Ma Berlusconi avrebbe salvato Moro?

E Prodi? E Fassino? E Rutelli? E Follini? E Cofferati? E Bertinotti? Lo avrebbero salvato, loro? Come si sarebbe comportato il quadro politico attuale di fronte la terribile tragedia del rapimento di Moro e della "questione cruciale" da esso posto: trattare con i brigatisti, e derogare dallo Stato sotto un ricatto e una violenza, o "salvare lo Stato"? Vi sarebbe ancora - magari anzi irrobustito e convincente - un "partito della trattativa"?
Excusatio non petita: mi rendo conto dell'assoluta futilità e stupidità di un simile esercizio retorico, e non ho alcuna intenzione di introdurre un elemento di "gioco", laddove anche sembrasse solo speculativo. Le situazioni storiche sono assolutamente differenti e incomparabili, l'Italia tutta è assolutamente differente e incomparabile. Che esista ancora un terrorismo latente - benché in un "mare" prosciugato - è forse l'unico paradossale filo di continuità.
E pure, per quel tanto che quella tragedia rappresentò - "il mio sangue ricadrà su di voi" - ovvero la rappresentazione di una questione cruciale per lo Stato, essa dovrebbe significare anche una sua validità fuori dal tempo, non nel senso di "a-storico", ma, al contrario, come è proprio delle tragedie, di "costituzionale", di sempre-valido.
Presumibilmente, cioè, lo Stato, ovvero la sua classe politica, qualunque essa sia, dovrebbe comportarsi - messa di fronte a una situazione simile - nello stesso identico modo di allora. Che poi, lo Stato stesso, o quella sua classe politica o sue specifiche stratificazioni, si sia comportato in maniera differente e opposta in alcuni casi analoghi [il "caso Cirillo", il "caso D'Urso", il magistrato rapito per chiedere la chiusura del carcere dell'Asinara] non mette in crisi la "questione cruciale" posta dal sequestro di Moro. Qui tutto assunse un carattere di assoluta concentrazione e rappresentazione. Che si sia derogato, pone un problema ulteriore, ma nulla toglie al "carattere di legge" del comportamento dello Stato nei cinquantacinque giorni del sequestro.
Così dovrebbe essere.
Ma se così non fosse, allora emergerebbe piuttosto l'elemento "contingente" di quella tragedia, il suo conficcarsi in "momento specifico" - con "quella" classe politica, in "quel" quadro politico, in "quella" situazione - e quindi il suo carattere di limite, di passaggio, di confine.
Ecco allora - accusatio manifesta - il senso di questo esercizio retorico: quanto di quella tragedia, e dei suoi esiti, è rimasto "coscienza statuale", e quindi anche coscienza sociale, nazionale? O vi è uno scollamento fra la percezione sociale d'adesso di quella tragedia - e di quale sarebbe potuto essere il suo svolgimento non obbligato - e il "carattere di legge" che assunse e che presumibilmente la classe politica attuale ha ereditato? E questa sorta di resipiscenza nazionale - il "sogno" che Moro si potesse salvare, così rappresentato nel film di Bellocchio che tanto successo ottiene - ha permeato, ha forgiato la classe politica d'adesso?
Insomma, il caso Moro può essere - e è tutto qui l'esercizio retorico - la lente focale per guardare questa nuova classe politica e i suoi travagli, qualcosa che esubera la contingenza degli schieramenti e del maggioritario, delle modifiche costituzionali, ma che afferisce direttamente la loro "cultura", la loro "formazione", i loro "riferimenti". Che afferisce noi, la sua società.
