Irrealpolitik

Siamo entrati in una guerra che si fa in nome della lotta al terrorismo internazionale. Tra gli alleati in questa guerra ci sono tre paesi che hanno riconosciuto ufficialmente (unici al mondo) il regime dei taliban: Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi. Non solo: almeno due di essi (Pakistan e Arabia Saudita) hanno organizzato, finanziato, istruito e armato il movimento dei taleban e lo hanno portato al potere. E ce lo hanno tenuto dal 1996 al 2001, ben sapendo che ospitava tutti i terrorismi islamici del mondo. Ma non bombardiamo quei paesi.
Tony Blair e George Bush hanno promesso al generale-presidente Musharraf che, in cambio delle basi per i loro aerei, garantiranno al Pakistan voce in capitolo nel futuro governo dell'Afghanistan. Cioè hanno garantito che qualcuno dei taliban più "presentabili" troverà posto nel futuro governo di Kabul.
All'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan il problema (è stato detto per motivarli) era l'Afghanistan. A un mese distanza, 2500 missioni di bombardamento dopo, il problema si è ingigantito. Ora comprende anche il Pakistan: 140 milioni di persone, una guerra endemica con l'India, un miliardo di abitanti, bombe atomiche nell'arsenale. Ai confini tra Pakistan e Afghanistan almeno diecimila uomini armati sono pronti a entrare in guerra a fianco dei taliban. E i loro kalashnikov possono, da un momento all'altro, rivolgersi sia contro le truppe della "Grande Alleanza", sia contro il generale Musharraf. Il pericolo è tale che gli Stati Uniti hanno già messo in stato di allerta una brigata speciale che dovrebbe controllare (dovrebbe, ma ce la farebbe?) i depositi nucleari pakistani.
Ci si aspettava un crollo del regime dei taliban. Non c'è stato. Ci si aspettava una rivolta delle popolazioni contro il regime dei taliban: non c'è stata.

Si doveva catturare o uccidere Osama bin Laden. Che è vivo e vegeto ed è divenuto nel frattempo la bandiera di tutto l'islamismo fondamentalista del mondo. Non un solo ministro del governo dei taliban risulta arrestato o ucciso, né lo è il mullah Omar.

Si dirà che è ancora presto: pazientare. Ma i responsabili americani (quelli che prendono le decisioni) ci fanno sapere (per la verità alternando valutazioni diverse e perfino opposte l'una all'altra) che questa guerra "durerà anni" (Rumsfeld), durerà mesi (Rumsfeld), durerà tanto "che questa generazione non ne vedrà la fine" (Cheney). Per quale di queste varianti ha votato la stragrande maggioranza del parlamento italiano?

E di quale guerra si tratta? E' la guerra contro l'Afghanistan? Oppure e una carta bianca dove i dirigenti di Washington scriveranno, volta a volta, gli obiettivi che avranno individuato, in ogni parte del mondo? Cosa, del resto, certa, poiché essi hanno già annunciato che si colpirà dovunque. E poiché non sarebbe credibile ritenere che il terrorismo è solo Afghanistan e solo bin Laden, ne consegue che si pianificano bombardamenti su tutti gli altri "stati carogna" di religione islamica: Irak, Sudan, Yemen del Sud, Iran, Indonesia e via via individuando.
Dunque siamo entrati in una guerra contro un gruppo di stati senza averne l'elenco. Siamo entrati in una guerra che non soltanto non si sa quanto potrà durare, ma senza neppure un criterio per definire la vittoria.

Mentre i deputati italiani votavano per la guerra, il Pentagono si accingeva e rivedere le sue strategie. Poiché è evidente anche a loro che quella iniziale si è rivelata sbagliata, approssimativa, superficiale. La guerra continuerà, ma su coordinate che ancora non conosciamo. Al Pentagono non hanno ancora deciso se scendere sul terreno, in quanti scendere, dove e come. Adesso - dopo i primi loro morti (che non sapremo mai quanti sono) - si rendono conto che forse non hanno abbastanza "intelligence". L'Afghanistan è una bestia difficile. Si poteva chiedere informazioni ai russi.

Siamo entrati in una guerra dove non esistono limitazioni di armi e di criteri di condotta. E se non si riuscisse a trovare e uccidere Osama bin Laden con tutto l'armamentario bellico fin'ora dispiegato, siamo pronti ad accettare l'impiego di bombe atomiche? La domanda non è peregrina o teorica perché il problema sta sul tappeto. E sta sul tappeto perché non si è stabilito su quali confini fermarsi. Immagino che i nostri deputati faranno fatica ad accettare quella svolta, quando divenisse parte dell'ordine del giorno, ma finiranno per accettarla. Infatti hanno già accettato il criterio che, per colpire il criminale, si può abbattere il palazzo in cui vive, anche se centinaia di altri inquilini innocenti vi perderanno la vita.

