Biagi , rappresentano le tappe salienti del saccheggio globale . Per suffragare le considerazioni fatte e per debellare il flagello contemporaneo dell’amnesia , giova ricordare che in vista dell’entrata in Europa , si incominciò a discutere sul "riordino " dello stato sociale , tant’è che il ministro Treu sostenne che soprattutto i lavoratori dovevano sopportare le operazioni di contenimento della spesa . Di più , per demistificare l’impianto debole di un opinabile manicheismo , è utile ricordare che nel patto sociale di Treu , approvato anche da Bertinotti , sono già contenute le norme inerenti il lavoro interinale , in affitto , il caporalato legalizzato .

Pertanto , pur non sottovalutando le becere manovre del Cavaliere , sarebbe opportuno evitare una sorta di sindrome antiberlusconiana , per prendere coscienza che le menzogne e il gioco delle parti costituiscono la colonna sonora della politica –spettacolo . In altri termini , sarebbe salutare non solo ridimensionare le paradossali esternazioni e le panzane di Berlusconi , che peraltro fungono da cortina fumogena per occultare i reali problemi del paese, ma bisognerebbe anche smascherare il funambolismo e l’artificioso moralismo dei Fassino, dei D’Alema, dei Rutelli.

A questo punto , vuoi perché le contese risultano strumentali e ripugnanti ; vuoi perché si registra il tripudio della demenzialità ; vuoi perché la politica ufficiale si rivela corrotta e decadente ; vuoi perché l’ingannevole plausibilità delle metafore sistemiche genera effetti ipnotici , ma , soprattutto , perché ogni analisi non può prescindere dal globalismo , è lecito affermare che con il postmoderno si sono realizzate appieno le tesi di Guj Debord sulla " società dello spettacolo ".
L’autore citato , infatti , constatando la riduzione del reale al mediatico , scrive : " Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come la società stessa , come una parte della società , e come strumento di unificazione . In quanto parte della società …..lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo , prodotto dalle tecniche di diffusione massiva delle immagini . Esso è invece Weltanshauung divenuta effettiva …..Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine ".

In un contesto siffatto non può stupire che il vero sia solo un momento del falso , sicché tutte le ragioni di un "Bene " astratto si infrangono in un mondo realmente rovesciato. Le incisive osservazioni di Debord mettono in luce che nella società dello spettacolo operare un distinguo tra falchi e colombe diventa estremamente problematico . Da qui la necessità di un approccio critico , sia per ricorrere a significative pratiche di esodo , sia per demistificare le grottesche e strumentali rappresentazioni della politica-spettacolo . Occorre, pertanto , negare le vetuste gerarchie e , al tempo stesso , avvalersi di tutte le forme di sottrazione e di resistenza . Ciò significa che bisogna decodificare criticamente il teatrino dell’assurdo di " Ulivi " e "Margherite " , per attivare efficaci esperienze collettive e costituenti .

Vero è che la prassi dell’esodo incontra non poche difficoltà , perché il cosiddetto senso comune continua a pensare in termini fordisti . Ciò genera una visione continua e cumulativa , che non consente di cogliere " l’arresto messianico dell’accadere ". Purtroppo, anche una componente dei movimenti mostra l’incapacità di percepire la chance incorporata nel capitalismo cognitivo , basti pensare all’entusiasmo suscitato dall’esperienza di Lula , che poi si è rivelata decisamente fallimentare . Ne consegue che un approccio riformatore, l’enfasi acritica , una lettura riduttiva della realtà , la trasgressione carnevalesca , inficiano una decodificazione esaustiva dell’assetto odierno . Occorre , invece , "intendere il presente come il futuro anteriore di tutto ciò che è avvenuto in precedenza , ossia come prova di appello per gli sviluppi alternativi che sono stati condannati in primo grado " ( Paolo Virno ) . Non si può , dunque , leggere il presente come prosecuzione del passato , ma si dovrebbe cogliere , invece , come voleva Benjamin , " una chance rivoluzionaria per il passato oppresso". Si impone , pertanto , la necessità di una cesura teorica radicale , che sia in grado di penetrare nelle variegate dinamiche del postfordismo , nella consapevolezza che solo un’indagine controfattuale pertinente può evitare la subordinazione ad una teleologia preesistente . L’impresa non è scevra di impedimenti , infatti , al di là delle chiavi di lettura schematiche e riduttive , il postfordismo presenta caratteristiche peculiari assai complesse , vuoi perché ingloba diversi modelli produttivi , vuoi perché include il tempo di non-lavoro , vuoi perché mette al lavoro il linguaggio . vuoi perché il capitale costante pervade tutta la società .

