L'enigma Putin

CECENIA, L'INVENZIONE DI UNA GUERRA
Giulietto Chiesa  

È istruttivo rileggere oggi le pagine del Principe dedicate a "Quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato". I consigli del segretario fiorentino, in Russia, vanno presi alla lettera, anche se con 500 anni di ritardo. Perché la Russia è l'unico paese dove si applicano ancora le leggi della giungla, nella loro forma più primitiva e selvaggia. Nella sostanza, s'intende, perché in quanto a forma tutte le raffinatezze della manipolazione moderna sono già state sperimentate con successo. Tutte le tecnologie democratiche sono state applicate dopo avere tolto loro l''anima', il contenuto della democrazia.
Non che da noi, nell''Impero del Bene', non si faccia uso della forza, dell'inganno, della manipolazione. Ma una differenza c'è, ed è grande: deriva dalla storia delle nostre società; dall'esistenza, in esse, con diverse gradazioni, di quella che siamo ormai abituati a chiamare società civile, cioè dell'altra faccia dello stato di diritto. Ciò fa sì, da un lato, che il cittadino sia ancora tutelato da una rete di protezione assai complessa, fatta di istituzioni, magistratura, polizia, partiti, organizzazioni politiche, sindacali, corporative. Ciascuna di esse rappresenta, in condizioni di normale funzionamento, una barriera difensiva contro gli abusi del potere e degli apparati burocratici.
Dall'altro lato è la stessa società civile che costringe il potere a rispettare determinate regole. Per cui anche l'esercizio della forza - elemento essenziale e ineliminabile in qualunque rapporto tra interessi diversi - deve comunque avvenire nell'ambito di regole comunemente accettate. Perfino la manipolazione delle coscienze attraverso i media, variante moderna dell'uso della forza e dell'inganno, è soggetta a forme di controllo - più o meno efficaci - che provengono sia dalla società civile sia dai poteri dello stato.
Intendo dire che da noi, in Italia e in Europa, è difficile al giorno d'oggi immaginare qualcosa di simile ai metodi che cinque secoli fa Oliverotto Eufredducci utilizzò per diventare principe di Fermo, ammazzando in un giorno solo tutti i notabili della città dopo averli invitati con l'inganno a un banchetto. Machiavelli adduceva questo come esempio, per lui 'moderno', di come si può "per scelleratezza pervenire al principato". E su questa base ammaestrava, e metteva in guardia, con assoluto realismo, il suo Principe. "Non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria", scriveva.
L'ultimo anno dell'era Eltsin può essere ben letto in questo modo. In pochi mesi, tra l'8 agosto e il 31 dicembre, tra lo sconfinamento di Shamil Bassaev in Daghestan e le dimissioni 'volontarie' di Boris Eltsin, un uomo senza passato e senza meriti (e demeriti) è stato tratto dall'oscurità ed elevato alla guida del paese. In modo, per giunta, così irresistibile da rendere semplicemente ridicolo ogni tentativo di resistenza. In mezzo, tra quelle due date, c'è stata soltanto la guerra, e il terrore contro la popolazione civile russa.
Le stesse elezioni del 19 dicembre, per il rinnovo della Duma, hanno costituito una stupefacente, fantastica serie di sorprese. Un partito inesistente fino a settembre, Edinstvo, ha conquistato, senza alcun programma e senza alcun leader, quasi un quarto dei voti. Un altro partito come l'Unione delle forze di destra - che fino alla vigilia tutti ritenevano non in grado di superare il quorum - è stato premiato da un risultato che lo ha collocato al quarto posto nella Duma. Vladimir Zhirinovskij è riuscito a passare, sebbene nessuno fosse disposto a giocare un kopeco su di lui. E i due partiti di opposizione: Otecestvo-Vsia Rossija e Jabloko sono finiti molto al di sotto tanto delle aspettative quanto dei sondaggi di opinione, sebbene questi ultimi fossero, a loro volta, pesantemente manipolati. Solo i comunisti, finiti in testa come tutti si attendevano, sebbene senza avere fatto un solo spot televisivo, hanno preso più o meno i loro voti. Ma anche questo risultato costituisce una vittoria per il Cremlino.



Il tutto mentre era noto che il rating di Boris Eltsin, della sua 'Famiglia', e del Cremlino, era alla fine della primavera vicinissimo allo zero. Adesso sappiamo che i miracoli sono possibili, perché tutto ciò è avvenuto contro ogni logica, contro tutti i dati della realtà. Naturalmente si può credere nei miracoli, ma di regola gli analisti cercano spiegazioni più realistiche.
Una di queste potrebbe essere, semplicemente, che i russi hanno deciso, improvvisamente, in massa, di desiderare la mano forte, l'ordine, contro l'anarchia, la corruzione, la democrazia. Non si può escludere una spiegazione di questo tipo. Ma, come abbiamo visto, è impossibile collocare tra gli eventi naturali una così improvvisa, così rapida svolta. Certo, una vera e propria ondata di sentimenti antioccidentali si era fatta strada tra ampi settori d'opinione pubblica russa. La guerra di Jugoslavia rappresentò un tornante effettivamente importante, per far precipitare una reazione di risentimento diretta al tempo stesso contro l'Occidente ingannatore, contro i democratici che fecero da cavalli di Troia per reclamizzarlo in Russia, e naturalmente contro il Cremlino e Eltsin in persona, esposto più di tutti negli abbracci con l''amico' Bill. Dunque, anche sotto questo profilo, appare tutt'altro che ovvia la conclusione che i russi si siano convinti della necessità di un dittatore. Tanto meno che quel dittatore fosse necessariamente l'uomo - colmo di improntitudine - proposto come suo erede da Eltsin, cioè dal responsabile (da tutti riconosciuto, come provava la totale disistima di cui era circondato) di tutte le loro sventure e delusioni. Bisogna davvero avere un'opinione molto sprezzante dei russi per ritenerli in massa così sciocchi.