Siamo entrati in guerra illudendoci (e illudendo le nostre opinioni pubbliche) sull'esistenza di una "Grande Alleanza", che comprenderebbe perfino la Russia e la Cina. Ma a Shanghai nel documento finale non c'è stato il minimo cenno a questa "Alleanza". La Cina sta a guardare, esprimendo solidarietà mentre la fine annunciata dei taliban taglia l'ossigeno ai terroristi della minoranza islamica degli uiguri. La Russia di Putin si dichiara amica e solidale, ma esclude di partecipare con i suoi uomini, non concede spazi aerei per azioni militari, invita a non pensare che la lotta al terrorismo possa essere risolta solo con metodi militari, infine raccoglie il silenzio definitivo dell'occidente sulla Cecenia.

Siamo entrati in guerra con l'implicita idea che la vinceremo. E invece nessuno si è preoccupato di valutare l'ipotesi che si possa perderla. Con questa scelta della guerra per combattere il terrorismo, noi stiamo mobilitando un esercito di kamikaze che diverrà massa critica molto più velocemente di quanto immaginiamo, se è vero che, dieci giorni fa, a Peshawar, Pakistan, in un solo giorno, 500 giovani (non afghani ma pakistani) hanno messo la loro vita a disposizione della jihad. Così diventeremo tutti, senza volerlo, dei kamikaze, perché la guerra arriverà nelle nostre case, nei nostri autobus, nei nostri parchi. E non sarà possibile vincerla, paradossalmente, proprio perché noi siamo attrezzati a combattere per il successo, per il denaro, per il benessere. Lo abbiamo ormai nei nostri cromosomi; ci hanno imbottito la testa con l'idea di essere belli, vivi e vincenti. Per questo non possiamo nemmeno tentare di capire chi non ha mai vinto, ed è così certo della sua inesorabile sconfitta da avere maturato abbastanza odio da dedicare la sua esistenza alla morte. A uccidersi per annientare coloro che ritiene nemici e responsabili della sua condizione.

Non c'è difesa contro questo esercito di perdenti. O, meglio, ne avremmo una sola: cominciare a mostrare loro che noi siamo capaci di costruire un mondo migliore di quello che conoscono. Ma questa è l'unica cosa che l'Occidente non ha detto e non si accinge a fare. Dicono, quelli che sono entrati in guerra, che non c'era alternativa. Cosa potevamo fare? Potevamo lasciare impuniti i criminali? Ma è una bugia. Così non si combatte il terrorismo e non si puniscono i responsabili. Così si moltiplicano i nemici dell'occidente lasciando intatti i santuari del terrorismo, che sono molto più vicini alle nostre capitali di quanto non lo siano le grotte afghane.

Siamo entrati in guerra senza riflettere che una guerra come quella che ci veniva proposta, anzi imposta, implica che noi dovremo rinunciare a tutti i valori (libertà, diritti, informazione, prosperità ecc) in nome dei quali proclamiamo la nostra come civiltà e ne vantiamo la superiorità. C'è già chi invoca il ritorno alla tortura, ed è passato solo un mese! Con il risultato che, anche in caso di vittoria, saremmo tutti sconfitti. E' il trionfo della
irrealpolitik.

 

AFGHANISTAN

Quel buco nero che, nell'oblio generale, era già diventato l'Afghanistan si appresta ad affondare nei vortici della prima guerra del XXI secolo insieme a un regime che non poteva che essere terribile come la tragedia che ha cancellato un Paese e un popolo. I taleban saranno liquidati, altra soluzione non è prevedibile. Ma moriranno senza che abbiamo capito chi erano. Covo di ogni nequizia, negatori della libertà, distruttori di statue, fanatici integralisti islamici? Come probabilmente pensa il 99% degli ottocento milioni di ricchi del Pianeta? O eroi nella guerra finale tra il male (rappresentato da una miscela esplosiva di rancori, di odi, di paradisi irraggiungibili, di ingiustizie feroci, di secoli diversi portati all'improvviso a convivere senza potersi capire). Così la pensano in molti, tra i restanti cinque sesti del Pianeta, anche se nessuno saprà mai quanti sono, perché non ci saranno sondaggi d'opinione nelle pianure pakistane, nei deserti arabi, nelle montagne dell'India e nelle foreste tropicali delle Filippine, nelle taigà russa e nelle pampas argentine.

Molti pensano siano stati i taleban a distruggere l''Afghanistan. E questa è un'accusa ingiusta. Furono i nostri eroi, i mujaheddin osannati dall'Occidente, a ridurre in macerie, definitivamente, Kabul e tutto il resto. Nostri perché combatterono, per conto nostro, con le armi nostre, la guerra contro l'altro “impero del male” di cui nessuno si ricorda più. Erano buoni per antonomasia, proprio per quel motivo. Ma le loro donne erano sepolte sotto i burqua più o meno come quelle dei taleban. Erano non meno integralisti dei taleban. Erano non meno anti-occidentali dei taleban.

