Per la prima volta a volto scoperto il giovane militare
che ha ucciso Carlo Giuliani. L'intervista al Tg1
Parla il carabiniere Placanica
"Sono sicuro: ho sparato in aria"

L'avvocato Pisapia, legale della famiglia del ragazzo morto
"Se ha coperto qualcuno, ora dica la verità"

GENOVA - "Ho sparato in aria. Davanti a me non c'erano persone, non c'era Carlo Giuliani". Parla Mario Placanica, il carabiniere che da quel 20 luglio è sempre stato considerato l'assassino (involontario) di Carlo Giuliani. Placanica ha parlato al Tg1 e per la prima volta lo ha fatto a viso scoperto. Le sue parole hanno suscitato la reazione di Giuliano Pisapia, il legale della famiglia Giuliani: "Qualcuno in quella piazza ha barato e Placanica si è addossato colpe che non ha commesso. Ora parli". E' la prima volta che da parte della famiglia del ragazzo morto viene messa apertamente in dubbio l'identità dello sparatore. Il sospetto è che qualcuno, magari più alto in grado e, quindi, più responsabile e "colpevole" di un carabiniere di leva terrorizzato abbia impugnato la pistola che ha ucciso.

"Non potrò mai dimenticare. Da allora sono perseguitato da un'angoscia, da pensieri rivolti sempre a quella giornata". Parla così Mario Placanica. L'intervista andata in onda al Tg1 delle 20. E' la prima volta che il militare ventunenne di Catanzaro (che ha già rilasciato altre interviste a giornali e tv) si fa riprendere in volto. Placanica si copre soltanto gli occhi con un paio di occhiali scuri. Ha una camicia azzurra, i capelli corti, sembra più vecchio della sua età, e parla con una voce pacata, a tratti incerta per l'emozione. Sullo sfondo si vede un promontorio sul mare.

"Secondo me - ha dichiarato Placanica all'intervistatore - quest'anno lo posso definire come un anno che non fa parte della mia vita. Non mi rendo conto se sono stato io, perchè io ho sparato in aria. Non ho sparato contro persone. Davanti a me non c'era nessuno, non c'era Carlo Giuliani". Una dichiarazione che, in sostanza, corrisponde alla tesi della perizia secondo la quale il giovane carabiniere avrebbe sparato verso l'alto, ma il proiettile sarebbe stato deviato da un pezzo di calcinaccio volante e avrebbe così colpito Carlo Giuliani.

"Spero che si farà luce su questa questione - ha concluso il carabiniere -, anche per i genitori di Carlo Giuliani. Non mi sento in grado di parlargli in faccia, di parlargli da persona a persona. Un giorno lo farò".
Giuliano Giuliani, intervistato nel corso dello stesso servizio, ha ribadito di non essere ancora pronto ad incontrarsi con Placanica, anche se non ha escluso possa farlo dopo la conclusione dell'inchiesta giudiziaria.

E, subito dopo aver visto Placanica parlare al TG1, è intervenuto anche Giuliano Pisapia, l'avvocato della famiglia Giuliani. E ha lanciato l'accusa di cui all'inizio: qualcuno in quella piazza ha barato. Poi, l'avvocato, parlamentare di Rifondazione, ha proseguito: "Prendo atto che nell'intervista Mario Placanica pone dei dubbi sul fatto di essere stato lui a colpire mortalmente Carlo Giuliani. Da parte nostra non c'è e non c'è mai stata nessuna volontà punitiva nei suoi confronti. Gli chiediamo di avere la forza, il coraggio e l'umiltà di dire finalmente tutta la verità su quanto è avvenuto in quella tragica giornata. Solo così la sua angoscia per la morte di Carlo Giuliani - ha concluso - potrà contribuire ad evitare in futuro altre morti e altre tragedie come quella avvenuta in piazza Alimonda a Genova".