Eppure, per poter spiegare una tale svolta nel pubblico sentire come 'spontanea', occorreva proprio far passare - e in anticipo - l'idea che i russi questo volevano. I commentatori un tempo democratici si affannavano a spiegare che si era di fronte a un dato, sgradevole quanto si vuole, ma un dato reale, contro il quale nulla si poteva fare. La legge della democrazia, scrivevano gli apologeti del Cremlino, impone di tenere conto della volontà del popolo, anche quando essa non piace. Ed ecco moltiplicarsi i sondaggi d'opinione che, settimana dopo settimana, vedevano salire i rating del "premier della guerra", Vladimir Putin. Ed ecco moltiplicarsi le analisi degli stessi commentatori del Cremlino che spiegavano la logica inesorabile della svolta. Putin rappresenta la rivincita della Russia, scrivevano coloro che avevano inneggiato negli anni precedenti alla svendita della Russia. Tutti i democratici, con qualche sfumatura di differenza tra loro, divennero propagandisti della guerra.
Gli ideatori della manipolazione hanno potuto giovarsi della complicità attiva, consapevole e semi-consapevole, di una parte cospicua delle élites criminali, 'compradore' e opportuniste costruite dal regime eltsiniano. Piccole numericamente, ma potentissime: per le proprietà e il denaro di cui dispongono, e per i gangli del potere statale che occupano. Il risultato è che uno sconosciuto, una "scatola nera" come qualcuno l'ha chiamato, guiderà la Russia nei prossimi anni, abbastanza a lungo data la sua giovane età. Difficile dire come guiderà la Russia e dove la porterà, appunto perché non sappiamo nulla di lui. E quello che sappiamo delle tappe precedenti della sua carriera conferma semplicemente che Vladimir Putin è un signor Nessuno, che non si è mai distinto in nulla, né in un senso né nell'altro. È un dato importante, che spiega perché proprio lui è stato 'scelto'.
Allo stato degli atti si può dire che il regime eltsiniano è riuscito a garantirsi una continuità senza traumi. Il presidente Eltsin è stato 'convinto' a dimettersi in anticipo solo quando la 'Famiglia' si è sentita sufficientemente sicura di avere in tasca il risultato. La 'vittoria' elettorale del 19 dicembre, ottenuta in violazione di tutte le norme della decenza democratica, è comunque servita a legittimare questa svolta. Essa non sarebbe stata nemmeno lontanamente pensabile senza la seconda guerra di Cecenia e senza i sanguinosi attentati terroristici che, su quella base, furono scatenati non si sa da chi contro le città russe.
Dunque la guerra, con il condimento sanguinoso del terrorismo contro gli inermi, è stata indispensabile alla 'vittoria'. Forse si è trattato di una coincidenza. Ma se è stato così, si deve dire che è stata una coincidenza davvero fantastica. Forse non è stata una coincidenza, e allora bisogna tenersi forte, perché gente che si spinge fino a questi lidi è capace di compiere ogni crimine, perfino quelli che l'uomo comune non è in grado nemmeno di immaginare. Io non pretendo di dimostrare che il potere del Cremlino è direttamente responsabile del terrorismo che ha insanguinato le città russe nel settembre 1999. In realtà è impresa impossibile, o molto improbabile, poiché elemento classico delle 'strategie della tensione' è l'altissimo grado di inquinamento delle tracce. Se poi accade che qualcuno si avvicini alla verità, è sempre possibile impaurire l'incauto fino a farlo desistere, o eliminarlo fisicamente, ove si riveli troppo testardo.



Inoltre le 'strategie della tensione', tutte volte a terrorizzare l''uomo della strada', hanno in comune un dato: il 'colpevole' è sempre confezionato in anticipo, già pronto per essere additato alla pubblica esecrazione. Infatti, a queste strategie non è sufficiente provocare un'indignazione e una paura diffusa tra la gente comune. Occorre subito un 'colpevole', la cui scoperta e indicazione induca a convogliare nei suoi confronti l'odio popolare.
Nel caso specifico il 'colpevole' fu subito immediatamente indicato: i terroristi ceceni. Con sorprendente rapidità. Anche perché tutto era stato preparato con largo anticipo. Si può dimostrare? Allo stato degli atti a una certa dimostrazione non si può ancora giungere. Ma basta la semplice cronologia degli eventi, integrata dalle testimonianze inequivocabili e dai silenzi molto eloquenti, per giungere sulla soglia d'inquietanti conclusioni istruttorie. Conclusioni che un qualunque organismo inquirente di un qualunque paese democratico considererebbe sufficienti per l'apertura di un procedimento penale contro i sospetti responsabili. In Russia non avverrà, naturalmente.