Ciò detto , per mostrare l’inconsistenza delle ipotesi neokeynesiane , è opportuno scavare a fondo nello spirito del capitalismo postfordista , per definire il deragliamento dello sviluppo e per evidenziare l’anomalia , intesa come ciò che è " fuori dal tracciato " . A questo proposito Mounier Boutang osserva che la nuova figura del lavoro si contrappone alla " forma - stato " o alla " forma-salario " . Oggi , aggiunge Boutang , " il nuovo lavoro immateriale odia la rendita materiale , odia il fabbrichismo , il produttivismo " .

Le nuove modalità del lavoro , dunque, implicano una rottura tecnico-organizzativa , che sgretola i grandi apparati produttivi e , al tempo stesso , genera un inedito asservimento di tutte le qualità umane .

Ciò significa che il nuovo meccanismo produttivo assume caratteri dirompenti , proprio perché trasforma in fattori produttivi , il linguaggio , le facoltà logico-comunicative , i dispositivi cognitivi collettivi : in altri termini , il nucleo fondamentale della vita biologica .

Ma , per comprendere appieno la pesantezza del processo postfordista , conviene mettere in luce un elemento basilare , ossia che il general intellect incorpora il lavoro vivo in tutta la sua potenza . A questo punto si impone un esplicito riferimento alle incisive osservazioni di Paolo Virno , che scrive : " Nel postfordismo , il general intellect non coincide con il capitale fisso , ma si manifesta come interazione linguistica del lavoro vivo" . L’autore citato , inoltre , aggiunge che oggi le chiavi di lettura marxiane risultano riduttive , infatti , sostiene : " A muovere questa critica obbliga l’analisi della produzione postfordista . Nel cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione , ma anche nelle procedure operative di una fabbrica radicalmente innovata qual è la Fiat di Melfi , non è difficile riconoscere che la connessione tra sapere e produzione non si esaurisce affatto nel sistema delle macchine , ma si articola nella cooperazione linguistica di uomini e donne , nel loro concreto agire di concerto . In ambito postfordista giocano un ruolo decisivo costellazioni concettuali di schemi logici che non possono rappresentarsi in capitale fisso , essendo inscindibili dall’interazione di una pluralità di soggetti viventi ". Di più , per evidenziare le significative innovazioni della macchina produttiva postmoderna , giova aggiungere che la misura del lavoro , intesa come unità omogenea e lineare , è decisamente superata . Difatti , la nuova divisione del lavoro si inscrive nella forza-lavoro globale , che viene poi governata dalla lex mercatoria delle reti produttive multinazionali e finanziarie . Ne consegue che gli Stati- nazione , pur assolvendo funzioni rilevanti sul piano economico , politico e culturale , sono stati di fatto destituiti dalla posizione di autorità sovrana dai regimi multilaterali di governance e dai trattati economici transnazionali .

