-----Messaggio
originale-----
Da: Elisa Sangiorgi <elisasangiorgi@libero.it>
Data: mercoledì 1 agosto 2001 11.18
Oggetto: [ForumAmbientalista] I: Testimonianza dal lager
di Bolzaneto
Carissimi,
questa persona è un mio caro amico che ha dovuto subire
una repressione inaudita solo per il fatto di aver
manifestato a Genova. Riflettete e non
dimenticatelo, per favore. E' un po' lunga, ma vale
la pena leggerla. E' tutto vero, purtroppo.
Elisa Sangiorgi
TESTIMONIANZA
DI UN REDUCE DAL LAGER DI BOLZANETO
Genova, sabato 21 luglio, ore 15 circa. Giunto al termine
di Corso Italia, mi accorgo che il corteo, anziché
proseguire per corso Marconi e svoltare in via Rimassa,
così come previsto, compie una deviazione e svolta in
via Casaregis, allungando freneticamente il passo.
Fermatomi incuriosito a vedere cosa stava succedendo, mi
accorgo che nell'intero Corso Marconi, fino a Piazzale
Kennedy, si stanno scontrando manifestanti e forze
dell'ordine. La notizia di questi scontri, per la
verità, circolava già da tempo nel corteo, e sono
iniziati con l'infiltrazione di cospicui gruppi di black
blockers alla testa del corteo che hanno cominciato a
sfasciare ed incendiare ogni cosa gli si presentasse
davanti. Questa versione riceverà, in seguito, conferma
da numerose testimonianze.
A Genova ero giunto in mattinata da Bologna su un pullman
dell'Arci con un amico ed un'amica (altri compagni erano
arrivati con altri mezzi).
In breve, all'incrocio tra Corso Italia e via Casaregis
la tensione diventa altissima, e decidiamo quindi di
proseguire il percorso con il corteo. Mentre
intraprendiamo la corsa con il corteo, veniamo
letteralmente bombardati da lacrimogeni, estremamente
urticanti, da tutti i lati. Lo spezzone di corteo in cui
ci troviamo (circa 100 persone) è isolato e, nel cercare
una via di fuga, restiamo bloccati e schiacciati.
Qualcuno chiama questa situazione "effetto
Heysel", dai tragici fatti avvenuti diversi anni fa
nell'omonimo stadio di Bruxelles. L'aria è
irrespirabile, bruciano gli occhi, il naso, la gola.
Pressato dalla folla, in quel momento ho pensato che
saremmo morti. Perdo il contatto con l'amico, mentre con
l'amica riusciamo a fuggire verso l'unica direzione
percorribile in quel momento, verso via San Pietro Foce
(da dove, peraltro, erano arrivati alcuni lacrimogeni).
Non si riesce a respirare e per questo cerchiamo rifugio
in una discesa che porta a delle cantine, dove già hanno
trovato riparo altre 15 persone circa. Per ironia della
sorte, una di queste persone ci dice: "Qui potete
stare tranquilli.". Finalmente possiamo respirare,
ma proprio in quel momento arrivano alcuni poliziotti
corazzati come marziani e, puntandoci il mitra, ci hanno
fatto uscire uno ad uno, rifilandoci un colpo di
manganello ai fianchi. Ci hanno preso tutti, persino un
ragazzo che, attraverso una scala di servizio, era
riuscito ad arrivare all'ultimo piano del condominio.
In breve arrivano tre cellulari della polizia che ci
portano al quartier generale delle forze del (dis)ordine,
sito per l'occasione nei locali della Fiera di Genova. Al
nostro arrivo veniamo accolti con urla da stadio, come se
fossimo un bottino di guerra. Seguendo lunghe procedure,
ci fanno scendere uno alla volta dal cellulare, testa
bassa e mani sulla testa. Le donne vengono portate da
un'altra parte, cosicché perdo i contatti con la mia
amica. Solo due giorni dopo, verrò a scoprire che, dopo
un breve interrogatorio, le donne sono state quasi tutte
rilasciate immediatamente, forse perché, secondo la loro
mentalità, devono accudire la casa. Noi maschi, invece,
veniamo perquisiti da cima a fondo, quindi ci viene
sottratta ogni cosa che abbiamo con noi. Io avevo una
borsa, contenente un k-way, una macchina fotografica, ed
il portafoglio, con diverse carte magnetiche, di cui a
tutt'oggi non ho avuto più alcuna traccia. A parte,
invece, venivano impacchettati altri effetti personali
(io avevo un telefono cellulare con batteria di riserva,
un pacchetto di sigarette, chiavi di casa, un documento
scaduto e L. 75.000). Anche di questi oggetti non ho
avuto più alcuna traccia.