Certo è che le coincidenze si moltiplicano. Per esempio la storia del viaggio sulla Costa Azzurra di Aleksandr Voloscin, capo dell'amministrazione presidenziale. Le prime indiscrezioni in merito emersero sul settimanale Versija, poi su Novaja Gazeta, poi ancora sul londinese The Independent e sul settimanale russo Profil. Illazioni gravi, poiché vi si diceva che Voloshin si era recato laggiù niente meno che per incontrare, in regime di eccezionale segretezza, il terrorista ceceno Shamil Bassaev. Eppure ne seguirono solo rapide e neghittose smentite. Ma la gravità delle accuse era tale che chiunque fosse interessato al proprio buon nome avrebbe sentito il bisogno di vedere puniti dal giudice gli autori di tanta e sanguinosa calunnia. Invece silenzio di tomba.
Dove sarebbe avvenuto l'incontro? Nella ricostruzione, piuttosto accurata, fattane da Boris Kagarlitskij su Novaja Gazeta (n.3, 24-30 gennaio 2000), alla quale fece seguito un identico, totale silenzio del Cremlino, si dice che esso avvenne nella villa del miliardario arabo Adnan Kashogghi.
Ma di quali giorni si tratta? Si sa soltanto - e questi dati Boris Kagarlitskij li ha avuti, con ogni evidenza, da una gola profonda di uno dei servizi segreti russi - che Voloscin atterrò nell'aeroporto di Nizza, con regolare passaporto diplomatico, indicando il suo vero nome. E ripartì tre giorni dopo verso Mosca, con lo stesso aereo privato che lo aveva atteso in quell'aeroporto. Per quanto concerne le date, si può dire con certezza che esse si collocano poco dopo il 23 giugno 1999, o all'inizio di luglio. Perché uno degli organizzatori dello storico incontro, il signor Anton Surikov, risulta essere atterrato a Parigi appunto il 23 giugno, e risulta essere ripartito alla volta di Mosca, da Nizza, il 21 luglio.
Chi sia Surikov al momento attuale, fino a che rimarrà in vita, è questione complessa. Che sia stato un agente del Gru (Glavnoe Rasvedivatelnoe Upravlenie, il servizio segreto militare) risulta da tempo. Fu lui a organizzare il trasferimento di Shamil Bassaev e di suo fratello Shirvani in Abkhazia, nel 1992, quando l'Abkhazia comincia la sua guerra d'indipendenza contro la Georgia. Il percorso fu descritto minuziosamente su Versija (1-7 febbraio 2000, articolo di Piotr Prianishnikov): Surikov, ufficiale del Gru, sotto falso nome, organizza l'arrivo di Shamil e Shirvani a Mineralnye Vody, con un gruppo d'armati. Qui ci sono due elicotteri pronti per essere 'catturati'. Shamil diventerà addirittura vice-ministro della difesa di Abkhazia, mentre Surikov sarà consigliere del ministro della difesa per operazioni di intelligence e di diversione. La collaborazione tra Surikov e Bassaev risale almeno a quella data.
Ecco dunque spiegato cosa c'entra Surikov in questa storia. E, nello stesso tempo, ecco la dimostrazione, incontrovertibile, che Shamil Bassaev ha collaborato con i servizi segreti militari russi. E, se lo ha fatto nel 1992-1993, non si può affatto escludere che lo abbia fatto nel 1994, nel 1996 e nel 1999. Come Shamil Bassaev sia arrivato nei pressi di Nizza, fino alla villa di Kashogghi, non è stato ancora rivelato. Bassaev sarebbe arrivato in Costa Azzurra a bordo di uno yacht, in compagnia di due persone. Tutti e tre dotati di passaporto turco. Ma non c'è registrazione, in Francia, del loro arrivo.
Non si dimentichi il contesto politico in cui tutto ciò avviene: in Occidente cominciano a scoppiare, uno dietro l'altro, scandali che concernono la 'Famiglia' Eltsin. Il discredito del vertice russo è divenuto totale, all'interno e all'estero. Adesso noi sappiamo - perché lo ha rivelato l'allora ministro dell'interno (poi divenuto premier) Serghej Stepascin - che un'invasione russa della Cecenia era stata progettata fin da marzo. Io stesso ebbi informazioni circa la preparazione di un'ondata terroristica in Russia che avrebbe avuto l'obiettivo di far saltare le elezioni. E ne scrissi, con qualche prudenza, un commento di messa in guardia che apparve sulla "Literaturnaja Gazeta" alla metà di giugno del 1999, sotto il titolo, Terroristy tozhe raznye (Anche i terroristi sono diversi tra loro). Scrivevo dunque, sulla Literaturnaja Gazeta: "Sarà utile non dimenticare tutto ciò in un momento in cui la strategia del terrore si manifesta con sempre maggiore frequenza in Russia e nei paesi dell'ex Urss. Si può dire, con alto livello di probabilità, che esplosioni di bombe che uccidono persone innocenti sono sempre pianificate da intelletti politici. Costoro non sono fanatici. Sono assassini che perseguono obiettivi politici. Occorre dare un'occhiata all'intorno e cercare di capire chi è interessato alla destabilizzazione della situazione politica del paese. Possono essere forze straniere (magari dai paesi del 'vicino estero', per esempio del Caucaso), ma possono anche essere i 'nostri', che cercano di impaurire il paese, prima che qualcuno arrivi a chiedere conto a loro di ciò che hanno fatto in precedenza". Ma non fu l'unico articolo che scrissi su quel tema.