Ora, benché non sia corretto un processo indiziario, cioè desumere da indizi sparsi una complessità compiuta, io non ho alcun dubbio che se la questione venisse posta a Fassino, egli risponderebbe - e certo non a cuor leggero - che bisognerebbe anzitutto "salvare lo Stato". Qui poco importa che Fassino pensasse già queste cose da giovane e promettente funzionario di partito di Berlinguer. Io dico che per quel che Fassino esprime adesso, per la sua idea di Stato, di leggi, di rapporti fra società politica e cittadini, fra sovranità e conflitti, persino per la sua "figura", egli risponderebbe così. E non credo di fargli un torto, riconoscendo anzi in questa sua indefettibilità un carattere rigoroso e morale, un carattere precipuo della "sinistra" e del suo ancorarsi alla legalità, alle norme quand'anche astratte e anzi proprio perché astratte, quindi valide per tutti. E' un senso di sollievo sociale sapere che lì, "in alto" vi sia qualcuno che crede nelle regole, che vigila su esse, che si sbatte per la loro applicazione, a partire dalla propria parte, da se stessi addirittura. Fassino, e non certo per amore di continuità rispetto il "compromesso storico" berlingueriano - il suo recente libro è anche il segno di una maturazione personale e d'un "seppellimento dei padri" - sarebbe un baluardo dell'indefettibilità dello Stato.
Non il solo. Prodi, di certo, lo affiancherebbe. Anche qui, poco importa quel che Prodi contasse, pensasse o fece allora [per quel che si sa, davvero qualcosa di stravagante]. Io dico che il Prodi d'adesso, il fondatore dell'Ulivo, l'uomo dell'autobus in giro per l'Italia, il politico della trasparenza, il presidente della Commissione europea, lo "zio buono e burbero" di questo paese [anche qui, non faccio un torto, fu la campagna pubblicitaria vincente di Mitterrand, e scusate se è poco], non avrebbe dubbi - pur lacerato di sospiri e sofferenze, a partire dalle espressioni verbali.
E così, credo, sarebbe per Cofferati e Epifani, ancora rappresentanti o icone della classe lavoratrice che andrebbe preservata dallo sbando nazionale e anzi mobilitata - come d'altronde lo è ancora - contro il terrorismo o ogni attacco alle leggi dello Stato "da qualunque parte essi provengano".
Davvero non so che farebbe Bertinotti: non credo vivrebbe come un'ossessione la necessità di prendere le distanze dal terrorismo e le accuse - che da una qualche parte sciocca e velenosa, c'è sempre, ci sarebbero - di contiguità e complicità. L'assoluto attaccamento di Bertinotti alla democrazia come quadro unico dei conflitti anche duri fa aggio su qualunque cosa si possa dire. E vi è anche una sua "flessibilità", una sua capacità di "incursione" in temi e questioni che non appartengono solo alla sua "parte" che rendono imprevedibile un suo comportamento e che spesso lo fanno muovere verso il "centro" dell'attenzione e delle questioni. Bertinotti ha tratti di "umanità" - nel senso forte del termine - che non derivano solo dal carattere di straordinario outsider in cui è relegato dalle quote di opinione nazionale del suo partito. Ma, ahimé, le quote poi conterebbero: tutt'al più Bertinotti sarebbe una minoranza - insistente e determinata ma impotente, come voci di intellettuali, di giornali, di movimento - in un quadro molto più robusto e vincente di fermezza.
E via così: se penso al quadro politico della "sinistra" - non vorrei far torto, nel dimenticarne qualcuno - i Rutelli, i D'Alema, i Salvi, il "correntone", i "riformisti" di Morando, i Di Pietro, gli Scalfaro, ma allargherei anche alle sue parti di opinione "civile", che so, Moretti e Flores e i "girotondi", Scalfari e "la Repubblica", io temo di non andare molto lontano dal vero se dico che tutti si schiererebbero con assoluto convincimento per la "salvezza dello Stato". Che questo comporti la "seconda" morte di Moro, non sarebbe mai consequenziale: a uccidere Moro, si sa, sono stati i brigatisti.