Alcuni dichiarano di non c'entrare nulla, altri mostrano
tesserini professionali, ma non serve a nulla. Veniamo
tutti ammanettati, provocati e (con tempi lunghi)
caricati su autobus dei carabinieri. In breve arriviamo
alle barricate della zona rossa che, come per magia, si
aprono, passiamo accanto al Palazzo Ducale (assolutamente
isolato, tranquillo, irreale), quindi alla Lanterna, poi
imbocchiamo l'autostrada fino al casello di Genova
Bolzaneto, infine giungiamo ad una struttura inquietante.
Scoprirò in seguito che si tratta di un Reparto Unità
Mobile in dotazione alla Celere, per l'occasione prestata
alla Polizia Penitenziaria. Erano circa le 17. Ancora con
le mani legate, veniamo scaraventati fuori dall'autobus,
e manganellati e picchiati tutti, chi più, chi meno. Lì
erano presenti militi di ogni tipo: poliziotti
penitenziari, carabinieri e finanzieri, che erano i più
violenti di tutti. Ce n'era uno, chiamato
"tigre", che colpiva chiunque passasse nel
corridoio. Dopo averci slegato le mani, e consegnato il
documento d'identità, veniamo introdotti in un edificio
con un corridoio centrale e diverse celle enormi ai lati,
con alcuni manifestanti appoggiati faccia al muro. Uno
alla volta, ci fanno spogliare nudi, poi ci fanno
rivestire, quindi ci fanno togliere i lacci delle scarpe,
la cintura e l'orologio (anche di questa roba si è persa
ogni traccia). Dopodiché ci fanno stare in piedi, con la
faccia contro il muro, le gambe divaricate e le braccia
larghe ed alzate (la cosiddetta "posizione del
cigno", forse perché si fa riferimento al
"canto del cigno"). Chiunque mostrasse segni di
debolezza, lasciava scendere le braccia, staccava lo
sguardo dal muro o stringeva le gambe veniva puntualmente
percosso con schiaffi alla nuca, calci ai piedi o alle
tibie, pugni ai fianchi o al ventre. Capii subito che la
cosa sarebbe andata per le lunghe, tanto che quasi subito
ebbi una crisi isterica che portò al risultato che mi
concessero di abbassare un po' le braccia. Ero convinto,
in ogni caso, che si trattasse di una prassi
intimidatoria per scoraggiarci a manifestare in seguito,
visto anche l'elevato numero di ragazzi giovani, ma che,
fatti i debiti controlli, prima o poi ci avrebbero
rilasciato. Eravamo troppi, e, soprattutto, c'erano
troppe "persone normali", professionisti,
bancari, padri di famiglia. La cosa più snervante,
però, era che, oltre alla tortura fisica e psicologica,
non soltanto non era possibile avvisare nessuno, non
soltanto non si capiva se eravamo fermati, arrestati,
né, eventualmente, si sapeva il perché, ma soprattutto
non si sapeva quanto sarebbe durato questo supplizio! Nel
frattempo, tutti i militari lì presenti, nonché altri
dall'esterno della cella, ci insultavano e ci provocavano
senza sosta. A ciascuno di noi, a turno, venivano rivolte
varie provocazioni del tipo "Zecca, comunista di
merda, feccia della società, frocio, bastardo.".
Alla prima reazione arrivavano botte. Altre provocazioni
più sottili: "Cosa manifestate? Cosa siete venuti a
fare a Genova? Voi volete la rivoluzione. Cosa ne sapete
voi?! Parlate di proletari senza sapere neanche cosa vuol
dire lavorare, sfasciate negozi, incendiate macchine, non
sapete quali sacrifici ci vogliono per comprare una
macchina..". Naturalmente, alla minima risposta
volavano botte. Per coloro che, inoltre, avevano qualcosa
ritenuto non ordinario la dose di percosse diveniva
multipla. Era questo il caso, ad esempio, di chi portava
capelli rasta, orecchini, piercing, oppure era di colore
o vestiva "strano". Tra le altre provocazioni,
ci facevano ascoltare "faccetta nera" con le
suonerie dei telefoni cellulari, inneggiavano a Pinochet,
oppure ci dicevano che Bertinotti e Manu Chao erano in
arrivo per liberarci. Addirittura, in alcuni momenti
della sera sono stati lanciati nelle celle piccole
quantità di gas lacrimogeni ("le bombolette alla
cipolla", come le chiamavano loro). Fino alle 21,30
circa (l'orario si poteva intuire soltanto dalla luce
solare o dal buio), inoltre, non ci è stato nemmeno
permesso di andare in gabinetto. Alcuni se la sono fatta
addosso per la paura, oltre che per l'impossibilità di
andare in bagno. Successivamente, a turno ci hanno fatto
andare in gabinetto ed a bere acqua, ma molti hanno
ricevuto botte anche in quei frangenti.