Il fatto è che li avevamo viziati troppo e, finita con la vittoria la guerra contro l'invasore sovietico, non seppero dividersi equamente la torta. Una torta molto, molto appetitosa. Per questo si scannarono per quasi cinque anni, altrove, alle Borse mondiali che crescevano e crescevano e crescevano che sembrava non finisse mai. Ma in quelle Borse, senza che ci facessimo troppo caso, cominciavano a circolare correnti sempre più impetuose di denari sporchi, sporchissimi, che andavano a ripulirsi – sporcando però tutto attorno – nelle grandi, piccole e medie banche del nostro mondo civile.

Sui circa 1.000 miliardi di dollari che ogni giorno si muovono nel grande Barnum mondiale della finanza, circa il 6-8% risulta di origine sconosciuta. Lo si può vedere quando si fanno le somme statistiche, ma sfugge al controllo analitico. Sfugge perché non si è voluto fare controlli, che impedirebbero il “libero flusso dei capitali”. Ma questo è un altro discorso. Il totale fa però una cifra che lascia allibiti: da 60 a 80 miliardi di dollari al giorno, sfuggono ad ogni verifica. E qui i taleban c'entrano, eccome. Come c'entravano con tutti e due i piedi tutti i capi mujaheddin nostri eroi. Perché non ci sarebbe stato un regime taleban se, a un certo punto, non si fosse posto il problema di chi avrebbe potuto, e dovuto, controllare il grande commercio dell'oppio. Ecco la torta di cui parlavamo prima. L'Afghanistan è divenuto in quegli anni il primo produttore mondiale di oppio. Prima di allora lo si coltivava in Pakistan, ma c'erano troppi occhi a guardare. Molto meglio fu riconvertire i fertili campi degli altopiani afghani, al riparo da occhi indiscreti, in terre senza Stato e senza legge, dove i piccoli lord della guerra potevano gestire le tangenti sulle carovane. Fossero stati saggi – e non banditi medievali incolti e avidi qual erano sempre stati – non ci sarebbero stato bisogno di inventare i taleban. Perché si dovrebbe sapere che la storia dei taleban comincia qui. Sono le cifre stesse a raccontarcela. Tra il 1992 e il 1995 l'Afghanistan produsse medialmente 220-240 tonnellate di oppio grezzo all'anno, rivaleggiando ormai con la Birmania per il primo posto mondiale. Quanto valeva quel business? All'incirca dieci miliardi di dollari l'anno. Ai prezzi attuali 25 mila miliardi di lire.

Andiamo oltre. Come si gestiva e distribuiva questo terrificante flusso di denaro? C'è chi ha fatto l'analisi, ma quasi nessuno l'ha studiata. Ai contadini afghani più o meno cento milioni di dollari, distribuiti su circa un milione di famiglie afghane, che definiremo benestanti, perché dotate di un reddito medio annuo di 10 mila dollari a famiglia (intendendosi per famiglia un agglomerato di persone di diverse decine di membri). Un altro 2,5% se ne andava in trasporti e per pagare i principali intermediari in Afghanistan e nel vicino Pakistan, attraverso cui passava quasi tutto il flusso della merce. Calcoliamo un altro 5% per ungere le ruote doganali, poliziesche, statali e bancarie lungo il resto del percorso verso i mercati occidentali. Restano 9,15 miliardi di dollari netti, all'anno, che furono il contributo del mujaheddin alla criminalità organizzata del mondo civilizzato.

A loro volta i mujaheddin non avrebbero potuto fare da soli. Così si scelsero come brokers i trafficanti pakistani, e quei settori dell'esercito pakistano e dei servizi segreti pakistani con i quali avevano fatto affari durante i dieci anni della guerra contro i russi. Facciamo un po' di calcoli in tasca a questi lord della guerra e ai loro protettori in Pakistan? Qualcosa come trecento miliardi di dollari, gestiti da bande criminali, sono finiti nelle banche occidentali per essere investiti, letteralmente, “dove dio suggeriva”. Ce n'era più che a sufficienza per armare e finanziare non uno ma dieci eserciti. Di certo decine di gruppi eversivi, estremisti, fanatici, esattamente come fanatici erano Gulbuddin Hekmatjar, o lo sceicco cieco Mar Abdul-Rahman, che ritroveremo processato e condannato da un tribunale americano per l'attentato alle Twins Towers del 1993.

Si può immaginare gli effetti di due decenni di traffici criminali indisturbati (qui il fanatismo non c'entra niente) sull'economia e la società pakistana, debole, non strutturata, non democratica. E' il narcodollaro il padrone del Pakistan, la linfa vitale di tutta la sua politica e del suo esercito. Solo che i mujaheddin si rivelarono incapaci di gestire il tesoro. Fu così che a Islamabad, ma anche in Texas, In California, a Riyad, negli Emirati Arabi, si pensò che sarebbe stato bene avere a Kabul un governo stabile, su un Afghanistan pacificato e amico. Tanto amico da consentire un felice passaggio dell'oppio – senza troppi intoppi – e già che c'eravamo anche un futuro, sicuro, indisturbato passaggio del petrolio e del gas proveniente dal Mar Caspio. In tal modo si sarebbero presi due piccioni con una sola fava, tagliando fuori la Russia da quell'immenso bacino energetico. Si fecero avanti così due grandi compagnie petrolifere, la Unocal, americana, e la Delta Oil, arabo saudita, tanto saudita da essere vicinissima alla famiglia reale.

