Genova per me "G8/Genova"

di Giulietto Chiesa,

da oggi in libreria per Einaudi. Il racconto limpido e teso di un inviato speciale nel luglio genovese. Diario di un testimone oculare che non si ferma davanti alle versioni ufficiali dei fatti BENEDETTO VECCHI E' scritto con la maestria che solo un inviato d'altri tempi può avere. Una scrittura avvolgente che introduce sapientemente il lettore a un fatto che ha cambiato la vita non solo di chi lo ha vissuto, ma anche di chi ora lo "racconta" in presa diretta. Ogni articolo o reportage di Giulietto Chiesa è così, in particolar modo quando il suo "pezzo" svela retroscena ignoti ai più, o quando per spiegare un fatto ne mette in evidenza le radici storiche. Anche questo instant-book, che sarà in libreria da oggi per Einaudi (pp. 97, L. . 14.000), è frutto della maestria giornalistica del suo autore. Il titolo dice subito quale argomento affronta - G8/Genova - e Giulietto Chiesa dichiara subito il proposito che lo ha inchiodato alla scrivania durante il mese di agosto: la convinzione che l'incontro dei "potenti della terra" a Genova, la sua contestazione, la risposta repressiva del governo italiano rappresentano uno spartiacque di quel fenomeno che viene riassunto dalla parola globalizzazione. Niente, dopo Genova, è più come prima, scrissero e affermarono in molti dopo il tragico epigolo di quelle tre giornate di luglio, iniziate con il corteo dei migranti e chiuse con l'irruzione della polizia nel media center del Genoa social forum. Vero, scrive Chiesa nell'introduzione scritta il 14 settembre, ma per aggiungere subito dopo che la riflessione e la rilettura di quegli eventi va "relativizzata" alla luce di un altro accadimento: l'attacco alle Twin Towers. Giulietto Chiesa apre il suo racconto delle giornate genovesi, ricordando come molti mesi prima, in qualità di animatore dell'associazione Planet Genova, avesse mandato una lettera aperta al sindaco della città ligure, sottolineando che la globalizzazione è certo un fenomeno irreversibile, ma che produce ingiustizie e sofferenze sociali alle quali un movimento cercava di opporsi strenuamente. A questo punto, scriveva Chiesa, è tempo di fermarsi e di riflettere sul futuro del pianeta, offrendo momenti di discussione e di confronto non solo e non tanto tra i potenti della terra ma anche con l'intellettualità critica e con il cosiddetto "popolo di Seattle". Genova poteva essere la città giusta per mettere a confronto tesi, punti di vista, proposte magari confliggenti, ma all'interno di un contesto finalizzato a rimettere sui binari giusti uno sviluppo economico e sociale ineguale e perciò sbagliato. Per questo Planet Genova proponeva un'assise prima dell'incontro del G8. A questa proposta, ricorda l'autore, venne una risposta tardiva. Il convegno si svolse, ma nel frattempo molte cose erano cambiate, e non tutte in meglio. C'era stato sì Porto Alegre, ma anche Nizza, Napoli e Göteborg. Giulietto Chiesa descrive la nascita del Genoa social forum per poi iniziare la cronaca del 19 luglio, data iniziale delle tre giornate di mobilitazione contro il meeting del G8 con un corteo a favore dei migranti e delle loro libertà calpestate. L'autore rivendica la parzialità del suo racconto, riferisce solo ciò che ha visto. Ad esempio, di come la gioia e la spensieratezza delle 50 mila persone presenti al corteo dei migranti abbia lasciato il posto al fumo dei lacrimogeni, ai sassi, alle macchine bruciate, ai blindati lanciati contro i manifestanti. E a Carlo Giuliani, ucciso il pomeriggio del 20 luglio a Piazza Alimonda. Racconta quindi il "suo" G8/Genova, pieno di domande ancora senza risposta. Compito di un giornalista è quello di esercitare critica e dubbio, avverte l'inviato speciale, in primo luogo nei confronti delle versioni ufficiali dei fatti, del ministero degli interni ma anche di quelle fornite dai mass-media. Una raccomandazione che vale oggi, tanto più dopo Genova. Il 20 luglio di Giulietto Chiesa inizia con un'amara sorpresa. Non c'è solo la "zona rossa" istituita per difendere i lavori del G8 ad essere blindata. Anche alcune vie e piazze adiacenti sono stata trasformate in un fortino. La giornata inizia male, dunque, e continua peggio. Le piazze tematiche della disobbedienza si riempiono di uomini e donne, ma ci sono gruppi che si preparano alla guerriglia. Sono i black bloc, che Chiesa incontra per la prima volta a Piazza Novi, luogo di incontro dei Cobas e del Network dei diritti globali. Gli organizzatori della piazza tematica se ne vanno e cominciano le prime scaramucce tra i "ragazzi in nero" e la polizia. Il grosso dei manifestanti è pacifico, annota l'inviato speciale. Il piccolo gruppo di black bloc distrugge tutto quello che incontra, mentre le forze dell'ordine lo lascia fare per poi accanirsi contro gli altri. Anche gli incidenti, iniziati dopo le cariche contro il corteo dei "disobbedienti", rispondono a questa logica, soltanto che in via Tolemaide il corteo ha risposto alle cariche delle forze dell'ordine. La stessa dinamica si ripete il giorno dopo. Per il giornalista è però arrivato il tempo dei dubbi: perché la polizia ha lasciato indisturbati i black bloc? E' vero, come hanno testimoniato alcuni fotografi e manifestanti, che dalle file dei "ragazzi in nero" ogni tanto qualcuno si distaccava per parlare amabilmente con poliziotti o carabinieri? Perché tanta ferocia nel caricare i manifestanti pacifici? Sono le domande giuste a cui però non devono seguire risposte semplificatorie, come quella che considera le giornate genovesi come il risultato di una grande provocazione ordita da un potere oscuro contro un movimento tutto rose e fiori. A Genova si è visto, semmai, il dispiegarsi della crisi di un ordine politico mondiale che ha incontrato sulla sua strada la rivolta e la ribellione. L'autore non parla dell'irruzione al media center del Genoa social forum per essere fedele al suo proposito di raccontare solo ciò che ha visto. Ma ci sono due passaggi nel libro che vale la pena di segnalare in quanto "giudizio politico" dell'autore. Il primo è in realtà un dialogo tra Giulietto Chiesa e un ragazzo del "movimento" sulla violenza e i black bloc; il secondo è sull'incognita che questo movimento ha di fronte a sé - quale strategia dopo Genova. A Chiesa questo secondo aspetto non interessa molto. Lo interessa invece l'apertura di una discussione aperta e libera, cioè senza pregiudizi, sulla globalizzazione in cui questa galassia di associazioni è pienamente coinvolta. Sul nodo della violenza e dei black bloc va invece registrata la lucidità del ragazzo, che riassume con poche frasi la natura di questo movimento. Rifiuto del concetto di organizzazione, rifiuto di stabilire il confine tra chi sta dentro o fuori il "movimento", rifiuto della violenza, ma non demonizzazione di chi la usa per rendere visibili istanze di trasformazione della società. "Non vogliamo fare gli errori di voi della sinistra - afferma il ragazzo - vogliamo maturare seguendo la nostra strada". L'inviato speciale registra fedelmente queste parole senza voler contrapporre certezze granitiche. Chiesa accetta il fatto che lui è figlio di un'altra epoca ma questo non vuol dire che sia d'accordo con tutto quel che fa il "movimento". Non ne comprende appieno i comportamenti, le scelte, le "zone d'ombra". Sente quindi una distanza da quel giovane che considera invece quei "grigi" non un limite alla crescita del movimento, ma una ricchezza da non gettare alle ortiche e un antidoto alla possibilità di ripercorrere le vecchie strade già battute senza successo da parte della sinistra. Ma dialogano, e il loro è un dialogo importante perché, al di là delle singole convinzioni, entrambi rivelano un nodo che questo movimento ha: come aumentare il suo potere nella società, allargando il consenso, senza rinunciare alla critica radicale dell'esistente. E' il militante radicale che parla con il giornalista democratico. Possono capirsi, ma poi ognuno continuerà la sua strada. Il primo per inseguire l'obiettivo di un altro mondo possibile, il secondo per continuare a raccontare la realtà di cui è testimone. Solo così, nella distinzione dei ruoli, il giornalista democratico può aiutare il militante radicale. Cosa che Giulietto Chiesa fa. E infatti, subito dopo aver scritto l'introduzione di questo libro, ha preso un aereo ed è andato in Afghanistan per raccontare la piccola, grande battaglia di Emergency dopo che la macchina di guerra è stata messa in moto. Ma anche per raccontare quella guerra, scegliendo di scrivere solo ciò che vede e non quello che suggerisce qualche stato maggiore.