Ora, un terribile dubbio mi assale: e Berlusconi? Come si comporterebbe Berlusconi? Ecco, sta forse qui il lato grottesco della ripetizione d'una tragedia: perché io "temo" che Berlusconi si dichiarerebbe per la salvezza di Moro. Come per tutti, non dovrebbe valere quel che pensasse allora davvero, o il sospetto di riverenza verso il suo mentore d'un tempo, Craxi. Proverebbe a adoprarsi - inventando una qualche linea di fuga, o affidandola a uno dei suoi curiali, uno Scajola per dire, o rimestando dove nessuno può farlo se non introdotto, con un Dell'Utri, per dire - mentre intanto il suo portavoce Bondi parlerebbe minuto dopo minuto degli orrori del comunismo, che lui ha ben sperimentato, e delle infamie della "famiglia" della sinistra. Questo inevitabile fuoco di sbarramento non impedirebbe a Berlusconi di fare davvero tutto il possibile per liberare Moro.
Penso questo perché il carattere "regale" con cui Berlusconi ha sempre voluto ammantare la propria autorità si rafforzerebbe nel segno di una "grazia" che egli concederebbe. Berlusconi, è già di suo "legibus solutus" e sente sempre con insofferenza il richiamo alle forme della democrazie e alle sue regole, che sono fastidiose e faticose. Come dice lui stesso: "Per chi non ha fatto politica è un grande sacrificio adattarsi alle istituzioni della politica. Per me, non potere agire con la libertà dell'imprenditore è sempre una diminuzione. Certe volte è drammatico perché io vedo quello che si potrebbe fare ma non posso farlo." Chissà, forse vedrebbe quello che potrebbe fare - un gesto di "grazia" - e lo farebbe. Aumenterebbe il senso antitetico alla "politica" della sua discesa in campo, antitetico alle pastoie degli accordi e degli infiniti e sfiancanti patteggiamenti. Se un sondaggio - e lo farebbe, oh se lo farebbe - dichiarasse una qualche preminenza dell'opzione "salvifica" rispetto quella "della fermezza" [e forse oggi andrebbe così], Berlusconi non avrebbe dubbi. Si presenterebbe in televisione con un appello alla Nazione, avrebbe con sé l'Onu e il papa [che pure già c'erano, quando accaddero i fatti reali], probabilmente userebbe delle gocce di collirio - come usa il cinema - per simulare le lacrime, purché non rovinino troppo il fondotinta. Ma sarebbe "grandioso".
Berlusconi non avrebbe paura d'un Moro libero, lo coccolerebbe anzi, per ricordare a tutti quanto lui sia "umano", sia vicino a quello che pensa "la gente". Insomma, stracciando le regole dello Stato rafforzerebbe la propria autorità e il proprio rapporto "diretto" con le masse [quelle "masse" che, almeno stando al botteghino e alle curiosità giornalistiche, si commuovono al film di Bellocchio e si dichiarano pronti a studiare con passione quel periodo - i più giovani - o sposano adesso - i più adulti - la possibilità reale, politica, e non onirica e artistica, che Moro potesse essere salvato].
E' qui il grottesco paradosso di questo paese, dei venticinque anni che ci distanziano dal caso Moro, dei dieci anni del dopo-tangentopoli, della scomparsa d'una classe politica e d'un "mondo" di riferimenti e dell'apparizione d'una "nuova". Se vogliamo davvero dare a quella tragedia il suo valore nazionale e costituzionale. Perché, forse, Moro questa volta si salverebbe. E si salverebbe a dispetto della democrazia ma a rispetto della coscienza sociale. Quella che è maturata, rispetto quella storia, in questi anni da allora. Quella che è maturata - o almeno questo dicono i segnali e i giornali - anche nel "popolo di sinistra". Ma in questo grottesco paradosso - non è chi non lo veda - qualcosa turba non poco.
Ma andrebbe proprio così? Per fortuna, è solo un assolutamente futile e stupido esercizio retorico.

--
http://www.lanfranco.org
http://www.accattone.org

 

 

prima pagina.

 

 

 

contatore http://artenamir.interfree.it

e forum