(19 luglio 2002)

 

 

Angela Burlando era vicequestore ai tempi del G8
Adesso siede in Comune tra i banchi dei Ds
"Un anno dopo
la ferita è aperta"

"Genova non ha dimenticato quel dolore"
di MATTEO TONELLI

ROMA - Un anno fa era in mezzo alla strada a dirigere l'ordine pubblico al G8. Giorni tremendi per Angela Burlando che allora era vicequestore di polizia e oggi siede tra i banchi del consiglio comunale tra i Ds. Una scelta che stupì la sua. Al punto che c'è chi si chiese cosa ci facesse un poliziotto nella stessa lista che comprendeva Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, il ragazzo ucciso da un carabiniere negli scontri di piazza Alimonda. E adesso che Angela Burlando ha lasciato la divisa per darsi alla politica, ecco che torna il ricordo del G8. Un anno dopo i No global tornano a Genova: "E io sarò in piazza, stavolta senza divisa" dice Angela Burlando.

Facciamo un passo indietro: che cosa non ha funzionato a Genova nel luglio del 2001?


"Ricordo una città espropriata da tante divise. Vede, Genova ha sempre avuto un buon rapporto con la polizia e invece allora si avvertiva una presenza angosciosa. Per questo chi veniva da Roma avrebbe dovuto fare maggiore riferimento su chi conosceva la città: sui funzionari, sul questore. E invece la sensazione di una nostra sottovalutazione è evidente in tutti. Eppoi in strada c'erano molti reparti diversi, tutti con modi di azione diversi. Una situazione che non convinceva chi, come me, pensa che il poliziotto in strada debba essere una specie di demiurgo. Che debba essere visto come un aiuto e non come un nemico".

A distanza di un anno cosa è cambiato?


"Il G8 è rimasto profondamente dentro i genovesi: a tutt'oggi è una ferita aperta. Basta una cena tra quattro persone e dopo poco la memoria di quei giorni torna".

Le indagini stanno svelando retroscena inquietanti sul blitz della scuola Diaz. Lei che opinione si è fatta?


"Io non c'ero, ma credo che allora si è sottovalutata la rabbia e la stanchezza degli uomini delle forze dell'ordine. Agnoletto ha un bel dire che noi dovremmo denunciare i violenti in divisa, ma non mi sembra che lui abbia denunciato quelli che lanciavano sassi e bottiglie contro le forse dell'ordine. E guardi che io ho visto molti miei colleghi seriamente feriti".

Anche molti manifestanti indifesi sono stati picchiati, sia in strada, sia, da quanto comincia a venire fuori, dentro la caserma di Bolzaneto.


"All'inizio la storia di Bolzaneto mi sembrava un'esagerazione e tutt'ora mi sembra impossibile che sia successo tutto quello che si dice. Comunque la polizia dentro la caserma non c'era, c'erano gli agenti carcerari. Ma soprattutto non c'era un magistrato, una presenza che avrebbe garantito il controllo".

Una anno dopo di nuovo in piazza. Come finirà stavolta?


"Stavolta abbiamo un vantaggio, per quanto triste: quello che è accaduto è servito da lezione. Stavolta non ci sono zone rosse da violare e proclami di guerra da lanciare e il comando è nelle mani del questore di Genova. Inoltre non ci sono corpi speciali che hanno scambiato l'ordinaria amministrazione per l'emergenza. Infine i No global hanno l'occasione per dire quello che non sono riusciti a dire un anno fa".

E anche un modo per ricordare Carlo Giuliani. Secondo lei è un simbolo, un teppista, un ragazzo sfortunato o uno che se l'è andata a cercare?


"Sicuramente un ragazzo sfortunato, visto che ha perso la vita. Per tanta gente poi è diventato un simbolo, di sicuro è un ragazzo che in un momento di rabbia stava lanciando un estintore verso un altro ragazzo in divisa: anche Placanica (il carabiniere che ha sparato a Giuliani ndr) poteva morire. Sarà anche per questo e per il ricordo delle devastazione che molti sono contrari a dedicare piazza Alominda a Carlo. Detto questo provo un grande rispetto per Giuliano Giuliani: è merito suo se allora non è accaduto di peggio".

(18 giugno 2002)

 

 

Il leader dei Disobbedienti un anno dopo il G8
"Le nostre ragioni per lottare sono ancora valide"
Casarini: "Torniamo a Genova
per gridare verità e giustizia"

"L'unica cosa che mi rimprovero
è non aver impedito la morte di Carlo"
di ANDREA DI NICOLA

ROMA - E' passato un anno. Alle 17,27 del 20 luglio scorso Carlo Giuliani si accasciava in piazza Alimonda colpito a morte da un carabiniere. Il punto più drammatico di una due giorni di sangue e violenza sui quali molti interrogativi restano ancora aperti. I giovani del movimento No global tornano nelle strade di Genova per "gridare non chiedere, gridare verità e giustizia" come dice Luca Casarini che di quel movimento è uno dei leader.