Da un approfondimento analitico dell’assetto odierno si evince , dunque , che il carattere sociale del lavoro , il nomadismo del capitale , il ruolo motore del sapere nel sistema produttivo , l’ibridazione tra lavoro e interazione , la nuova natura del lavoro vivo , il rapporto praticamente paritetico tra sistema proprietario e sistema operativo comune , non consentono la ripresa di un modello sraffiano , ma impongono una radicale cesura teorica. Per suffragare questa tesi è utile fare un excursus sommario sulla divisione del lavoro capitalista . Emergono così tre concetti : la sussunzione formale , la sussunzione reale , il general intellect . Conviene ricordare che Marx qualifica con la nozione di sussunzione le forme di subordinazione del lavoro al capitale . Per quanto concerne la sussunzione formale ( inizio secolo XVI e fine del XVIII ) si basa su modelli produttivi della manifattura accentrata . La sussunzione reale , invece , si manifesta con la prima rivoluzione industriale . Essa è caratterizzata dalla parcellizzazione , dequalificazione e sovra-qualificazione di una componente minoritaria . In questa fase la dinamica dell’accumulazione del capitale si fonda sulla grande fabbrica e sulla produzione di massa dei beni . Con la crisi sociale del fordismo si registra un salto di paradigma , infatti , per via delle complesse dinamiche produttive del capitalismo cognitivo , si manifesta in modo eclatante il general intellect .

"Nel postfordismo , osserva Augusto Illuminati , viene mobilitata direttamente la facoltà generica di parola , il " poter dire " , di cui la chiacchiera mediatica è l’estrema ricaduta empirica . L’intelletto materiale unico per tutta la specie umana funziona da competenza di tipo linguistico-relazionale : non tanto sapere critico quanto vita pubblica della mente . La benjaminiana povertà dell’esperienza si svela inopinata risorsa produttiva : lo illustrano con dimessa efficacia le traversie di migranti e precari , per un verso vittime , per l’altro testimoni privilegiati e attori soggettivi di libertà e conflittualità " .

Le incisive considerazioni di A. Illuminati evidenziano che al silenzio dell’officina taylorista subentra la loquacità postfordista , sicché la parola dialogica si fa materia prima . Difatti , tutte le attitudini relazionali vengono messe al lavoro attraverso le varianti di lavoro in affitto , brevetti , concessioni , licenze , pacchetti formativi predefiniti , ecc .

In questo contesto " la prassi diviene nichilistica " , perché " l’abitudine a non avere abitudini " entra in produzione e diventa requisito professionale " .

Ciò significa che la passività routinaria del fordismo tramonta e viene sostituita dalla "catena di montaggio linguistica " . Inoltre , occorre rilevare che la fabbrica fordista si basava sulla produzione di massa , aveva una struttura omogenea , livellata , rigida , e concentrava la produzione in un unico luogo , sfruttando soprattutto lavoro materiale .

Con il postfordismo questo impianto paradigmatico è stato scardinato dai complessi e complementari processi della globalizzazione , che hanno generato non solo dislocamento , finanziarizzazione selvaggia , deterritorializzazione , sradicamento , precarietà , variabilità , nomadismo , convergenza tecnologica ed economica , digitalizzazione dei mercati , ma anche la produzione di beni prevalentemente immateriali .

Ma , insistendo ancora sul fatto che l’inedito assetto odierno non consente la reductio ad unum , conviene sottolineare un altro elemento prorompente , cioè il carattere sessuato del lavoro . Difatti , il postfordismo , incorporando qualità come l’istinto , la sensibilità , la passione , le attitudini linguistico-relazionali , "la tecnica del patchwork" , manifesta una forma di socializzazione del lavoro tipicamente femminile , che non è riducibile a "lavoro indifferente " .

L’incremento della femminilizzazione del lavoro emerge anche dai dati del rapporto Censis riportati da Lia Cigarini . Quest’ultima sostiene che nonostante la stagnazione del mercato del lavoro , si registra una crescita di occupazione delle donne .

Ciò è da attribuire ai meccanismi di produzione e di riproduzione connessi al globalismo .

Oggi , infatti , la produzione si basa soprattutto sulla fornitura di servizi e su attività di cura , sicché le capacità relazionali delle donne vengono sfruttate e messe al lavoro .

" La riproduzione , scrive Sara Ongaro , diviene produttiva attraverso la collocazione sul mercato di una serie di attività di riproduzione un tempo svolte prevalentemente da donne nel privato in modo gratuito ( l’assistenza a familiari , l’ascolto , la conversazione , l’orientamento , il lavoro domestico , la cura del corpo , la relazione sessuale ) " . E’ evidente quindi che anche questo aspetto rompe l’ordinamento tecnico del fordismo , che manifestava una concezione del lavoro unilateralmente maschile , tant’è che l’uomo produceva e la donna riproduceva .

