Gli attributi della verità

di Carlo Bertani

Certo non mi sarei mai aspettato, dopo aver scritto un libro sulle vicende kossovare, di dover scrivere qualcosa sull’uranio impoverito; su altri aspetti di quella vicenda sì, perché poco è stato comunicato alla popolazione e molto è stato taciuto, ma su questo particolare aspetto, molto tecnico, proprio no.

La ragione di questo stupore? Semplice: che l’uranio impoverito fosse usato per produrre munizioni era arcinoto, e chiunque avesse letto qualche numero di una qualsiasi rivista militare ne sarebbe venuto subito a conoscenza.

La prima volta che incocciai la notizia, credo, fu intorno al 1982: in un bell’articolo sugli aerei da appoggio tattico comparso su RID (Rivista Italiana Difesa), mensile diretto da Giovanni Lazzari, si citava come miglior aereo al mondo nel ruolo CAS (controcarro) l’A-10 Thunderbolt, ed il suo micidiale cannone GAU Avenger da 30 mm.

Non ho intenzione di sconfinare nel saggio, perciò non andrò ad intrufolarmi nelle pieghe della discussione sui mezzi aerei controcarro però, se vogliamo capirci qualcosa in queste marziali faccende, alcune cose bisogna pur dirle.

La vicenda di queste munizioni è solo l’ultimo atto dell’eterna battaglia fra il dardo e la corazza, che accompagna l’uomo da sempre, sin da quando si ergevano scudi o barriere per proteggersi dalle frecce avversarie.

Gli arcieri allora, aumentavano la potenza delle loro armi con punte più robuste od archi più potenti, come avvenne nella battaglia di Hastings fra sassoni e normanni, intorno all’ XI secolo: in quel caso ebbero la meglio gli arcieri e fermarono la cavalleria avversaria, vero spauracchio di quelle antiche battaglie.

Venne il cannone, e ci fu la famosa carica dei 600 di Balaclava contro i russi a Sebastopoli; fu forse l’ultimo atto eroico della cavalleria: solo al termine della prima guerra mondiale entrò in scena il carro armato, e la sfida ricominciò.

Nella seconda guerra mondiale ci fu il trionfo dei carri e delle armi controcarro: corazza, potenza di fuoco e velocità da una parte, precisione di tiro e granate o razzi perforanti dall’altra.

Già, "perforanti", ma come si pensava di perforare una corazza d’acciaio temprato quando la semplice velocità d’impatto e la durezza dei materiali non erano più sufficienti?

Nacquero negli anni della seconda guerra mondiale le granate perforanti al fosforo: non si puntava più sulla sola durezza dell’acciaio del proiettile, ma anche sul gran calore sprigionato nell’esplosione contro la corazza; se unito al comune esplosivo c’era del fosforo, in grado di raggiungere temperature superiori ai 2000 C°, si riusciva a superare la barriera d’acciaio non perforandola, bensì fondendola.

Gli unici conflitti che abbiano dato qualche indicazione agli analisti militari, dopo il 1945, sono stati forse solo quelli arabo-israeliani, condotti proprio con battaglie aeree e terrestri e grande uso di mezzi corazzati.

Il mezzo migliore per fermare quei mostri d’acciaio, vero terrore delle fanterie, è apparso subito quello aereo: veloce nell’attacco e nel disimpegno, era l’ideale per attaccare quegli enormi dinosauri da 40 tonnellate potenti sì, ma lenti nella manovra.

Il problema da risolvere era quello di trovare un’arma adatta per attaccarli, per superare le loro corazze, giacché i cannoncini o le mitragliere per uso aeronautico non avevano grandi potenze balistiche, proprio perché per abbattere un caccia è sufficiente centrarlo con pochi colpi: zeppo com’è di carburante e munizioni, esplode in un frammento di secondo.

Senz’altro i missili sono un’ottima arma anticarro, ma non sempre possono essere usati proficuamente, come nel caso di cattive condizioni atmosferiche che limitano la loro precisione di tiro, e poi non possono trovar posto a decine su un solo aereo per questioni di peso: il cannone dunque ci doveva essere, e doveva essere così potente da perforare la corazza.