In quella posizione ci hanno fatto stare per diverse ore
(nel mio caso 15 circa, dalle 17 di sabato alle 8 di
domenica). Nel frattempo, continuavano ad arrivare altri
manifestanti senza sosta, tanto che negli stanzoni
cominciavamo ad essere fitti. Non riuscivo a vedere né i
volti, né quante persone entravano, dovendo tenere lo
sguardo rivolto al muro, tuttavia ho stimato che, tra la
sera e la notte, fossero transitate da quel lager non
meno di 120-150 persone. Alcuni venivano chiamati dopo
poche ore e trasferiti al carcere, forse quelli che
avevano i capi d'imputazione più pesanti, o forse quelli
con precedenti segnalazioni. Il trattamento per i ragazzi
già noti alla polizia penitenziaria era doppiamente
violento ed irriverente. Ricordo, ad esempio, il caso di
un ragazzo preso per le orecchie e per i capelli cui
veniva chiesto: "Lo Stato che tu combatti mi impone
di chiederti se vuoi nominare un avvocato di
fiducia.". In ogni caso, la speranza di tutti noi
era quella di essere chiamati: anche un eventuale
trasferimento nel paradiso di un carcere sarebbe stato
sempre meglio che restare in quell'inferno.
Trascorremmo la notte in mezzo ad una corrente d'aria
fredda (Bolzaneto è in collina). Io tremai, appoggiato
al muro, tutta la notte per il freddo, la stanchezza e la
paura. In alcuni momenti ci hanno fatto restare
"sospesi" in mezzo alla stanza (senza muro per
appoggiarsi), in altri ci hanno fatto restare in
ginocchio. Per me e per la maggior parte di quelli presi
con me nel portone il giorno prima, l'agonia terminò
alla mattina, dopo aver ricevuto altri colpi al ventre ed
alla nuca. Verso le sei mi hanno portato a fare le foto e
mi hanno preso le impronte digitali, e lì capii che
stavo per essere arrestato. In quest'ufficio vidi anche
alcuni dei miei oggetti personali che mi furono sottratti
il pomeriggio precedente. Speravo che volessero
restituirmeli, ma così non fu, né sono mai pervenuti al
carcere dove sono stato condotto in seguito. Poco dopo,
ci hanno ammanettato a due a due, ci hanno fatto salire
in un autobus della penitenziaria (di quelli con le
gabbie), e ci hanno trasportato al carcere San Michele di
Alessandria. In quel viaggio di un'ora o poco più
sprofondammo tutti in un sonno profondo, talmente
profondo che ricordo che al risveglio credevo che la
manetta fosse l'orologio che mi stringeva. Di fronte a me
c'era un ragazzo di 18 anni di colore, di Genova. Aveva
la maglietta strappata e grossi lividi in viso ed in
corpo. Al nostro arrivo al carcere, ricordo che
farfugliava: "vedrete, ci daranno altre botte".
In effetti, il benvenuto fu a base di altri schiaffi e
calci, ma, fortunatamente, da quel momento non abbiamo
ricevuto più altri colpi. Ci misero in cella, a due a
due, finalmente potemmo dormire e, verso mezzogiorno, ci
diedero anche un pasto caldo. Ricordo anche che ci
portarono dei libri da leggere, tra i quali,
curiosamente, c'erano anche il secondo ed il terzo volume
del Capitale di Marx (forse il primo lo aveva già preso
un altro detenuto)! Commentai tra me: "Spero di non
averne il tempo per leggerlo.", cosicché presi un
saggio di Nietzsche, che, peraltro, mi servì soltanto
per schiacciare le zanzare. In serata, l'avvocato
d'ufficio ci comunicò che non ci avrebbero liberato
prima di martedì o mercoledì, senza che, peraltro,
potessimo avvisare nessuno. Proprio quando lo sconforto
stava prendendo il sopravvento sulla rabbia, però,
ricevemmo la visita di due Consiglieri Regionali del
Piemonte, uno di Rifondazione, l'altro dei Verdi, che ci
annunciarono che ci avrebbero liberato quella sera
stessa. Ci fu una vera e propria esplosione di
entusiasmo.
Alle 22,30 circa, siamo stati rilasciati in venti, tra
cui quasi tutti quelli presi il giorno prima nel portone
di via San Pietro Foce. La maggior parte di noi era senza
un soldo, senza un telefono, senza niente. La sorpresa
più bella, a questo punto, è stata l'arrivo di alcuni
compagni di Alessandria in nostro soccorso. Alcuni di noi
sono stati accompagnati in stazione, altri portati
direttamente a Genova, dove avevano lasciato amici,
effetti personali, ecc. Altri ancora, come me, sono stati
ospitati, è stato dato da mangiare, dei soldi per
raggiungere le rispettive abitazioni, perfino un
pacchetto di sigarette.
La straordinaria solidarietà di molti compagni, amici,
familiari, colleghi di lavoro, e dell'intera città di
Genova, così come l'imponente manifestazione di sabato,
sono il segno tangibile che questo Paese non è per
niente normalizzato. Se la destra pensava che sarebbe
stato sufficiente reprimere con la forza il dissenso di
pochi, per ottenere un consenso pressoché unanime, si è
sbagliata di grosso!
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