Allora Casarini, un anno dopo con quale spirito tornate in quelle strade dove è morto Carlo Giuliani?


"Abbiamo condensato il nostro spirito in una parola: attraversamento. Non vogliamo che la memoria diventi fissa. Dopo 12 mesi dall'uccisione di Stato ce la portiamo dentro una memoria piena di rabbia che grida verità e giustizia. Come abbiamo gridato un minuto dopo l'uccisione di Carlo, un minuto dopo che è stato sparato il primo colpo di pistola, un minuto dopo la mattanza della Diaz e le torture di Bolzaneto e nelle strade. Però la nostra memoria guarda anche al futuro perché questo è lo spirito del movimento dei movimenti. Le nostre ragioni, l'ingenuità e la follia di chi sfida i più violenti al mondo con il coraggio e con i propri corpi, restano e sono un bagaglio per continuare".

Ma a distanza di un anno, con il senno di poi, rifareste tutto quello che avete fatto?


"L'unica cosa che mi rimprovero è non essere riuscito ad evitare la morte di Carlo. Avevamo intuito che c'era una situazione di guerra eppure non siamo riusciti a proteggere le persone dalla violenza dello Stato. Questo vorrei averlo evitato ma per il resto rifarei tutto".

Quest'anno però oggi in piazza mancherà la Rete Lilliput, un pezzo importante del movimento.


"C'è un'autonomia delle reti che va conservata per questo siamo il movimento dei movimenti e non il movimento. E' giusto che ognuno abbia i propri spazi e poi Lilliput non mancherà, le persone di Lilliput ci saranno. Mancherà la presenza politica e questo è un messaggio che io registro ma insisto, non siamo una sommatoria di sigle".

Eppure è un sintomo di crisi. La spinta del movimento si è esaurita. Le ultime uscite non sono state esaltanti quanto a partecipazione senza dimenticare la crisi dei Social forum.


"Intanto spero che Genova sia molto partecipata mentre il futuro lo vedo pieno di gente. Il movimento c'è, è una realtà esiste nei grandi appuntamenti ma nella vita quotidiana, nei posti dove lavoriamo sono i meccanismi di proposta e di attrazione che dobbiamo riuscire a mettere insieme. Vedere come riuscire a far partecipare tante persone. Il Gsf c'era riuscito e noi quello spirito dobbiamo far tornare a vivere. Ma comunque a settembre, ottobre ci saremo, il conflitto sociale è in aumento dall'articolo 18 fino ai migranti il movimento dei movimenti si farà sentire".

(19 luglio 2002)

 

 

-Luna Rossa e il Vhs Digos

- Per poter capire, in quell'affollato pomeriggio del 20 luglio 2001 è importante fare pulizia. Del prima, del dopo, del durante superfluo. Conta fermare la moviola al cuore dei 1300 fotogrammi girati in piazza Alimonda dagli operatori della cooperativa "Luna Rossa" e acquistati da Rai e Mediaset. Cerchiare in rosso i "frame" decisivi e ad oggi inediti restituiti all'indagine nelle ultime settimane da un nastro "Vhs" annotato agli atti della Procura come "Filmato B estrapolato dalla videocassetta catalogata con il numero 21 e acquisita dalla Polizia scientifica".

Montati tra loro, i filmati costruiscono un'ordinata sequenza in grado di osservare la scena di Piazza Alimonda da più angolazioni. Dal retro del defender dei Carabinieri, dal suo fianco sinistro, dove la telecamera della polizia riprende medesimi eventi da una diversa prospettiva. Immaginando un ordine crescente, in cui ogni "frame" ha un numero, conviene sincronizzare la scena e le immagini che la fissano al fotogramma numero 180.