Sul numero di luglio del mensile italiano 30 giorni (direttore Giulio Andreotti), descrivendo dettagliatamente gli scenari potenziali, scrissi che "un terzo modo [per liquidare Luzhkov] potrà essere l'avvio di una strategia della tensione, che crei una situazione di grave instabilità dell'ordine pubblico nella capitale. Disordine, paura, difficoltà economiche, sono tutti ingredienti a doppio taglio per il Cremlino, ma utili comunque a tenere aperti altri scenari, niente affatto costituzionali, che potrebbero rivelarsi necessari, in caso non funzionassero quelli 'costituzionali'".
Tornai ancora sull'argomento qualche giorno dopo in un'intervista al giornale Russkij Ekspress. L'intervista fu pubblicata solo a metà dicembre, ma conservo il testo che il giornalista Stanislav Jushkin mi mandò via fax il 21 luglio. Alla domanda "Potranno cambiare la situazione del paese le future elezioni parlamentari e presidenziali?", rispondevo testualmente: "In primo luogo penso che le elezioni potrebbero semplicemente non esserci. E, in secondo luogo, che l'entourage di Eltsin, la ''Famiglia'', farà tutto ciò che è nelle sue possibilità per non perdere il potere. Già ora sono stati messi in opera alcuni scenari, sia per evitare le elezioni, sia per concluderle con un esito vittorioso. Un altro modo: la Cecenia. È sufficiente accendere il televisore. È già in funzione una strategia della tensione. In Italia noi queste cose le conosciamo bene. A ottobre-novembre saranno sufficienti una o due esplosioni nel metro...".
Analoghe indiscrezioni furono raccolte da Jan Blomgren, corrispondente moscovita di Svenska Dagbladet, che riferì sul suo giornale - il 6 giugno 1999 - come in ambienti vicini al Cremlino si stesse esaminando l'eventualità di "esplosioni terroristiche a Mosca, la cui responsabilità potesse essere scaricata sui ceceni". Ciò avveniva quattro mesi prima della prima bomba a Mosca. Successivamente Blomgren raccontò al collega dell'Independent che le sue fonti "erano a conoscenza di discussioni al livello dell'élite politica" russa. Chi scrive queste righe ottenne analoghe indiscrezioni da persone che erano presenti e ascoltarono di persona la formulazione di alcune di queste ipotesi. In una cena, collocata nella dacia di un alto oligarca, alla presenza di un pubblico molto ristretto, attorno all'inizio di marzo del 1999, il padrone di casa avrebbe pronunciato un brindisi di questo genere: "Fino a qualche tempo fa pensavo che, se le cose si fossero messe male per noi in Russia, avrei potuto prendere il mio aereo e andare in qualche paese amico a godermi in pace il resto della mia vita, con la mia famiglia, i miei figli, i miei amici. Adesso comincio a pensare che non sarà così facile. C'è gente, in Occidente, che lavora con Skuratov [l'ex Procuratore Generale di Russia] e con Jurij Mikhailovic [Luzhkov, sindaco di Mosca] per chiuderci ogni via d'uscita. Ma se è così, cari amici, non abbiamo che una scelta da compiere: prendiamoci la Russia. Tutta e a lungo. Sarà la Russia la nostra isola di salvezza".
Il lettore, certamente e con ragione stupito, potrebbe ritenere improbabile tanta brutale franchezza. Eppure essa ha costituito la norma nel regime eltsiniano e, a ben vedere, essa è leggibile in trasparenza nell'assoluta brutalità degli atti del potere del Cremlino. Il ricordo di Niccolò Machiavelli non è affatto casuale. Quella sera, o in altre sere analoghe, magari senza brindisi, qualcuno di coloro che avevano tutto da perdere è sicuramente giunto alla stessa folgorante conclusione del segretario fiorentino: "La natura de' popoli è varia; et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa fare loro credere per forza" (Il Principe, Cap.VI: De' principati nuovi che s'acquistano con l'arme proprie e virtuosamente).
Che cosa si dissero Voloshin e Bassaev? Sappiamo solo che la ricostruzione di Kagarlitskij combacia perfettamente sia con gli eventi che si snodarono successivamente, sia con le registrazioni dei colloqui telefonici tra Berezovskij e alcuni dei capi ceceni. Voloshin e Bassaev avrebbero concordato dunque l'attacco contro il Daghestan. Al Cremlino ciò sarebbe servito per avviare una guerra limitata e vittoriosa, che si sarebbe fermata sulla riva nord del fiume Terek. Che avrebbe escluso bombardamenti pesanti, ritorsioni di vasta portata, l'assalto a Groznij. A Bassaev, le cui fortune in Cecenia erano declinanti, avrebbe permesso di destituire Maskhadov, accusato di debolezza verso i russi.
Gli sviluppi sono noti: l'8 agosto Bassaev sconfina in Daghestan per una provocazione troppo evidente per essere credibile. Tutti gli osservatori capiscono che l'obiettivo non può essere quello di conquistare il Daghestan: non esistono le condizioni minime per un tal esito. Dunque lo scopo è un altro. Comincia l'avanzata russa. A Bassaev viene dato modo di sganciarsi senza perdite. Praticamente per tre mesi l'esercito guerrigliero del collaboratore del Gru, che ad agosto era apparso tanto tracotante da debordare fuori dei confini ceceni, si ritira in buon ordine praticamente senza combattere.