La “fava” fu il regime taleban. Migliaia di studenti madrassas islamiche in Pakistan, poverissimi contadini afghani nati e cresciuti nei campi profughi, fornirono la materia prima. L'Isi (Inter service intelligence), il servizio segreto militare pakistano, si curò della loro preparazione militare, i mullah di quella religiosa. L'esercito era pronto. Furono gli aerei pakistani a partarlo in Afghanistan, armato di armi pakistane, pagate con i denari della droga (in atto) e del petrolio (prossimo venturo). Nel settembre 1996 i taleban erano al potere a Kabul, sotto la guida del mullah Mohammed Omar, tanto misterioso che non è mai andato a Kabul e se ne sta a casa sua in quel di Kandahar. Un esercito contadino che passa – secondo la leggenda – di vittoria in vittoria, sulle ali della parola di Allah, ma che fu guidato, più che dai mullah, da sottili negoziatori, che comprarono, letteralmente, a suon di centinaia di migliaia di dollari, i capi guerrieri mujaheddin. I quali ultimi divennero, nella loro maggioranza, taleban anch'essi, pur di conservare una parte dei flussi di denaro dell'oppio.

Da quel settembre 1996 il traffico della droga è stato tutto in mano taleban. Nel senso specifico che è stato affidato a loro il compito di regolare il flusso e di prendersene le briciole. Il resto è andato tutto lungo i canali di sempre. Quanto c'entra Osama Bin Laden con tutto questo? C'entra, probabilmente. E forse una parte di questo fiume di dollari è passata per le sue filiali e per le banche che gestiscono i proventi già miliardari della sua famiglia. Ma non sarei così sicuro che, eliminato Osama, presunto Goldfinger di una Spectre fondamentalista del tutto inedita, si possa considerare risolto il problema. Scriveva su Atlantic Mary Ann Weaver, una delle più acute conoscitrici del problema, nel non lontano maggio 1996, dopo le bombe terroristiche che avevano fatto decine di morti a Riyad, a Peshawar e a Islamabad: “Siamo di fronte al più grande paradosso” perché queste bombe “potrebbero essere parte di un fallout negativo – in linguaggio dei servizi segreti si direbbe blowback – della Jihad afghana organizzata dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita”. E più avanti la stessa Weaver concludeva: “Le conseguenze di tutto ciò potrebbero essere, per noi, astronomiche”. Se la Cia e l'Fbi avessero letto con attenzione quei messaggi, forse oggi non ci sarebbe la guerra.

Forse la guerra non ci sarebbe se la Cia non avesse, a suo tempo, giocato col fuoco in base al principio che il fine giustifica i mezzi.

Giulietto Chiesa – LO SPECCHIO de “LA STAMPA” – n.294/29/09/2001

 

I molti padri del terrorismo

La più grande travolgente avanzata cui abbiamo assistito in queste ultime settimane di guerra è stata quella dell'inganno della verità. Il migliore, il più potente esercito entrato in campo è stato dei media. L'obiettivo principale, centrato e demolito dalla potenza di fuoco dei B-52, rappresentati dai telegiornali principali, è stato quello di esaltare il “successo militare” dei bombardamenti americani (quelli veri, quelli fatti con i veri B-52). Avete visto, voi scettici, voi tiepidi, voi quinte colonne (consapevoli o inconsapevoli) di Osama Bin Laden, che la guerra paga? Alleanza nazionale ci ha fatto perfino i manifesti. Come se qualcuno avesse mai potuto dubitare dell'esito di un confronto così impari, tra la maggiore potenza mondiale, tra la capitale dell'impero planetario, e un piccolo paese martoriato, affamato, ridicolmente indifeso, guidato da un gruppo di semi-analfabeti violenti e primitivi. Qui l'inganno ha travestito le posizioni in modo tale che coloro che si opponevano ai bombardamenti venissero presentati come coloro che difendevano i taliban. Quindi la demolizione dei taliban è stata presentata come se ad essere demoliti fossero coloro che si opponevano alla guerra. Il “trionfo” lontano è divenuto un trionfo “nostrano”.