Per evitare una lettura acritica del fenomeno , è bene rilevare che se la femminilizzazione del lavoro implica la presenza di potenzialità antagoniste , è altresì vero che tutte le attività lavorative sono intrinsecamente incorporate nei processi di alienazione , sussunzione , espropriazione . Non senza ragione a questo proposito Christian Marazzi nel libro , " Il posto dei calzini " , sottolinea l’ambivalenza del lavoro femminile postfordista . Ciononostante , il carattere sessuato del lavoro innesca preziosi dispositivi di liberazione per costruire una prassi politica della differenza , fuori dai parametri della logica patriarcale , fuori dai dettami della legge del capitale , fuori e contro il processo di valorizzazione finanziaria , fuori dalle metafore trascendentali del dominio e contro l’atavica misoginia dell’universo maschile .

Il nuovo impianto paradigmatico del lavoro , dunque , apre all’avvenire , ma non garantisce l’avvento del " regno della libertà ". Difatti , il postfordismo , per via delle sue caratteristiche peculiari e per via di un assemblaggio di elementi , " produce biografie incompiute , personalità interrotte : versione maligna dei fascinosi eteronimi alla Pessoa e degli incubi romantici del sosia e della perdita d’ombra " ( A. Illuminati ) . D’altra parte, ciò non può destare stupore , perché l’uomo modulare postmoderno è proteiforme , ibrido , sicché è , soprattutto , un uomo senza essenza , ma è anche un uomo che si assembla e si smonta da sé .

Ma , pur rilevando l’ambivalenza della fase odierna , non si può negare che il postfordismo , mettendo al lavoro la mente , dispiega appieno l’intelletto pubblico , che fa tutt’uno con il lavoro vivo . Da qui la rivelazione della " cosalità del pensiero ".

A questo punto , per esplicitare in modo efficace l’argomento , è opportuno ricorrere ancora una volta a Paolo Virno , uno dei più lucidi e perspicaci intellettuali del nostro tempo . L’intellettuale citato , penetrando acutamente nei meandri più riposti del postfordismo , indaga sulla prassi linguistica , evidenziando che la facoltà di linguaggio è potenza . Questa impostazione si rivela estremamente incisiva , perché il rapporto potenza- atto , " riproducendo in miniatura l’origine della specie " , diviene antropogenetico . L’animale linguistico , però , non dispone di un copione , sicché il rapporto potenza-atto è solo potenziale . Non può , quindi , stupire che la suddetta potenza acquisisca " la fissità allucinata del tic o del riflesso pavloviano " . In altri termini , " atti senza potenza " o , al contrario , " potenza senza atti " , possono generare la regressione del processo antropogenetico .

Questi temi , magistralmente trattati nel libro , " Quando il verbo si fa carne ", confermano che Virno , collocandosi all’estremo del movimento critico , con le sue preziose indagini , offre le coordinate per leggere il presente , inteso non come lineare prosecuzione del passato , ma come rottura , come autentica apocalissi culturale . Da qui un esemplare approccio critico , che rifiuta la retorica dell’enunciazione e , al tempo stesso , rimuove la nefasta ideologia del progresso e tutte le forme di automatismo .

In virtù delle considerazioni fatte si può , dunque , affermare che Virno , penetrando con fine acume nel tessuto ontologico post-moderno , rende vivo e palpitante " l’Angelus Novus" di W. Benyamin . Quest’ultimo , nelle " Tesi di filosofia della storia " , associando l’immagine di un angelo rappresentata in un quadro di Klee con " l’angelo della storia ", scrive : " L’angelo della storia deve avere questo aspetto . Ha il viso rivolto al passato . Dove ci appare una catena di eventi , egli vede una sola catastrofe , che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi . Egli vorrebbe ben trattenersi , destare i morti e ricomporre l’infranto . Ma una tempesta spira dal paradiso , che si è impigliata nelle sue ali , ed è così forte che egli non può più chiuderle . Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro , a cui volge le spalle , mentre il cumulo di rovine sale davanti a lui dal cielo " .