Sono le 17 e 27 minuti del 20 luglio. Mario Placanica arma la sua Beretta. A Carlo Giuliani restano due secondi e 24 centesimi di vita. La scena della piazza è fissa nell'attimo che precede il dramma. Il defender dei carabinieri con a bordo gli ausiliari Mario Placanica, Dario Raffone e Filippo Cavataio (l'autista), ha il muso incastrato in un cassonetto che chiude la più naturale delle vie di fuga. E' circondato, fatto bersaglio di un primo assalto a colpi di trave, bersagliato dal lancio di un estintore che, rimbalzando sulla ruota posteriore della jeep è ora sull'asfalto.

Fotogramma 189. Sono passati 36 centesimi di secondo da quando Placanica ha retratto il carrello della sua Beretta innescandola. Il suo braccio si tende, Carlo Giuliani è chino nell'atto di raccogliere l'estintore sull'asfalto. I fotogrammi di "Luna Rossa" e quelli della Digos lo collocano nella medesima postura e posizione. E' di profilo a tre metri e 0,6 centimetri dal retro del defender (mandate a mente questo dato). Diviso ora dalla morte da un solo secondo e 68 centesimi.

Lo sguardo e la volontà - Spostiamoci dentro il defender. Abbiamo detto del braccio teso di Placanica. Della sua Beretta ormai armata. Ma è davvero il braccio di Placanica quello teso? Scrivono i periti dell'accusa nelle loro conclusioni provvisorie: "Le mani che impugnano l'arma sono altamente attribuibili al Placanica". "Altamente attribuibili". L'espressione tradisce un giudizio probabilistico che non regala dunque certezze. A sormontare il corpo di chi impugna l'arma è infatti un altro carabiniere che, rivolto verso il posto di guida del defender, copre il lato sinistro del proprio volto con una mano.

Chi è quel carabiniere? Se è Placanica che spara, non può che essere Raffone. Ma se è Raffone, vuol dire allora che Placanica ha mentito alla Procura o, quantomeno, ricorda male. Nell'immediatezza dei fatti, Placanica racconterà infatti a verbale di aver esploso quei colpi in una posizione innaturale, mentre con il corpo proteggeva Raffone. E' un dettaglio non secondario che fa a pugni con le immagini e lascia sospesa una domanda cui ripetuti esami antropometrici di comparazione fotografica non hanno saputo dare risposta definitiva. I profili di Raffone e Placanica appaiono infatti identici. Stesso taglio di capelli, simile ovale. Mani di medesima complessione.

Con certezza non se ne verrà mai a capo. Come con certezza non si è ancora venuti a capo della curiosa doppia manomissione rintracciata sulla spina conica che sorregge l'affusto della Beretta di Placanica e con lui il dente che in ogni arma dà l'imprinting ai bossoli che espelle. "Manutenzione di fabbrica di un anno prima", ha spiegato l'Arma. Ma tant'è. Placanica dice di aver sparato, dunque Placanica spara. Lo fa al fotogramma 231. Poco più di un secondo dopo aver armato la Beretta.

Quando esplode il primo proiettile, il calibro 9 parabellum che raggiunge Carlo Giuliani allo zigomo sinistro martoriandone il cervello. Cosa ha catturato lo sguardo di Placanica in quell'attimo? Cosa può la volontà di un uomo in un secondo? Che Placanica abbia già spinto il colpo in canna prima ancora che Carlo Giuliani raccolga l'estintore lo dice lui stesso, lo conferma la sequenza delle immagini. Ma ha armato la sua Beretta per uccidere?

Minaccia e deviazione - I periti della Procura, sulla scorta dell'ormai celebre foto Reuters, definiscono l'ultimo secondo di vita di Carlo Giuliani con una meccanica corporea che lo condanna. Il ragazzo raccoglie l'estintore, lo carica sollevandolo al disopra delle spalle, compie ancora un passo che dimezza la sua distanza da 3 metri e 0,6 a un metro e cinquanta dal Defender. Si trasforma da minaccia ipotetica, in pericolo attuale e immediato. Il colpo che lo uccide è esploso da chi, all'interno del defender, improvvisamente vede comparire nel proprio ristretto campo visivo la minaccia che lo perderà. Di più. Il colpo che lo uccide - azzardano i periti della Procura - non è neppure indirizzato alla sua vittima. Ma in aria, dove incrocia il volo di un calcinaccio che ne devia il percorso, ne crepa la camicia di piombo, ne rallenta la corsa spingendolo ad una carambola che conclude la sua corsa nello zigomo sinistro di Carlo Giuliani.