E, nello stesso tempo, si è lavorato per far passare l'idea che coloro che si dichiaravano contro la guerra erano anche dei disfattisti, che non volevano che si combattesse contro il terrorismo. Cioè, di nuovo, come alleati di Osama Bin Laden. Il che è stato la ripetizione pedissequa dello scenario mediatico jugoslavo. Gli oppositori della guerra sono stati trasformati ipso facto in alleati di Milosevic e in sostenitori della pulizia etnica. Nell'un caso e nell'altro la chiave di fondo della falsificazione è stata la “necessità” della guerra, la sua “inevitabilità”. Purtroppo “non c'era altro da fare”. La guerra è sporca comunque, siamo addolorati, viviamo nel travaglio, ma “non c'è alternativa”. La stragrande maggioranza dei deputati italiani ha votato, abbracciandosi e indossando la divisa, inchinandosi alla TINA (There Is No Alternative). La stessa divinità, a ben vedere, che presiedeva, fino al 10 settembre ultimo scorso, alla realizzazione del pensiero unico della globalizzazione americana.

Dunque, non essendoci alternativa, chiunque si opponesse all' “unica possibilità” diventava immediatamente un traditore della Causa, dell'Occidente, della Civiltà. Così si è chiusa la discussione, perentoriamente. Alle voci diverse, al dissenso, si è riservato lo spazio delle riserve indiane.

Tanto per salvare la faccia del pluralismo dell'informazione. Ma la “musica di fondo” è stata assicurata senza la minima incrinatura. Tutti i giornali d'informazione (qualifica sempre più esilarante, date le circostanze) hanno scelto la guerra, senza la minima esitazione, senza la minima incrinatura. Le prime pagine, gli editoriali, i titoli, le immagini (sempre con la salvaguardia di qualche eccezione) sono stati tutti in una identica direzione, senza distinzioni significative tra destra, centro e centro sinistra. Inutile particolare dei telegiornali dei talk show, e di tutto quanto “fa notizia” passato attraverso gli schermi televisivi. Esattamente sulla falsariga della guerra jugoslava.

Abbiamo vissuto e viviamo con il sottofondo incessante della stessa musica, anzi nella ossessiva ripetizione di un solo leitmotiv. Di cui fanno parte integrante alcuni ritornelli di contorno, funzionali all'istupidimento collettivo. Tra questi dell'inedita, straordinaria e meravigliosa “Grande Alleanza Mondiale” (GAM) che accompagnerebbe questa guerra al terrorismo. Una GAM di cui farebbero parte, insieme all'America, all'Europa, anche la Russia e la Cina, per non parlare dei regimi arabi “moderati” (si noti anche la finezza mistificatrice di questa parola) come l'Arabia Saudita, il Pakistan, gli Emirati Arabi Uniti. Se poi si guarda bene dentro la GAM si scopre subito che la Cina ci sta con i suoi concreti interessi, con i quali fino a ieri l'Occidente non era affatto conciliante. Si è scambiato Tibet e le rivendicazioni autonomistiche degli Iuguri dello Xinjiang in cambio di una dichiarazione di solidarietà. Per il resto Pechino se ne sta accoccolata sulla rive del fiume in attesa di vedere passare il cadavere del nemico. Anche perché la Cina è ormai l'unico paese del pianeta che può prendere le proprio decisioni a partire dei propri interessi nazionali, e senza essere costretta a piegarsi alle decisioni di Washington. E soprattutto perché la Cina sa perfettamente di essere il numero uno della lista dei futuri nemici di Washington. Non ora ma nel 2017, secondo i calcoli del Pentagono recentemente pubblicati.

Si scopre subito che la Russia ci sta, nella GAM, in modo molto precisamente delimitato. In primo luogo ci sta in cambio del silenzio definitivo dell'America e dell'Occidente sulla Cecenia. Ci sta in modo così condizionato che l'ultimo lungo week end americano di Vladimir Putin nel ranch di George Bush non ha prodotto una sola riga di accordi politici tra Russia e USA in materia di trattato ABM e di allargamento a est della NATO. Ci rappresentano questi due paesi, Cina e Russia, come giganti ebeti inchinati alla grandezza inesorabile dell'America, mentre è chiaro come il sole che entrambi, seppure con diversi gradi di libertà, stanno osservando molto guardinghi la guerra afghana e quell'altra guerra più vasta che si annuncia.

Per esempio la Russia – che non ha concesso né le proprie truppe, né il proprio spazio aereo, sebbene le pressioni perché lo facesse siano state eccezionalmente forti – non è sfuggito sicuramente che Washington ha approfittato della crisi per insediarsi stabilmente, con la propria presenza militare, sia in Turkmenistan che in Uzbekistan. Non poteva impedirlo, è chiaro, ma non lo ha gradito. E una delle ragioni che possono spiegare l'improvvisa “rottura dei patti” delle truppe tagike, e la loro occupazione di Kabul prima di un'intesa politica generale, sta proprio nella scelta di Mosca di aumentare il loro (e il proprio) peso negoziale nelle trattative sul futuro dell'Afghanistan.

Anche perché sarebbe davvero ingenuo pensare che Mosca non sappia chi ha messo in piedi il regime dei taliban, e che dietro alle manovre del Pakistan c'erano le compagnie petrolifere statunitensi e arabo saudite (Unocal Corp e Delta Oil), spalleggiate attivamente dal Dipartimento di Stato, il cui scopo – niente affatto indolore per Mosca – era quello di tagliare fuori la Russia dal controllo, sfruttamento e royalties di passaggio del petrolio del Mar Caspio. Le cose sono andate per il verso storto, come sappiamo, e adesso Putin vuole assicurarsi che gli oleodotti, che sicuramente transiteranno attraverso il futuro Afghanistan, eventualmente “pacificato”, siano comproprietà russa.