Ma intanto a Mosca succede tutto ciò che doveva succedere. Stepascin, primo ministro troppo tiepido, è sostituito fulmineamente da Vladimir Putin. Kagarlitskij descrive la lotta di corridoio che si sarebbe svolta tra due gruppi della 'Famiglia'. Il primo, facente capo a Berezovskij, con Voloscin, la figlia di Eltsin Tatjana, Shamil Bassaev. Il secondo, facente capo a Anatolij Ciubais, con il capo di stato maggiore dell'esercito, generale Kvashnin e l'astro nascente Roman Abramovic. Entrambi i gruppi erano stati alleati nel disegno di vincere a tutti i costi, cioè di "impadronirsi della Russia", come si era espresso l'oligarca nel brindisi citato. Entrambi avevano preparato gli scenari occorrenti per sbarrare il passo a Evghenij Primakov e a Jurij Luzhkov. Ma avevano idee molto diverse su chi elevare al soglio imperiale dopo avere messo da parte Boris Eltsin, ormai inservibile anche per l'Occidente.
Berezovskij aveva un candidato: Aleksandr Lebed. Tutta Mosca ne era a conoscenza, anche perché Boris Abramovic lo aveva detto a destra e a manca. Tolto di mezzo il tenero Stepascin, era Lebed a dover diventare il generale vincitore della guerra. Gioco d'azzardo, s'intende, perché nessuno di loro era in grado di giurare sulla futura lealtà di Aleksandr Lebed. Ma Berezovskij e Voloscin erano convinti di poterlo tenere al guinzaglio. Del resto chi altri? Nessuno di questi signori, di entrambe le fazioni, potrebbe presentarsi di fronte agli elettori russi. Il loro discredito era ed è talmente grande da escludere ogni ipotesi di questo tipo. Berezovskij riteneva che sarebbe stato loro necessario dotarsi di un presidente con carisma popolare. L'ex segretario del Consiglio di sicurezza era l'uomo adatto. Con Lebed sarebbe bastata una guerra breve e vittoriosa, seguita da un'intesa politica, da firmare nella primavera del 2000. Il carisma avrebbe fatto il resto.
Ma Anatolij Ciubais la pensava diversamente. In primo luogo riteneva che Lebed non costituisse alcuna garanzia per gli oligarchi e per la 'Famiglia'. In secondo luogo Lebed era troppo vicino a Berezovskij. In caso di repulisti moralizzatore il primo a essere colpito avrebbe potuto essere proprio Ciubais. Ma chi contrapporre a Lebed come possibile premier e poi facente funzione di presidente? Ciubais scelse Putin. Sconosciuto, senza carisma. Ma, appunto per questo, molto meglio maneggiabile in futuro. Per vincere le elezioni di dicembre e poi quelle presidenziali si sarebbe dovuto creargli dal nulla, cucirgli addosso, un carisma. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria non una piccola guerra di Cecenia, bensì una grande, definitiva vittoria; una sanguinosa riconquista della Cecenia. In tal modo guadagnando anche il plauso dei vertici militari e aprendo la strada per un elevamento di Kvashnin al posto di ministro della difesa. Per fare questo sarebbe stato necessario anche, forse, terrorizzare i russi, portarli all'odio, far loro perdere la ragione e l'accortezza.
Si sarebbe visto, in corso d'opera, se tutto funzionava a dovere. Se i russi cascavano nella trappola loro preparata, le elezioni sarebbero state vinte. Se invece i rating di Putin non fossero saliti a sufficienza, allora la guerra, il terrorismo incombente, avrebbero permesso l'altra variante: il rinvio delle elezioni. Ovvero altre soluzioni che erano tutte, contemporaneamente, in via di realizzazione. Per esempio l'accelerazione dell'unione tra Russia e Bielorussia, che avrebbe consentito di dare veste giuridica decente a un rinvio delle elezioni in Russia.
Per quanto concerne la paternità delle bombe terroristiche, s'è già detto che le stranezze sono tante ma che tutto potrebbe, semplicemente essere frutto di coincidenze. Nella ricostruzione di Kagarlitskij si afferma che l'esecutore sarebbe stato un gruppo guidato dal fratello di Shamil, Shirvanì Bassaev, ovviamente manipolato e aiutato da spezzoni di qualche servizio segreto, probabilmente il Gru. Ma non c'è prova di ciò. Eppure, come scriveva sul Washington Times (29 ottobre 1999) David Satter, senior fellow dello Hudson Institute e visiting scholar della Scuola di studi internazionali avanzati (Sais) della Johns Hopkins University: "via via che l'investigazione procede, la possibilità che le esplosioni siano state pianificate da elementi della leadership russa diventa più plausibile, non solo perché esse sono state così politicamente vantaggiose, ma anche perché la versione ufficiale - che esse siano state esclusivamente opera dei terroristi ceceni - perde di ogni senso giorno dopo giorno".