Dopo molti esperimenti, finalmente nacque in casa USA il GAU Avenger, dotato di una cadenza di tiro d’alcune decine di colpi il secondo e calibrato per sparare il 30 mm., molto più potente del comune Vulcan da 20 mm.: bastava trovare l’aereo adatto su cui montarlo ed il gioco era fatto.

I progettisti si misero al lavoro e nacque, verso la fine degli anni ‘70, l’A-10; semplice, robusto, potente ma manovriero, era l’ideale per volteggiare nel cielo come un’aquila alla ricerca di prede.

Ma l’aquila poteva esser un po’ troppo veloce per "beccare" degli oggetti praticamente fermi, ed allora si decise di montare il GAU Avenger anche sui nuovi elicotteri AH-64 Apache, insieme ai micidiali missili controcarro "Hellfire"; e i russi? Le stelle, si sa, non stanno solo a guardare e probabilmente dopo il Mi-24 Hind (il contraltare dell’Apache) hanno piazzato sul Sukhoi Su-25 (un aereo controcarro) il micidiale Gsh-301, cannone aeronautico da 30 mm, che equipaggia tutti i caccia russi d’ultima generazione: avranno fatto qualche capatina dalle parti dell’uranio impoverito anch’essi?

Intanto le industrie produttrici di tank avevano trovato nuove corazze più resistenti e di maggior spessore per proteggere i loro mezzi e l’infinita lotta, dunque, continuava.

Il metallo usato per i proiettili, sia di piccolo sia di grosso calibro è il piombo; tutti sappiamo che è un metallo pesante, per questo è adatto ad "assorbire" l’energia fornita dalla carica di lancio sotto forma d’inerzia: il problema è che il piombo è un metallo molto tenero, facilmente deformabile.

Una delle soluzioni fu di rivestirlo d’acciaio, ma aggiungendo acciaio diminuiva il peso del proiettile, quindi la sua inerzia e dunque l’energia che sprigionava all’atto dell’impatto: bisognava trovare un materiale pesante come (o più) del piombo e sensibilmente più duro.

Se questo materiale fosse saltato fuori dal magico cappello della tecnologia, c’è da giurare che tutti lo avrebbero voluto usare, e non solo per i cannoni anticarro ma anche per rivestire le testate dei missili aria-terra o terra-terra, vale a dire per aumentare la potenza di penetrazione di qualsiasi arma volante.

E le granate sparate dai carri? Anche quelle hanno il compito di perforare la corazza avversaria e quindi ben venga un materiale nuovo, in grado di possedere, all’atto dell’impatto, elevate temperature (per fondere) accompagnate da notevole inerzia (peso) e durezza.

Qui inizia la storia dell’uranio impoverito che, chiariamo subito, nulla ha a che vedere con le armi nucleari classiche: nasce dalla ricerca di un materiale duro e pesante, disponibile in buona quantità e non molto costoso.

Da questo punto in avanti iniziamo a muoverci su un campo minato, perché degli accordi fra le aziende del settore militare ed i militari stessi ci raccontano solo quello che vogliono, grazie al sempre presente alibi del segreto militare.

Da dove si ricava quest’uranio impoverito?

Ci hanno raccontato che è un sottoprodotto della raffinazione dell’uranio 235, quello usato nelle centrali termonucleari, degli scarti di produzione di miniera, quindi dell’uranio non radioattivo (presumibilmente il 238), con misere "tracce" del pericolosissimo 235.

Già ci sarebbe da riflettere su quell’ "impoverito"; parafrasando una celebre pubblicità televisiva potremmo chiedere: "Ma tanto quanto?"

Il sospetto che avevo da molto tempo era invece un altro: e se gli scarti, i sottoprodotti non erano quelli di miniera, bensì quelli delle centrali?