Di tutto questo complesso lavorio sotterraneo , che accompagna il “trionfo” sui taliban, non si scrive e non si dice quasi niente. E' faccenda riservata a qualche “approfondimento” nelle riserve indiane. A volte si direbbe che i più raffinati commentatori di politica estera, e di economia, siano improvvisamente diventati delle mammolette ingenue, che ragionano in termini di “nobili principi”, spacciandoli per le vere ragioni di un conflitto che ne ha altre, molto più concrete e sfortunatamente meno nobili. In tal modo si è perso di vista – come ha scritto Sergio Romano, uno dei pochissimi analisti a non aver perso la testa in questa situazione – che la “guerra ha cambiato carattere” e, “dopo essere stata, all'inizio, una guerra contro Osama Bin Laden e la sua organizzazione, è diventata l'ennesimo episodio di un vecchio conflitto, che si combatte da più di un secolo e mezzo”. L'unica cosa che non era necessario aspettare gli ultimi sviluppi per vedere questa strana evoluzione. E per capire che questa guerra non finisce affatto con la conquista di Kabul da parte dei tagiki, punta di lancia di quella altrettanto mistificante entità definita Alleanza del Nord. Un' Alleanza che non è mai realmente esistita e che già sta svanendo sotto i nostro occhi anche come simulacro. I mistificatori – che sono poi gli stessi che mistificarono i mujaheddin in lotta contro i sovietici – pensano che in seguito, quando le notizie da Kubul saranno divenute “meno interessanti”, e si potranno quindi nascondere al grande pubblico, non sarà più così importante dare spiegazioni per quello che accadrà tra quelle montagne.

Esattamente come fecero tra il 1992 e il 2001, “dimenticando” l'Afghanistan perché non avrebbe saputo spiegare le mostruosità che vi accadevano. Non è una profezia, è la semplice, banale constatazione che le guerre afghane sono sempre state guerre per procura, combattute dalle fazioni ed etnie afghane per conto degli stati terzi, vicini e lontani all'Afghanistan. E non è pensabile una pace fino a che non cesseranno le interferenze dall'esterno e, cioè finché non verranno composti gli interessi internazionali che premono sull'Afghanistan.

Questa è la verità che si sarebbe dovuta dire, fin dall'inizio, e quella che non si vuole dire nemmeno adesso. Ecco perché si vuole rubricare il tutto in fretta come una vittoria, prima di dover fare i conti veri con la storia (e anche con una cronaca giustiziera che diventa sempre più ravvicinata). Certo la capitale dell'impero si gioverà dei mezzi di cui dispone per convincere e per costringere: finanziari, economici, militari. Ma i suoi interessi geopolitici non coincidono con quelli degli altri giocatori dell'area. E quindi non potrà realizzare i suoi progetti senza concordarli con loro. Il che è possibile, e perfino augurabile, ma non è affatto assicurato. L'unica cosa che non si può dire – senza tema di smentite – è che con la sconfitta dei taliban finirà il terrorismo. Per la semplice e banalissima ragione che il terrorismo non lo si può bombardare, perché la sua testa velenosa è troppo vicina a noi, e sarebbe troppo imbarazzante e pericoloso scoprirla tanto vicina. Si è bombardato l'Afghanistan esattamente perché si voleva che l'opinione pubblica mondiale “guardasse da un'altra parte”. Là, sotto la coperta dei taliban, c'era un pezzo del terrorismo, la sua immagine sbiadita riflessa in uno specchio. Ma la centrale del terrorismo è altrove e, dunque, non sarà stata smantellata quando i taliban saranno stati annientati. La mia risposta a coloro che, non avendo altri argomenti, si rifugiano nella domanda: “ma lei cosa avrebbe fatto””, è questa: il terrorismo che ha abbattuto le Twin Towers non è affatto soltanto “islamico”. E' “anche” islamico e fanatico, ma è “anche” il frutto di un calcolo più vasto che non è ancora stato scoperto. E non lo è stato perché non si è voluto farlo. La linea che si è scelta, quella di una guerra contro un paese e un popolo (comunque si cerchi di mascherare questa realtà) è una mostruosa cortina fumogena, simile ma peggiore di quella che fu inventata per creare la guerra jugoslava. Il che non significa che non fosse possibile risalire ai mandanti e organizzatori dell'atto di terrore. Bastava cominciare le indagini, seguire le piste e gli indizi fin troppo abbondanti che già esistevano. Come si fa in ogni indagine criminale. E il maggior indizio, il più clamoroso, era rappresentato dal silenzio generale di tutti i servizi segreti occidentali. Solo un gruppo equivalente a un servizio segreto, dotato di tutte le sue competenze, poteva realizzare un'operazione di quella portata. Probabilmente siamo di fronte a un gruppo ristretto e potentissimo (condizione assoluta per poter mantenere la segretezza per un periodo di tempo così lungo) comprendente spezzoni autonomi, incontrollati, di più d'un servizio segreto, che perseguivano un disegno comune e che, per tutti questi motivi, sono riusciti a rendere praticamente impotenti tutti i più importanti servizi segreti dell'Occidente. Là si doveva cercare e non si è cercato. Perché non si poteva andare a cercare proprio là dove si sarebbe dovuto. Nei grandi centri del potere finanziario internazionale, che hanno trascinato per i capelli il pianeta verso la catastrofe nell'ultimo quindicennio dissennato.