Il professore americano è solo uno delle decine di osservatori che hanno preso in esame le versioni e informazioni disponibili, giungendo alle stesse conclusioni. Gli argomenti che fanno come minimo sospettare una pianificazione politica sono numerosi. Tutte le esplosioni hanno la stessa firma tecnica e la stessa fattura. In tutti i casi, di Mosca, di Buinaksk e di Volgodonsk, l'esplosivo fu exogene, usato dai russi nelle nuove generazioni di proiettili d'artiglieria. Tutte le esplosioni avvengono di notte per uccidere quante più persone è possibile.
La dinamica degli eventi dice che i terroristi dovrebbero avere organizzato non quattro ma nove esplosioni (infatti, le autorità russe dichiararono di averne scongiurato altre cinque), in città diverse e lontane, nello spazio di due settimane. Tutto ciò è impossibile senza la partecipazione di tecnici d'altissima qualificazione. Non è opera di fanatici improvvisati. Questi esperti non sono molti. Al contrario sono molto pochi e sono tutti conosciuti.
Inoltre gli investigatori hanno detto che ogni bomba conteneva da 200 a 300 chili di exogene. Si deve supporre che i terroristi sono riusciti a trafugare almeno 2250 chili di esplosivo da una delle fabbriche russe più sorvegliate. Infatti l'exogene si produce in Russia soltanto nella fabbrica di Perm, negli Urali. Dunque saremmo di fronte a una situazione in cui tonnellate e tonnellate di esplosivo spariscono da una fabbrica top secret e girano per tutta la Russia senza che nessuno se n'accorga, mentre la guerra è in corso.
Infine (ma l'elenco delle contestazioni potrebbe essere molto più lungo) l'esplosivo risulta essere stato piazzato in modo altamente professionale, sulle strutture portanti degli edifici, in modo da farli crollare come castelli di carta. A parte la competenza tecnica, che di nuovo emerge in primo piano, non è possibile non concludere che un lavoro del genere richiede tempo. Impossibile minare un edificio, in quel modo, in poche ore. Occorrono giorni e giorni, occorrono sistemi di vigilanza molto accurati per evitare di essere notati. E così via.



E tutto ciò sempre non tenendo conto che qualche rivelazione è già uscita. A gennaio del 2000, durante l'offensiva contro Groznij, di nuovo il giornale britannico The Independent pubblicò la confessione di un ufficiale del Gru, Aleksej Galtin, secondo la quale il servizio segreto militare russo sarebbe stato implicato nelle esplosioni terroristiche. Galtin fece queste rivelazioni dopo essere stato 'catturato' dai ceceni. E subito il portavoce del Gru, a Mosca, replicò che si trattava di "falsità e sciocchezze". Tanto più 'evidenti' se si teneva conto che l'ufficiale era in condizioni di prigionia, forse di tortura, certo sotto minaccia. Ma il Gru non smentì che Galtin fosse un proprio ufficiale. E non spiegò come mai fosse capitato nelle mani dei ceceni. Boris Kagarlitskij rileva, molto appropriatamente, che non è cosa di tutti i giorni che un ufficiale, per giunta non certo di secondaria importanza, si trovasse così vicino alla zona operativa. Tanto vicino da essere identificato come depositario di informazioni, e catturato. E se s'immaginasse che Galtin sia diventato merce utile ai fratelli Bassaev nel momento in cui essi capirono di essere stati giocati dal Cremlino? O, meglio, dalla frazione del Cremlino che prese il comando delle operazioni?
Adesso, mentre scrivo queste righe conclusive, a mesi di distanza da quelle esplosioni, non si sa più nulla dell'investigazione. Dopo i primi arresti di ceceni trovati nelle strade di Mosca nulla è più trapelato. Non si sa nemmeno se la magistratura di Perm ha aperto un'inchiesta nei confronti delle autorità della fabbrica di exogene. Tutto tace. Eppure sono morte quasi trecento persone, donne, bambini. Sbalorditivo.
Così lo scenario previsto nella villa della Costa Azzurra - spiega Boris Kagarlitskij - prese un altro corso. E, a giudicare dai rating di Vladimir Putin, si rivelò vincente. Poi vennero le dimissioni anticipate di Boris Eltsin, il 31 dicembre 1999. Mossa abile come le precedenti, il cui scopo era di incamerare il più presto possibile il bottino, cioè la Russia intera, prima che qualche sgradevole sorpresa potesse sopraggiungere a guastare la festa.
In tutta quest'operazione Vladimir Putin è stato più oggetto che soggetto, anche se s'è visto che egli non arretra di fronte a nulla. Ha condiviso tutte le mosse dei suoi mentori, le ha assecondate, vi ha apposto la sua firma. Ma non è stato lui a scegliersi, è stato 'scelto'.
Nominato zar, eletto prima ancora che le elezioni si svolgano, acquisisce automaticamente la possibilità di diventare un giocatore autonomo. Forse non subito, forse questa possibilità gli sarà tolta, con le armi del ricatto, di materiali compromettenti che lo riguardano. Ma essa esiste e non si può escludere che Vladimir Putin possa a un certo punto decidere di non avere più bisogno di mentori e suggeritori. Essi dovranno ricordare un altro dei consigli di Machiavelli che, nell'ansia di conservare il potere, hanno certamente dimenticato. Quella "regola generale, la quale mai o raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente, ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l'una e l'altra di queste due è sospetta a chi è divenuto potente" (Il Principe, Cap.II: De' principati misti).