La suggestiva immagine dell’angelo benyaminiano irrompe nel pensiero di Virno in modo potente , vuoi perché mostra il debordamento del presente , vuoi quando l’intellettuale parla del " futuro anteriore " , ossia la prova di appello del passato oppresso , vuoi quando focalizza l’attenzione sul verbo che si è fatto carne .

Virno , infatti , instaura un rapporto con l’immisurabile , scava nell’immateriale , nega ogni ipotesi messianica della storia e tematizza in maniera esemplare la frattura epocale del postfordismo .

Non senza ragione l’autore citato parla di apocalissi culturali , facendo esplicito riferimento a Ernesto De Martino . Quest’ultimo , analizzando i caratteri peculiari delle "apocalissi culturali " , coglie il nesso tra " crisi dell’antropogenesi " e " perdita della presenza ".

A questo proposito Virno osserva : " La perdita della presenza rende necessaria la sua ricostituzione . Il " non più " in cui sono precipitati l’autocoscienza e l’essere nel mondo deve convertirsi in un " non ancora " ; occorre che i fenomeni recessivi prendano l’aspetto di prodromi . Vanno ripristinate , insomma , le stesse condizioni di possibilità dell’esperienza : a cominciare dal basilare intreccio tra potenza e atto , che la crisi ha lacerato ".

E’ evidente che il suddetto intellettuale , rifuggendo da uno " sgomitolamento lineare della storia " e rimuovendo ogni " etica del trascendimento " , scorge le condizioni di possibilità nell’ontologia e non nell’etica . L’ esigenza di un impianto ontologico discende dal fatto che , con le apocalissi culturali , si manifesta tanto il " difetto di semanticità " (atti stereotipati ) , quanto " l’eccesso di semanticità " , non risolubile , però , in significati determinati , sicché proprio l’emergere di questi fenomeni spinge a ristabilire le peculiari condizioni di possibilità del discorso umano . Oggi , dunque , per via di un contesto decisamente metarmofosato , che scardina il continuum della storia , la definizione di apocalissi culturale si rivela quanto mai calzante . Difatti , scrive Virno :" La semel-natività permea in lungo e in largo la vita quotidiana delle società contemporanee . L’apocalissi è ubiqua ed appariscente . Le sue trombe risuonano , oggi , nei comportamenti e nei giochi linguistici più familiari ".

Le apocalissi culturali , però , lungi dall’indicare i tratti della città futura , oscillano tra perdita e riscatto . Questa duplice possibilità , pertanto , esibisce il poter-essere e non un preciso che fare . Da qui la necessità di una teoria della prassi comunicativa e cognitiva , vuoi per rimuovere la dilapidazione sussuntuaria del senso , vuoi per attivare le possibilità controfattuali . In questa prospettiva le riflessioni di Virno risultano particolarmente feconde ed illuminanti . Ciò emerge anche quando l’intellettuale " libera il concetto di reificazione dai malevoli pregiudizi che lo attorniano " . Cadono così molte categorie concettuali consolidate , sia perché la reificazione rimanda all’incarnazione del verbo , sia perché manifesta le facoltà propriamente umane , sia perché promuove la relazione dell’Homo sapiens con le cose del mondo . Dalle considerazioni fatte si rileva ,quindi , che l’elogio della reificazione nega tutte le forme di trascendentalismo , rendendo così vivida ed operante l’esperienza materialista . Non senza ragione Virno osserva : " Reificazione è un termine dinamico : indica il passaggio da uno stato all’altro , una trasformazione progressiva dell’interiore in esteriore , del recondito in manifesto , dell’inattingibile a priori in fatti empiricamente osservabili . In questione non è una cosa già data , ma il diventare cosa di ciò che , in sé , non è , o almeno di primo acchito sembra non essere , una cosa " .