Ipotesi mostruosa? Solo un'ingenuità imperdonabile può escluderla. E' proprio per la mostruosità del progetto che Osama Bin Laden sarà l'unico “agente multiplo” a lasciarci la pelle. Poi toccherà a Saddam Hussein. Loro conoscono il segreto e lo porteranno nella tomba. Ma la catastrofe era già in atto il 10 settembre 2001, e troppe cose lasciano intravedere che l'11 settembre è servito anche a occultarla. Perché il modello della globalizzazione americana è fallito e non ci sono ricette alternative. Anzi ce n'è una: l'ha scritta il Financial Times qualche giorno dopo l'11 settembre. Ora dobbiamo diventare tutti, di nuovo, keynesiani. Ma keynesiani in tempo di guerra, con un intervento massiccio dello stato a sostegno dell'economia. Un intervento da tempi di guerra. Ecco perché c'è bisogno della guerra, di una guerra prolungata e generale. Ecco perché Henry Kissinger ha potuto scrivere recentemente (dopo l'11 settembre, s'intende) che, finalmente, si presenta all'Occidente la possibilità della costruzione di un nuovo ordine mondiale. Un nuovo ordine compiutamente imperiale.

Giulietto Chiesa – AVVENIMENTI – n.01/30.11.2001

 

In Georgia

Vladimir Putin ha ingoiato anche il quarto rospo. Dopo l'arrivo di truppe americane in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizia, è ora la volta della Georgia. Resta l'interrogativo solo sul Turkmenistan, ma anche vicino al deserto del Karakum, con ogni probabilità, da qualche parte, segretamente, sventola la bandiera a stelle e strisce. Turkmenbashi non vuole guai, e preferisce non dare troppa pubblicità, ma è assai difficile che possa avere resistito alle pressioni di Washington e alle allettanti prospettive degli oleodotti in partenza dal suo paese, attraverso l'Afghanistan "americanizzato", verso il Golfo Persico.
Quando arrivò, pochi giorni fa da Washinghton, la notizia del 200 "consiglieri" Usa stavano per sbarcare a Tiblisi la stampa russa diede in escandescenze.
Il troppo è troppo", scrisse un commentatore di solito molto filo-americano. E, con lui, quasi tutto lo schieramento, dall'estrema destra all'estrema sinistra, levò alti lai contro l'espansione americana ormai fin dentro il cortile di casa che fu prima imperiale russo, poi sovietico.
Due furono i motivi della protesta. Uno formale: Shevardnadze aveva trattato con Washington senza nemmeno informarne Putin. Il quale l'aveva saputo, a cose decise, dal Dipartimento di Stato. L'altro sostanziale: cosa vengono a fare in "casa nostra"? Quanto resteranno?
Certo l'argomento di Washington era forte: siamo venuti perché chiamati. E quello georgiano era l'altra faccia della medaglia: li abbiamo chiamati perché ci aiutino a combattere i terroristi, proprio gli stessi che usano la gola del Pankisi come retrovia per colpire la Russia in Cecenia.
Ma non bastarono le giustificazioni, solo a prima vista sincere. I georgiani, è evidente, non hanno affatto intenzione di aiutare i russi contro i ceceni. Non l'hanno fatto fino a ieri, non si vede perché dovrebbero farlo adesso. In realtà l'aiuto americano sarà usato assai presto contro i due secessionismi georgiani che dilaniano la repubblica praticamente dalla fine dell'Urss: quello dell'Ossetia del Sud (che vuole associarsi alla Federazione Russa unificandosi con l'Ossetia del Nord ); e quello, ben più serio, dell'Abkhazia, proclamatasi indipendente dalla Georgia, non senza l'aiuto di Mosca (e rimasta tale in questi ultimi nove anni solo perché aiutata dai militari di Mosca).
Il gioco degli Stati Uniti è stato quello di promettere a Shevardnadze la riunificazione del paese in cambio di mano libera contro i terroristi. A Washington il proprio tornaconto, a Tbilisi altrettanto. C'è solo da tenere presente che i due tornaconti non sono identici.
La prima reazione ufficiale del Cremlino è stata più che fredda, gelida. "Mosca ha ben fondate preoccupazioni che un coinvolgimento diretto di soldati statunitensi nella battaglia contro il terrorismo in Georgia potrebbe complicare ulteriormente la situazione nella regione". Parola d'alto livello perché per bocca niente meno che del ministro degli esteri Igor Ivanov. Ma è stato subito evidente che Mosca non poteva opporsi alla mossa di Tbilisi e Washington.