Sarà lui a indossare quell'armatura possente che Boris Eltsin si fece cucire addosso dai 'democratici' che scrissero la Costituzione. Colpirlo, una volta che l'abbia indossata, sarà molto difficile e pericoloso.
Nei primi gesti e dichiarazioni 'programmatiche' che egli ha pronunciato, e che non odorano di demagogia e propaganda, s'intravede l'intenzione di fermare lo sfacelo della Russia. Per capire dove vuole andare e dove può andare la prima cosa sarà esaminare la sua politica verso le 'autonomie'. Se proseguirà la linea di Eltsin e della 'Famiglia' egli sarà semplicemente il notaio della fine della Russia. Se, al contrario, vorrà invertire la deriva - di cui i suoi mentori sono stati artefici - dovrà scontrarsi con loro. E dovrà aprire una fase di forte tensione tra centro, da una parte, e repubbliche e regioni dall'altra. Passo estremamente difficile, perché Putin, per giungere dov'è, ha dovuto mettersi d'accordo con le spinte centrifughe, cioè imboccare la stessa strada che fu di Eltsin. Il partito Edinstvo (Unità), che lo ha accompagnato al soglio reale, è la summa dei signori feudali. Non cedergli significherà usare la mano forte nei loro confronti.
La seconda cartina di tornasole sarà data dalla sua politica verso l'Occidente e gli Stati Uniti in particolare. Si può già prevedere - i segnali sono molti - che l'Occidente gli concederà credito e denaro. Al tempo stesso premerà su di lui da molte direzioni e in molti sensi. Ad esempio allargherà la Nato verso est. Ad esempio porterà avanti il progetto dello scudo stellare versione Clinton. E si deve aggiungere che la globalizzazione americana, con la sua forza fagocitatrice, assedierà una Russia sempre più debole, sempre più recalcitrante e incline a chiudersi in se stessa. Putin non potrà dimenticare che egli è salito al trono sull'onda di un risentimento popolare anti-occidentale. Esso è stato manipolato con astuzia, dirottato e nuovamente disinnescato. Ma esiste e non sarà facile tenere in piedi l'inganno.
Dunque il nuovo zar-presidente, con o senza la 'Famiglia', si troverà a dover scegliere tra una serie sgradevole di ritirate tattiche e la tentazione (o la necessità) di scavare qualche trincea e, da quella, escogitare qualche ringhiosa controffensiva. Oggi è impossibile prevedere quali saranno le varianti. Anche perché, con ogni probabilità, egli stesso non sa quali e come gli si presenteranno dinnanzi. Ma fin d'ora si può dire che il voto di dicembre, per quello che vale (e abbiamo visto che vale meno di quanto ci abbiano fatto credere), dice che gli elettori hanno scelto un leader che cancelli le umiliazioni (o quelle che sono state vissute come tali) subite negli anni eltsiniani. Se i russi scopriranno di averne acquisito uno che ne accumula altre, e altre ancora, sarà necessario stringere il cappio attorno al loro collo. Putin sarà costretto a usare la mano forte contro i russi per venire a patti con l'Occidente. E la disgregazione della Russia continuerà a procedere.
La terza cartina di tornasole sarà quella della politica 'istituzionale'. Vorrà, Vladimir Putin, conservare così com'è l'attuale Costituzione? Regnare come uno zar giovane, continuare a calpestare le norme elementari dello stato di diritto, impedire la creazione di un sistema realmente pluralistico, con un'effettiva divisione di poteri autonomi e controbilanciantisi? Certo è che la tentazione, o la necessità (vedi anche le altre due cartine di tornasole), lo spingeranno a usare di tutti i poteri di cui dispone. Anche nell'ipotesi che egli nasconda in sé l'idea di indossare i panni del riformatore illuminato e del modernizzatore in senso occidentale della società russa.
Insomma l'esito più probabile è quello autoritario in tutti e tre i casi. D'altro canto, se Putin vorrà assumere la veste del difensore degl'interessi nazionali russi, dovrà comunque prendere le distanze dal regime da cui è nato. Tutto ciò è nell'ordine delle cose che si possono prevedere ragionevolmente. Molte altre possono accadere, che divergano da queste anche radicalmente. Ma è difficile prevedere varianti più gradevoli, ottimistiche, tali da suscitare speranze. La Russia resterà gravida di altre crisi e tragedie.
Ho scritto nel mio capitolo conclusivo di Roulette Russa come la seconda guerra di Cecenia è nata, e perché. Che la guerra non finirà con una vittoria russa, io sono certo. L'ho visto in Cecenia, a Groznij rasa al suolo e nei villaggi che ancora sono rimasti intatti. Nella più semplice delle ipotesi ci sarà una tregua, in cui la guerriglia si riorganizzerà. Ma solo per riprendere i combattimenti in forma partigiana. I russi metteranno sul terreno da 30 a 50.000 uomini per presidiare la Cecenia 'conquistata'; costruiranno caserme e casematte; instaureranno amministrazioni fasulle per gestire il territorio. Ma in tal modo non faranno che moltiplicare gli obiettivi su cui i ceceni spareranno.