La reificazione , dunque , non si può confondere con l’alienazione , infatti , " i due concetti si collocano agli antipodi . Di più : essi si contrappongono come veleno e antidoto . La reificazione è il solo rimedio allo spossessamento alienante " . Quest’ultimo , per via della sua intrinseca valenza , non solo produce un processo di estraneazione , ma esercita anche " un prepotere su di noi " , la res , invece , ha un carattere pubblico , esteriore , empirico , che poi rivela la condizione ontologica della reificazione . "Ugualmente radicale è l’opposizione tra reificazione e feticismo " , infatti , il " feticcio " assolve una funzione mistificatoria , tant’è che esorcizza l’alienazione spiritualizzando l’oggetto . Ne consegue che il feticismo , " spacciando l’empirico per trascendentale ", inficia e oblitera i processi che incrementano l’incarnazione del verbo .

La reificazione , dunque , rappresenta un significativo momento di rottura , perché , "manifestando l’empirico del trascendentale ", fa emergere la cosalità del pensiero .

E’ evidente che una decostruzione critica sulla funzione mistificatoria dell’alienazione e del feticismo risulta estremamente feconda , perché offre le condizioni di possibilità per una radicale transvalutazione di valori .

Ciò detto , conviene aggiungere , che se il mondo globalizzato è attraversato dall’incertezza , dal rischio , dallo smarrimento , è altresì vero che la carne viva palpita nella cosalità del verbo .

" La benefica reificazione transindividuale , scrive Virno , connessa alle drastiche trazioni trasformative del postfordismo, genera uno stato di eccezione " . La natura umana , infatti , diventa materia prima dell’assetto sociale , sicché " il corpo linguistico si manifesta come naturale potentia loquendi " . Ciò significa che mentre le culture precedenti velavano la "neotenia " , ossia l’infanzia cronica , o , la naturale potenza del dire , oggi , per via di un contesto decisamente metamorfosato , emergono i tratti di fondo della natura umana .

Le aperture dell’avvenire , dunque , non possono discendere né da un’idea di palingenesi , nè dal presunto valore salvifico dei gruppi dirigenti , ma sono intrinsecamente connesse alla esperienza materialsta , ai corpi linguistici che si fanno carne , alla cosalità non feticistica : in altre parole , alle possibilità di riscatto dell’apocalissi culturale odierna .

D’altro canto , l’irruzione dei caratteri apocalittici pervade tutto il tessuto sociale , tant’è che ciò si registra anche nelle neuroscienze . In tal senso risulta significativa la prospettiva dello scienziato spinozista Antonio Damasio , che , nel libro , " Alla ricerca di Spinoza " , sostiene : " Non c’è pensiero senza corpo " . Partendo da questo assunto , l’autore citato rimuove il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e , al tempo stesso , rileva che noi siamo soprattutto corpo , sicché sensazioni , emozioni , pensiero , si fondono nelle esperienze corporee . Inoltre , Damasio afferma che " Spinoza , del tutto controcorrente , vide che non c’è pensiero senza corpo e che gli istinti , le emozioni , i sentimenti erano l’essenza stessa dell’uomo ". E’ evidente , dunque , che la metamorfosi postmoderna rimanda , come vuole Antonio Negri , alla riscoperta di una religione materialista , " al mirabile dogma della resurrezione dei corpi " . " In questa tradizione , scrive Negri , ci sono tanti elementi materialisti , come per esempio l’eucarestia , che rappresenta la trasmissione materiale della carne di Dio attraverso l’ostia o il vino".

Le osservazioni fatte mettono in luce che il postmoderno , pur manifestando ambivalenza e contraddizioni , ostenta la carne nella sua inaggirabile consistenza , offrendo così condizioni di possibilità decisamente fertili , vuoi per negare tutte le forme di ipostatizzazione , vuoi per costruire e costituire alternative di vita .