E' così? Torniamo al fotogramma 231. E' un'immagine nitida, non sospetta di interessate manipolazioni perché estrapolata dal nastro Vhs prodotto dalla polizia scientifica. Carlo Giuliani ha l'estintore sospeso sopra le spalle, un fiotto di sangue che zampilla dallo zigomo sinistro. I suoi piedi sono paralleli. E' dunque questo l'istante in cui viene colpito. Dal momento in cui ha raccolto l'estintore è trascorso un secondo e 68 centesimi. Esattamente il tempo di girarsi in direzione del defender e cominciare la fase di carico dell'estintore che ne precede il lancio. Ora, se è vero che nel momento in cui Giuliani raccoglie l'estintore la sua distanza dal defender è pacificamente collocata a tre metri e 06 e che un secondo e 68 centesimi dopo le sue gambe, nell'immagine della polizia, appaiono parallele, con il corpo arcuato nell'atto del lancio, è evidente che la sua distanza da Placanica non possa che essere rimasta sostanzialmente quella che lo divideva dal bersaglio al momento della raccolta dell'estintore. Tre metri e 0,6. Sostenere il contrario, significherebbe immaginare che Giuliani abbia in quel secondo e mezzo fatto quello che forse un decatleta nello slancio di una competizione riuscirebbe a fare. Coprire un metro e mezzo dopo aver raccolto e caricato sopra le proprie spalle un peso di qualche chilo.

Si dirà: d'accordo, ma se pure Giuliani era a tre metri di distanza resta la deviazione del calcinaccio che dimostrerebbe l'intenzione di Placanica di sparare in aria. Ad una velocità di immagine normale non sembrano esserci dubbi. Giuliani si avvicina al defender quando, contemporaneamente al rumore dello sparo, nel campo visivo appare un calcinaccio sbriciolarsi nel suo volo verso la parte posteriore del tetto del defender. E' un inganno che il più attento esame delle immagini smaschera come tale.

Il calcinaccio - Basterebbe ricordare che la velocità della luce è superiore a quella del suono per concludere che il rumore dello sparo e lo sbriciolarsi del calcinaccio raccontano eventi non contemporanei. Che lo sparo (il cui rumore viaggia alla velocità del suono) necessariamente precede lo sbriciolarsi del calcinaccio (la cui immagine corre con luce). Ma per averne la prova è sufficiente tornare alla moviola. Fotogramma 231, Giuliani è stato colpito, il calibro 9 di Placanica ha già raggiunto il bersaglio. Nessun calcinaccio, in questo istante, appare nel campo visivo.

Fotogramma 235. Eccolo il calcinaccio. Sono passati 16 centesimi di secondo dall'esplosione ed è ancora perfettamente integro, visibile nella sua curva impressa da chi lo ha lanciato, mentre si piega in velocità sulla parte posteriore del defender per poi sbriciolarsi, un "frame" dopo (4 centesimi di secondo), sullo spigolo del tetto, all'altezza della seconda "i" della scritta "carabinieri", dove lascerà una visibile rientranza nella carrozzeria.

E' semplice. Chiaro. Il proiettile che uccide Giuliani non viene deviato. O, quantomeno, non dal calcinaccio. Non viene dunque esploso in aria, ma ad altezza d'uomo (un metro e 70 circa), come del resto il secondo che andrà a conficcarsi a 23 metri di distanza e 5 metri e 20 di altezza, seguendo un'angolo di tiro di 10 gradi, che certo tutto suggerisce meno una canna della Beretta rivolta verso l'alto. E' tutto. Né pare aggiungere alcunché, e tantomeno poter ribaltare le conclusioni, il dettaglio delle microtracce "di elementi di frequente osservazione nei materiali per l'edilizia e le vernici" trovate su frammenti della camicia del proiettile esploso da Placanica e trattenuti dal passamontagna di Giuliani. La circostanza nulla dice se non che quelle tracce ben potevano essere presenti sullo zigomo e il passamontagna di Giuliani prima che venisse raggiunto dal proiettile (aveva maneggiato calcinacci prima di morire e nulla impedisce che con le mani si fosse strofinato gli occhi urticati dai lacrimogeni).

Questo dunque accadde nei due secondi e 24 centesimi che hanno cancellato una vita e cambiato il corso di un movimento.