Sono bastati due giorni perché il Cremlino, per bocca questa volta di Vladimir Putin in persona, accettasse il fatto compiuto: con un argomento formalmente ineccepibile. "Se parliamo di lotta contro il terrorismo nella gola del Pankisi noi dobbiamo appoggiare quella lotta non importa chi vi sia impegnato, americani, o partners europei, o i nostri colleghi georgiani". Fedele ai patti, davvero? Putin trangugia amaro, ma trangugia. "Se (l'aiuto americano,
ndr) lo chiedono i paesi dell'Asia Centrale, perché non dovrebbe potere la Georgia?".
Qui si coglie una punta di acrimonia, ma non molto di più. Il linguaggio è frenato, prudente. Il resto è constatazione di impotenza allo stato puro. Mosca non può offrire niente a Tbilisi. Washington arriva offrendo a una paese alla disperazione qualcosa come 64 milioni di dollari per equipaggiare e istruire quattro battaglioni di 300 uomini ciascuno. Cioè un piccolo esercito di 1200 uomini, al completo di armi leggere, veicoli, sistemi di comunicazione. In più Eduard Shevardnadze ha già in tasca la promessa di elicotteri, carri armati, blindati, artiglieria pesante di produzione americana. Col che la Georgia diventa un'appendice militare degli Stati Uniti, poiché tutti quegli armamenti saranno coniugati con consiglieri e istruttori militari americani, permanentemente stazionanti nel paese.
E solo un cieco può non vedere che molte di queste cose serviranno assai più contro l'esercito della
soi-disant repubblica di Abkhasia che non contro i ribelli islamici di Cecenia. Vladimir Putin non è un ingenuo, e neppure un cieco e, quindi, sa perfettamente tutto ciò. Ma pensa che gli convenga di più fingere di non essersene accorto. Che gli convenga davvero, o meno, è altra questione, alla quale dare risposta non è facile. Forse pensa che, per ora, è meglio lasciar fare agli americani, per incamerare una sconfitta definitiva della guerriglia cecena. Poi si vedrà, quando i tempi saranno migliori. Certo è che Mosca ha già subito una lunga serie di affronti e non è chiaro se sia afflitta da masochismo e se prepari una vendetta di lunga prospettiva.
Chi ha capito tutto, al volo, è Vladislav Ardzinba, il presidente di Sukhumi, che si è affrettato a chiedere a Mosca l'associazione dell'Abkhazia alla Federazione Russa. Creando sicuramente un vasto moto di consenso popolare, perché le spiagge di Sukhumi, regalate alla Georgia da Ghennadij Burbulis, tornerebbero di nuovo russe. Ma per Vladimir Putin dirgli di sì sarà pressoché impossibile, perché equivarrebbe a dichiarare guerra alla Georgia. Anche se dirgli di no rischia di essere una mossa oltremodo impopolare in Russia, specie tra i militari, ma non solo.
Eppure sarà questa la decisione. George Bush, infatti, non sarebbe contento di un comportamento così irrispettoso, anche se bisognerebbe prima spiegargli dov'è la Georgia, e che la Georgia di cui si parla è altra cosa rispetto alla Georgia repubblica della Confederazione. Così procede, per ora, la guerra asimmetrica dell'imperatore contro il terrorismo internazionale. Con questa caratteristica, che diventa sempre più evidente con il passare dei giorni e delle settimane: che, dopo ogni "vittoria" (anche se non è sempre del tutto chiaro cosa significhi vittoria, dopo quello che sta succedendo in Afghanistan), restano le basi militari americane e s'instaura una dipendenza politica diretta da Washington.
E' accaduto in Kosovo; sta accadendo nello Yemen, dove arrivano i consiglieri americani; sta accadendo nelle Filippine, dove l'esercito Usa è già in azione; sta accadendo discretamente in Sudan, dove la leadership locale pare preoccupata soprattutto di non dispiacere a Washington e si appresta a fare quanto le verrà dettato.
Adesso tocca alla Georgia, che non ha scelta. Semmai i georgiani dovrebbero finalmente cominciare a chiedersi se era questa l'indipendenza che volevano quando inneggiarono a Gamsakhurdia e lo elessero trionfalmente presidente. Ma chissà se a Tbilisi c'è ancora qualcuno che ha voglia di ricordarsi quella storia.
In ogni caso è una storia che a Washington non interessa. Ai vinti non si chiede permesso. La guerra globale richiede una presenza globale. L'imperatore non può fidarsi dei vassalli. Per questo deve mandare dovunque i suoi fedeli, a controllare la situazione.

Giulietto Chiesa – IL MANIFESTO – 09/03/2002

 

 

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