Per non cadere nelle trappole nefaste di un acritico ottimismo e per debellare la puerile ideologia del progresso , è utile rilevare , però , tre elementi : l’incosistenza operativa dei movimenti , la mostruosità della guerra , la potente pervasività del globalismo . Sicché , onde evitare che tratti eccessivamente celebrativi inficino una lettura pertinente del complesso e rizomatico contesto odierno , è bene considerare la delimitazione negativa della storia . Occorre , in altri termini , come vuole A. Illuminati , rievocare la lezione di Machiavelli per riconoscere la presenza del male e della fortuna . Da qui la necessità di demistificare " l’effetto simulacro" , per prendere coscienza che il conatus della moltitudine postmoderna oscilla tra realizzazione e fallimento , tra riscatto e sussunzione , tra sussulti di liberazione e derive : in altre parole , tra positivo e negativo .

Ne consegue che la carne del verbo potrebbe imputridire , obnubilando e vanificando così i requisiti che rendono umana la prassi . E’ quindi necessaria una profonda elaborazione critica del nuovo tessuto ontologico , per superare il confine negativo e per mettere in luce che la critica dell’economia politica va integrata con un processo di ricostruzione dei soggetti spezzati che , al di là dei toni enfatici , rivelano l’incapacità di tracciare un’esperienza percorribile .

Pertanto , onde evitare che l’eccesso di possibilità si traduca in un pernicioso vaniloquio , in chiacchiericcio sterile e funzionale al comando postfordista , sarebbe opportuno avvalersi di un’ontologia critica , per penetrare nei terreni rizomatici della variabilità , della precarietà , della pervasività delle tecnologie digitali , dell’inarrestabile flessibilizzazione del mondo . Cio è di basilare importanza , perché lo sfondo cosale del pensiero offre condizioni di possibilità , ma non un canone .

Per convertire i sussulti di liberazione in azione politica e per effettuare una radicale trasmutazione , si dovrebbe ,dunque , focalizzare l’attenzione sui variegati meccanismi di subordinazione e di sfruttamento del lavoro postfordista , non trascurando , al tempo stesso, le trasformazioni qualitative operate dalla commistione tra spazio del corpo e universo tecnologico .

Bisogna quindi andare alle radici dei problemi attuali , per prendere atto che la fabbrica della conoscenza , pur includendo dispositivi di liberazione , si esplicita e si svolge all’insegna dell’ambivalenza . In altre parole , per farla breve , si può affermare che il capitalismo cognitivo incorpora una sorta di bilinguismo . Difatti , si registra la convivenza ambigua della " catena di montaggio linguistica " e , nel contempo , un linguaggio reificato che apre all’avvenire .

Ne consegue che le condizioni di possibilità non possono discendere da una pseudo-politica locale e insignificante , ma risiedono , invece , in una prassi alternativa , che sia in grado di attraversare criticamente il nuovo tessuto ontologico , vuoi per realizzare un radicale decondizionamento dalla fabbrica del sapere , vuoi per demistificare i processi di occultamento del comando postfordista . Inoltre , si dovrebbero negare perentoriamente alcuni feticci : ossia quello ideologico , quello del denaro , quello della rappresentanza , quello inerente la concezione trascendentale della sovranità , quello dell’ideologia statalista .

Di più , considerate le dinamiche della mondializzazione postmoderna , si dovrebbe eliminare ogni residuo dialettico e , al tempo stesso , sarebbe anche opportuno rinunziare all’equazione capitalismo = salariato = lavoro libero . Questa equazione , infatti , non solo è opinabile , ma oggi è addirittura obsoleta , sia perché si manifesta la crisi del lavoro salariato , sia perché la contrattazione collettiva ha subìto un arretramento a livello mondiale , sia perché il sistema welfaristico è ormai in completo disfacimento .

Assodato che il postmoderno desostanzializza le categorie del moderno , va aggiunto che le problematiche di fondo attualmente sul proscenio spingono ad elaborare una nuova definizione di cittadinanza .

A questo punto si pone un quesito : i movimenti sono maturi per realizzare una radicale transvalutazione di valori ? Purtroppo , pur apprezzando la festosa resistenza postmoderna , è lecito sottolineare che i movimenti continuano a mostrare ambiguità , un’inquietante frammentazione e una palese incapacità progettuale : elementi questi , che ovviamente inficiano un approccio sinergico efficace .