No, pensavo fra me e me, se fossero gli scarti delle centrali termonucleari dovrebbe esserci, oltre all’uranio, che più che "impoverito" si dovrebbe definire con più precisione "esausto", del plutonio, giacché fa parte proprio dei prodotti di quella reazione termonucleare: pazienza sulle armi, ma come chimico di questo particolare ero più che certo!

Perché mi frullava in mente quell’ipotesi?

Purtroppo, senza voler fare dietrologia, sono abituato dal 12 dicembre 1969 (Piazza Fontana) a ragionare sulla base del cui prodest, a chi conviene, chi ne trae vantaggio, piuttosto che credere a quello che ci raccontano, e così ha iniziato a prendere forma nella mia mente uno strano teorema.

Da una parte i militari, desiderosi di possedere munizioni micidiali, dall’altra l’amministrazione, che, come qualsiasi struttura pubblica, cerca, dove può, di risparmiare denari: chi poteva essere l’ipotetica ipotenusa che congiungeva i due cateti?

Da sempre il problema dell’industria elettronucleare è quello dello smaltimento delle scorie; contengono uranio esausto (ma ancora radioattivo) e soprattutto plutonio, vera bestia nera, giacché, oltre ad emettere radiazioni, è il principale ingrediente delle bombe termonucleari e quindi, vista la potenza del terrorismo internazionale, da tenere rinchiuso come il più pericoloso dei criminali.

Ah! Se si fosse trovato qualcuno che usasse quel materiale, beninteso, non per far bombe atomiche, quante grane in meno con gli ambientalisti e, soprattutto, quanti denari risparmiati sullo stoccaggio, la conservazione, la sorveglianza delle scorie!

Già, ma di uranio impoverito si parlava nelle dichiarazioni dei politici e dei militari e non di plutonio, e se di scarti delle centrali si trattava il plutonio doveva esserci per forza!

Alcuni giorni fa, a scuola, terminato l’orario di lezione mi ero fermato a chiacchierare con un collega in aula multimediale; collegandomi ad Internet decisi di dare uno sguardo alle ANSA del giorno e rimasi senza fiato già leggendo il titolo: "Tracce di plutonio nel munizionamento ritrovato in Bosnia ed in Kossovo".

Un click e la notizia apparve nella sua interezza: non era un "si dice" od un "forse", la notizia recitava chiaramente che erano state ritrovate tracce di Plutonio nei carri serbi sventrati, e che le analisi erano state effettuate in Svizzera, su commissione del Governo Italiano.

A questo punto c’è ben poco da aggiungere, se non che il plutonio non nasce come i funghi, ma si genera solo nella reazione termonucleare di decadimento dell’uranio 235.

A volte nasce il desiderio di essere una mosca, od una minuscola formica, per entrare ed origliare dove nessun essere umano non autorizzato può farlo: in qualche riunione ad alto livello fra generali e dirigenti dell’apparato militare-industriale, oppure fra burocrati del Pentagono e banchieri di qualche banca delle Bahamas, delle Bermude, ma anche Svizzera, che ne dite?

Sulla pericolosità di queste armi tutti si sono sperticati a dire che non c’è pericolo (guarda a caso soprattutto la NATO ed i militari in genere), e che quindi le cause delle morti dei nostri poveri soldati sono da cercare da un’altra parte.

Le prove che hanno portato sono inconfutabili: basta avvicinare un contatore Geiger (misuratore di radiazioni) alle munizioni per verificare che il livello di emissioni non è pericoloso e, badate bene, hanno ragione.

Il punto, se mai, è un altro, e coinvolge la critica dei metodi d’indagine scientifica, che necessariamente deve sempre accompagnare ogni ricerca; la scienza oggi ci mette a disposizione centinaia di magici occhiali, costruiti per osservare le più nascoste realtà, ma come possiamo sapere se abbiamo inforcato le lenti giuste?

Torna nuovamente l’eterno dilemma sull’oggettività o meno del sapere scientifico, proprio in un secolo nel quale la "verità" scientifica ha soppiantato, almeno nel comune sentire, la secolare verità religiosa.