Lo stillicidio dei morti sarà continuo. Nel Caucaso - dice un antico proverbio - il sangue scorre rapidamente, ma non si asciuga mai. Quello che i russi hanno fatto nelle due guerre cecene, con Eltsin al potere, non sarà mai più dimenticato. Sperare in una pacificazione che significhi un ritorno puro e semplice della Cecenia in seno alla Repubblica Russa è pura illusione.
Lo è anche sotto il profilo delle considerazioni economiche e geopolitiche. Anche se i russi riuscissero a sterminare fisicamente tutti i capi della guerriglia, si deve tenere presente che la Cecenia è centro focale di colossali interessi geopolitici esterni alla Russia, sui quali il Cremlino poco o nulla potrà fare. Turchia, Arabia Saudita, Afghanistan, Azerbagian, Georgia, ciascuno per conto proprio, forti e deboli, hanno interesse a indebolire la Russia nella regione. Gli Stati Uniti hanno già dimostrato che perseguono lo stesso obiettivo e che intendono estromettere la Russia dal grande giro del petrolio del Caspio.
Dunque è evidente che grandi denari e mezzi verranno indirizzati ad alimentare la guerra, in Cecenia e nel Caucaso del Nord. Quindi sperare nella fine delle ostilità è in ogni caso vano. Centinaia di migliaia di giovani musulmani del Caucaso non hanno di che lavorare e vivere. Uno stipendio di guerra, per fare la guerra, è una soluzione immediata e facile, purché ci sia chi paga. L'odio antirusso è il combustibile più diffuso in tutta l'area. Mosca non è in grado di offrire nulla in cambio, né pace, né benessere. Dunque è facile tirare le conclusioni.
Occorrerebbe a Mosca un gruppo dirigente di adeguata larghezza di vedute, per cambiare il corso delle cose e avviare un processo di pace. Non è necessario riconoscere la perdita della Cecenia, per sempre. Ma è indispensabile riconoscere che per ora la Cecenia è perduta e avviare un processo in senso inverso, che richiederà comunque decenni e una preliminare dichiarazione di pentimento da parte del potere statale russo.
Invece accade il contrario. A Mosca prevale l'idea della riconquista a ogni costo. Terribilmente grave e pericolosa, non solo perché si tratta di un obiettivo impossibile da perseguire. Il fatto è che chi siederà al Cremlino dovrà dimostrare che, al contrario, l'obiettivo è perseguibile ed è anzi stato già raggiunto. Lo dimostrano le continue dichiarazioni che la guerra è finita, che i ribelli sono stati annientati ecc., quando è evidente a tutti che la guerra continua e che, anzi, le perdite russe diventano sempre più gravi. Il che significa una progressiva utilizzazione della guerra a fini interni, una ri-militarizzazione della società russa, una riduzione delle libertà democratiche, il ripristino di un sistema di pubbliche menzogne come alimento costante della politica. La quale a sua volta diventerà - sta già diventando mentre scrivo queste righe - demagogia sistematica.
Resta da dire solo che l'Occidente sta mostrando ancora una volta il peggio di sé. Si susseguono le visite a Mosca dei leader occidentali: dal segretario della Nato a Mr. Blair, a Strobe Talbott. Tutti a dire, come ha già fatto Bill Clinton, che Putin è uno con cui si può discutere. Nessuno di loro è in grado di tenere fede ai principi che furono proclamati al tempo della guerra jugoslava. La vicinanza temporale rende talmente stridente questo comportamento da screditare totalmente le leadership occidentali agli occhi della residua parte di opinione pubblica democratica che ancora resiste in Russia all'ondata demagogica e patriottica.
Si crea una situazione assolutamente paradossale: l'Occidente, con il suo atteggiamento, incoraggia le peggiori pulsioni della Russia (quelle di cui ha paura) e demolisce la residue speranze democratiche (sulle quali potrebbe fondare un migliore rapporto con la Russia). Operazione comunque in perdita, perché quei settori popolari, oggi apparentemente maggioritari, che appoggiano il Cremlino, sono comunque anti-occidentali e non diventeranno amici dell'Occidente, a meno che quest'ultimo assicuri loro benessere e pace. Il che, con questa linea, è impossibile.
Il Cremlino, nella sua probabile fisionomia post-elezioni, sarà effettivamente disposto a venire a patti, essendo niente più e niente meno che la prosecuzione del regime eltsiniano. Ma come risultato finale l'Occidente si troverà ad avere stabilito un contratto di collaborazione con una microscopica testa di corrotti e demagoghi che, in ogni caso, non hanno alcun reale consenso nel corpo del paese, che non sia quello basato su un feroce odio contro l'Occidente.
Alleati di questo tipo sono sempre, inesorabilmente, compromettenti e deboli. Questa non è una politica realistica: è un'inutile rinuncia a tutti i principi democratici, a una vera difesa dei diritti umani, senza alcun reale chiarimento della situazione nel medio e lungo periodo.
L'effetto prevedibile è un ulteriore indebolimento della Russia in quanto stato unitario. Le tendenze centrifughe si accentueranno. L'Occidente sta dunque preparando la strada a uno sfacelo di proporzioni bicontinentali. I cui effetti sono destinati a ricadere in primo luogo sull'Europa. E a modificare l'intero equilibrio eurasiatico. Stiamo insomma contribuendo, per miopia e cinismo, a preparare un colossale disastro per il XXI secolo.

 

 

 

 

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