Critica film di Graziano Montanini
L'apostolo - di
Robert Duvall
Sonny
(Robert Duvall) è un predicatore di una chiesa texana:
ben lungi
dall'essere perfetto, troppo violento e passionale, ma
con un amore per
Dio in cui riversa tutta la sua energia, almeno finche'
il rapporto con
la moglie non comincia a deteriorarsi... Guardando
"L'apostolo" si fa
una agghiacciante scoperta: il cinema americano, quello
vero, in America
e' quasi scomparso e in Italia e' definitivamente morto.
Il film di
Duvall si pone infatti, unico suo degno compare degli
ultimi anni lo
splendido "Lama tagliente" di Billy Bob
Thornton (qui non per caso
attore in una piccola parte), come unico erede di quella
tradizione di
cinema americano degli anni '70, cinema di attori, di
storie, di
personaggi complessi e non banalizzati; e forse proprio
per questo, pur
avendo vinto un bel po' di premi anche importanti, in
Italia fa la
stessa del film di Thornton, uscito in enorme ritardo e
con
distribuzione nulla, sorte in fondo ineluttabile per un
prodotto cosi'
smaccatamente fuori dal tempo. Ed e' un vero peccato
perche', come
dicevo prima, guardare questo film e' come avere
un'esperienza mistica:
all'improvviso, dopo aver passato anni senza farci caso,
ci accorgiamo
che il cinema americano di oggi, con i suoi alti e bassi
(lungi da me
sminuirlo, produce immonde schifezze come capolavori) non
ha niente a
che spartire con quello di una volta. Ci accorgiamo che,
e' vero,
Spielberg e' il fondatore di un'industria, e' la vera
chiave di volta
che ha trasportato un'intera nazione ad una concezione
del cinema prima
inesistente. Ed e' per questo che con
"L'apostolo", che pure e' un
ottimo film ma non un capolavoro, ci si commuove: per
essere rimasti
spiazzati da un autore che ci mostra cosa ERA una volta
il cinema, e
cosa abbiamo perso. Tra le tante cose non si possono non
citare gli
IMMENSI attori (Billy Bob Thornton su tutti, come al
solito
irriconoscibile), la sceneggiatura perfetta, i personaggi
che non
necessariamente sono buoni o cattivi, ma semplicemente
sono. Andate in
videoteca, cercate questo film, guardatelo, e poi ne
riparleremo...
Cast Away - di
Robert Zemeckis
Chuck,
dirigente della FedEx, rimane coinvolto in un incidente
aereo e
finisce su un'isola deserta. Dovra' imparare a cavarsela
in un ambiente
selvaggio, nella speranza di riuscire, un giorno, a
tornare a casa.
Robinson Crusoe e' lontano, anni luce. Non
necessariamente in quanto a
qualita', ma proprio come scelta di fondo. Laddove il
romanzo di Defoe e
le sue trasposizioni cinematografiche volevano essere una
critica alla
societa', un mostrare le cose da un diverso punto di
vista, "Cast Away"
punta solamente all'aspetto piu' terra-terra della
storia: interessare
e, a volte, divertire gli spettatori mostrando come un
uomo qualunque
possa sopravvivvere su un'isola deserta, sorta di
versione
cinematografica del "Survivor" che tra qualche
tempo probabilmente
spopolera' anche sui nostri (piccoli) schermi. Nonostante
questa
banalizzazione dei temi Defoeiani, "Cast Away"
e' un film ineccepibile
da tutti i punti di vista, e fin dall'inizio si dimostra
come l'ennesimo
tassello della perfezione registica di Zemeckis. Il
disastro aereo e'
girato in maniera stupenda, riuscendo ad essere
spettacolare mostrando
solamente quello che succede all'interno del veicolo,
senza inutili
riprese spettacolari. Le scenografie sono belle ma
rigorose, senza gli
oramai abusati fondali da cartolina. La scelta dei tempi
e' perfetta:
Zemeckis riesce a tirare la corda fin dove puo', giocando
con lo
spettatore e dimostrando una padronanza unica del mezzo;
per una buona
parte del primo tempo i dialoghi sono quasi assenti, poi
arriva
l'espediente che permette di tenere viva l'attenzione
dello spettatore,
e poi il finale, consolatorio ma non troppo. Hanks e'
indubbiamente
bravo, ma non certo da Oscar: la parte e' di quelle che
avrebbero fatto
risaltare qualunque bravo attore. Nel complesso un film
che, piu' che
per il (comunque discreto) valore intrinseco, verra'
ricordato per la
capacita' di Zemeckis di creare il perfetto film
hollywodiano, dando
allo spettatore quello che vuole, quando lo vuole e come
lo vuole.