Ma lasciamo stare la filosofia e chiediamoci: è la stessa cosa tenere in mano per mezz’ora un proiettile d’uranio impoverito oppure respirare alcuni milligrammi di quelle polveri e tenersele per sempre nei polmoni?

Un’ipotetica "formula" della pericolosità di queste sostanze deve tener conto di tre fattori:

La quantità e la qualità di una sostanza radioattiva

La distanza cui ci si trova

Il tempo di esposizione

Se il pericolo di conseguenze per la salute proviene dal prodotto di questi tre fattori, l’inalazione di quantità anche piccole di sostanze che però vengono a trovarsi a distanze minime dai centri vitali per sempre, cioè fino a quando l’essere è in vita, possiamo tranquillamente affermare che esse non creano pericolo?

Molti epidemiologi vanno coi piedi di piombo, giacché gli unici studi seri e completi sugli effetti da radiazioni sull’uomo sono quelli risalenti a Hiroshima e Nagasaki, ma dopo l’iperbolico aumento delle leucemie nella zona di Bassora, e qui sono trascorsi già dieci anni, qualche ipotesi epidemiologica può essere forse già tracciata, senza essere tacciati di "avventurismo" in campo scientifico.

Un ultimo sguardo dobbiamo rivolgerlo dalle parti dei militari, dei nostri militari, gli ufficiali italiani; senza voler accusare nessuno e senza voler fare d’ogni erba un fascio, cosa possiamo dire e, soprattutto, quanto possiamo fidarci di chi ha nascosto, fuorviato la verità su Ustica ed ancora non ce la racconta, visto che alcuni di loro sono tuttora rinviati a giudizio per quelle ipotesi di reato?

Non dimentichiamo poi che, raggiunto il grado di maggiore, gli ufficiali tornano a scuola, alla scuola di guerra, una specie d’università per diventare ufficiali superiori ed approdare quindi agli Stati Maggiori delle tre Armi.

I corsi della scuola di guerra vertono proprio sulle tattiche, sulle strategie, ma anche sulle tecnologie e sui mezzi della guerra moderna: possibile che un modesto insegnante di un liceo di provincia come me (e non sono l’unico!) fosse a conoscenza dell’equazione A-10 = uranio impoverito, mentre essi erano all’oscuro di tutto? Qui c’è solo da scegliere, nel rispondere, se ammettere di aver mentito o di essere profondamente ignoranti in materia militare (per degli alti ufficiali…); smettiamola poi, nelle interviste, nelle risposte alle domande dei giornalisti, di giocare all’azzeccagarbugli…

"La verità mi fa male, lo sai..." cantava trent’anni fa Caterina Caselli. Fa male, è vero, ma fa ancora più male la menzogna, o le mezze verità, o le verità nascoste, fuorviate, pasticciate, costrette o rinviate, perché la verità è una sola, e non tollera aggettivi.

Bibliografia

Carlo Bertani è nato a Biella l’8 marzo1951, dove ha conseguito il diploma di perito chimico nel 1969.Negli anni ’70 si trasferì nei pressi di Torino e, con un gruppo di amici ed amiche, fondò una comunità agricola dove tentarono, nell’oceano delle esperienze della "beat generation" italiana, la via dell’agricoltura naturale e biodinamica.Dopo alcuni anni di attività in campo commerciale, si trasferì a Savona dove, dal 1980, è insegnante di laboratorio presso il Liceo "Calasanzio"di Carcare (Savona).

Ha scritto "Il futuro ci può aspettare?", in via di pubblicazione presso Di Salvo Editore-Napoli , un libro per ragazzi ed adolescenti sul mutare della società sotto la spinta dell’incremento tecnologico attuale e, in attesa di pubblicazione, "Tramonti ad Oriente", un romanzo storico ambientato negli anni precedenti la partenza di Colombo ed un saggio sull’informazione in tempo di guerra dal titolo "Kossovo e dintorni: la verità addomesticata".

Da poco tempo si è trasferito a Saliceto (Cuneo), nel cuore della Langa piemontese cara a Pavese e Fenoglio.