Ma , considerando la materia del discorso , è quasi obbligatorio un breve cenno al famigerato reddito di cittadinanza .

In realtà , il concetto di cittadinanza globale resta fin qui vuoto , in quanto rappresenta tutt’al più un postulato , tant’è che si rivela sul piano della prassi una semplice illusione . La proposta di un " reddito minimo garantito " indipendente dal lavoro svolto e svenduto , è indubbiamente significativa , ma risulta riduttiva se viene presentata come " misura di politica sociale " . In altri termini , se il reddito di cittadinanza non viene contestualizzato in un ampio orizzonte progettuale , rischia di ricadere nei parametri obsoleti della società salariale .

E’ bene precisare , però , che la rilevazione dell ’incapacità propositiva dei movimenti non può spingere a riconvalidare forme organizzative tradizionali , basate sulla gerarchia , la militanza organica , i codici ideologici unitari . D’altro canto la rivisitazione di alcune categorie risulterebbe fuori tempo e fuori luogo , perché la propensione al pluralismo è strutturale . La verità è che spesso una sorta di facilismo pressappochistico pervade le declinazioni del termine globalizzazione . Quest’ultima è , invece , caratterizzata da sostanziali variazioni che emergono dai seguenti punti : " la compressione della dimensione spazio-temporale ; la loro incidenza non omogenea sulle diverse classi sociali ; l’extraterritorialità che caratterizza i processi di finanziarizzazione ; la mobilità come tratto sociale che genera diseguaglianze e alimenta nuove industrie ( della paura , della sicurezza , della segregazione urbana ) "( Z. Bauman ) .

Detto ciò , tuttavia sussiste il problema di innalzare il livello di progettualità , per evitare che il movimento diventi massmediatico e puramente antagonista .

Un altro elemento da prendere in seria considerazione è il rapporto sistema politico - movimento . Se quest’ultimo , infatti , si integra con il contesto politico nazionale e diviene preda dei partiti , allora si snaturano tutte le istanze alternative . Di più , per non obliterare le condizioni di possibilità , si dovrebbe prendere coscienza che l’esperimento del " bilancio partecipativo", l’uso delle istituzioni politiche , le elezioni , ricalcano le vecchie forme di rappresentanza .

A questo punto si pongono alcuni quesiti : su quali basi la moltitudine postmoderna può operare una svolta decisiva ? Come si può debellare la potenza ordinativa della guerra? Quali strategie di resistenza adottare per costruire una democrazia partecipativa funzionante? Come sovvertire ed innovare il modello lavorativo postfordista ? Quale iter seguire per rendere le decisioni operative ? Come costituire percorsi di valorizzazione di realtà collettive? Le " folle mobili" a quali materiali teorici possono ricorrere per esprimere una nuova filosofia di vita ? Questi interrogativi sono cruciali e meritano un tentativo di risposta . Senza pretendere di suggerire formule , senza cadere nelle trappole di un vetusto ideologismo e negando la prospettiva del garantismo e dello statalismo , sarebbe opportuno constatare che il linguaggio polivalente postfordista necessita di una nuova cartografia e di una grammatica eclettica , che non possono prescindere da una teoria della prassi comunicativa e cognitiva . Ciò significa che" un discorso di liberazione paragonabile anche solo per efficacia a quello del marxismo novecentesco , difficilmente potrà riprendere piede, senza che abbia fatto i conti fino in fondo con la filosofia del linguaggio " ( Luca Nobile ) .

Non senza ragione a questo proposito , nella postfazione del libro , " Quando il verbo si fa carne " , Daniele Gambarara , rilevando l’esigenza di un programma di ricerca conscio della posta in gioco , osserva : " I filosofi del linguaggio e della mente cominciano ora a sentire il bisogno di una teoria della prassi comunicativa e cognitiva . Quando inizieremo davvero a lavorarci , ci accorgeremo che è esattamente a questa che da tempo Paolo Virno lavora , che è andato in essa più avanti di noi , e che ce ne consegna gran parte in questo libro " .

 

 

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