Pianeta
rosso - di Antony Hoffman
Anno, 2050 la Terra sta rapidamente morendo per i
crescenti tassi di
inquinamento: l'unica speranza e' colonizzare un altro
pianeta, Marte.
Le alghe inviate sul pianeta per crearvi un atmosfera
scompaiono pero'
inaspettatamente. Ecco quindi che una missione spaziale,
la prima con
passeggeri umani, viene inviata su Marte per scoprire le
cause di questo
problema che potrebbe condannare l'intera Terra. Pianeta
Rosso si
candida senza alcuna fatica tra i più brutti film di
fantascienza degli
ultimi anni. "Battaglia per la terra", che è
stato a ragione giudicato
come il peggior film di fantascienza dello scorso anno,
aveva almeno
dalla sua una certa componente B-movie che lo rendeva a
tratti
(involontariamente?) divertente. Pianeta Rosso invece non
riesce nemmeno
in questo. I dialoghi sono fin dall'inizio imbarazzanti,
con punte di
puro delirio come quando si tenta di parlare di temi come
il rapporto
tra Dio e la Scienza con una profondità da Bar dello
Sport, ci sono dei
flashback talmente inutili e falsi che persino il regista
di "Vivere" si
rifiuterebbe di utilizzare, la sceneggiatura fa buchi da
tutte le parti
(ci si può chiedere, ad esempio: perché mai i Marines
dovrebbero
addestrare un robot a combattere come Jackie Chan? Ma
sarebbe solo una
quisquilia in mezzo ad incongruenze ben piu' grosse), gli
attori sono
imbarazzanti (sulle scarse doti di Val Kilmer non avevamo
dubbi, ma fa
male vedere come si e' ridotto Terence Stamp) con
Carrie-Anne Moss che è
l'unica che riesce perlomeno a strappare la sufficienza,
la musica pare
messa su a caso (si inizia con una colonna sonora
elettronica, che dopo
poco scompare per lasciare spazio a pezzi più classici,
senza nessun
motivo... che il CD fosse terminato?): gli effetti
speciali sono l'unica
nota positiva, sebbene comunque inferiori ad altri
(Mission to Mars era
ad esempio molto migliore da questo punto di vista). In
definitiva una
sconfitta totale, un film da non recuperare nemmeno in
videocassetta o
in televisione.
Lista
d'attesa - di Juan Carlos Tabío
A
Cuba, in un paesino sperduto, si sta aspettando alla
stazione degli
autobus l'arrivo di un qualche mezzo. Gli autobus di
passaggio pero'
sono pieni, e quello in dotazione alla stazione e' rotto.
Ecco allora
che una dozzina di passeggeri decide di rimanere comunque
per cercare di
aggiustarlo. "Lista d'attesa" rappresenta la
carineria portata alla sua
massima deteriorita', la costruzione a tavolino di
personaggi e
situazioni falsi come non mai al solo scopo di compiacere
il pubblico,
di casa e straniero: e la cosa riesce, visto il suo
successo
internazionale. Bisogna ammettere che il film compie un
passo avanti,
dal punto di vista ideologico, rispetto alla gran parte
del cinema
cubano degli ultimi anni. Fino ad ora le pellicole
prodotte a Cuba si
dividevano in due gruppi: quelle apertamente critiche
verso il regime
Castrista, che dipingevano una Cuba illiberale e
liberticida, e quelle
che ignoravano semplicemente il problema, dipingendo
l'isola come un
paradiso in terra; due filoni che, pur avendo prodotto
alcuni film degni
di nota, rischiavano di far affossare la cinematografia
locale per
mancanza di idee. In "Lista d'attesa" invece la
strada che si sceglie e'
una giusta via di mezzo, si parla di un paese come tanti
altri, pieno di
difetti ma che sa prendersi in giro, e in cui e'
possibile impegnarsi
per migliorare le cose. E il film, nel suo gioco di
divertire lo
spettatore riesce anche discretamente: le pecche arrivano
quando Tabío
decide di essere Autore e non semplice regista
d'intrattenimento, e
infila una serie di riferimenti letterari e
cinematografici fini a se
stessi, che irritano proprio perche' platealmente
inseriti al solo scopo
di strizzare l'occhiolino al pubblico "colto ma non
troppo" che
solitamente segue questo tipo di film. Una pellicola
guardabile, quindi,
anche piacevole, ma insostenibilmente irritante per tutti
quelli che
sono stanchi di questi falsi e "carini" film da
Festival.
L'ultimo
bacio - di Gabriele Muccino
Carlo e Giulia sono in attesa di un bambino, ma Carlo si
sente opprimere
da questa svolta nella sua vita. Francesca, diciottenne
liceale, si
innamora di Carlo e gli offre la possibilita' di una fuga
dai suoi
doveri. Paolo e' stato lasciato dalla sua ragazza, da cui
e' ancora
ossessionato. Alberto passa da una storia senza
importanza all'altra, in
cerca non sa neanche lui di cosa. Adriano ha un figlio di
un anno, e una
moglie con cui ormai non c'e' piu' dialogo. Anna, madre
di Giulia, vede
svanire sotto gli occhi la passione che suo marito, un
tempo, provava
per lei. Tutte queste storie si intrecciano, a creare un
realistico
affresco delle problematiche sentimentali di tre
generazioni diverse.
Chissa' se Muccino si e' innamorato di Magnolia a
tal punto da
sfruttarne in toto le caratteristiche registiche (piani
sequenza,
carrellate, ritmo incalzante) e sonore (canzoni che a
volte coprono
quasi il parlato, musica in crescendo che crea
aspettativa ed angoscia),
oppure se ha sempre avuto in mente questa idea di cinema
ed e' riuscito
a realizzarla solamente dopo aver avuto accesso a
capitali americani
("L'ultimo Bacio" e' il suo primo film
coprodotto dalla Miramax).
Chissa' se e' veramente cosi' bravo a dirigere gli attori
(non solo
Accorsi e Santamaria, che si distinguono sempre per le
loro doti
recitative, ma anche interpreti di calibro minore come
Marco Cocci e
Giovanna Mezzogiorno) oppure se la differenza di
recitazione rispetto
alla media delle pellicole italiane e' solo colpa
dell'incapacita' degli
altri registi nostrani. Chissa' se la citazione a
"Come te nessuno mai"
e' voluta, se veramente Giulio ha lasciato Claudia per
mettersi con
Valentina, a seguito di una crisi come quelle che
attraversano tutti i
protagonisti di questo film. Quello che e' certo e' che
"L'ultimo bacio"
e' un bellissimo film, che porta agli estremi la regia
concitata del
primo tempo di "Magnolia", sfruttandola per una
pellicola intera, e crea
dei personaggi credibili inseriti all'interno di una
sceneggiatura
impeccabile, che mai cosi' bene rappresenta la
generazione dei trentenni
dai tempi di Fandango. E, cosa piu' importante, non offre
facili
soluzioni: non prende posizioni moralistiche o
rivoluzionarie. Mostra
semplicemente uno spaccato di vita, facendoci vedere che
le possibilita'
sono piu' di una, che sta a ognuno di noi scegliere. E'
veramente un
peccato che Muccino se ne vada in America, sintomo una
volta di piu'
della miopia dei produttori italiani, a girare il remake
di "Ognuno
cerca il suo gatto", privandoci cosi' delle sue
impeccabili
sceneggiature.
Hannibal
- di Ridley Scott
A
Clarice Sterling viene ancora una volta affidato il caso
di
rintracciare il serial killer Hannibal Lecter su
pressioni di Mason
Verger, unica sua vittima sopravvissuta ma orribilmente
sfigurata.
Intorno a loro girano poliziotti corrotti e sicari con
l'incarico di
catturare Lecter con ben altri scopi che quelli della
giustizia... La
prima cosa che viene in mente guardando
"Hannibal" e' che Thomas Harris
deve essere un grande estimatore di Preacher, uno dei
fumetti di piu'
grande successo della Vertigo, linea adulta di fumetti
della DC Comics:
il deforme Mason Verger, i cinghiali giganti, i contadini
sardi, e piu'
in generale una certa atmosfera, non possono non
provenire da quello che
e' uno dei migliori fumetti americani degli anni '90. Le
ispirazioni
purtroppo non bastano a fare un buon film, e
"Hannibal" ne e' l'esempio
piu' lampante. Quello che disturba di piu' non sono le
assurdita' di
sceneggiatura (proprio tutti gli elementi che ho citato
prima, che in un
contesto come quello di "Preacher" risultavano
dissacranti, qui sono
quantomeno gratuiti) ne' la rappresentazione ridicola di
Firenze (con un
inspiegabile fumo che sbuca da ogni dove, e personaggi
piu' che
stereotipati) e nemmeno la regia da spot pubblicitario,
ma la noia che
pervade tutta la pellicola. Ed e' un peccato visto che
gli attori, ben
scelti e molto bravi, fanno del loro meglio, e che l'idea
di fondo non
e' nemmeno cosi' malvagia. Ridley Scott farebbe
certamente meglio a
prendersi un lungo periodo di riposo, nella speranza di
riuscire, in
futuro, a girare film perlomeno al livello di quelli del
fratello, una
volta vituperato ma alla lunga dimostratosi di piu'
solido mestiere.
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