 

ottobre 2001 Giulietto Chiesa: Chi ha allevato il ragno?

di
Giulietto Chiesa

Un ragno velenoso ha punto l`Occidente. L`Occidente vuole schiacciare il ragno velenoso, che si trova in Afghanistan. E, per questo, intende colpire il regime che lo ha protetto e ospitato, con tutti i mezzi a propria disposizione.
Legittima difesa. Guerra contro il terrorismo. Fino a qui la logica è ineccepibile e sembra assistere l`Occidente.

Il problema si complica quando si cerca di capire chi è l`allevatore di ragni velenosi. Non è difficile scoprire che esistono tre soggetti indiziati in cima alla lista dei sospetti. Si tratta di - in ordine alfabetico - Arabia Saudita, Emirati Arabi, Pakistan. Questi tre paesi sono stati gli unici a riconoscere il regime dei taliban quando esso arrivò al potere a Kabul nel 1996. E hanno continuato a riconoscere i taliban fino agli eventi dell`11 settembre 2001.

L`Occidente colpisce con tutta la sua forza l`Afghanistan, che è il sintomo, non la malattia. Che è la tana del ragno, ma non è colui che lo ha fatto nascere e lo ha allevato. Quello che è peggio, dal punto di vista della logica elementare, è il fatto che l`Occidente, per schiacciare il ragno, faccia uso dell`appoggio politico e militare di tutti e tre i peggiori indiziati. E, quando si dice indiziati si usa un eufemismo: nel caso del Pakistan gl`indizi sono già prove schiaccianti. Il regime dei taliban non esisterebbe se non fosse stato creato, letteralmente dal nulla, con un`operazione assolutamente artificiale, dai servizi segreti militari di quel paese. Quegli stessi servizi segreti che, per conto della CIA, organizzarono, armarono, finanziarono l`alleanza dei \"sette partiti di Peshawar\" che servì come punta di lancia per sconfiggere i sovietici.
Che il regime arabo saudita sia stato finanziatore del fondamentalismo islamico non c`è bisogno di dimostrazione.

Per giunta l`Occidente ha dovuto inserire questi tre paesi in un`alleanza che non ha nulla di democratico, perchè tutti e tre sono o dittature (come il Pakistan) o regimi monarchici senza costituzione democratica (come gli altri due).
Ne consegue che, per bene che vada, si potrà cambiare il regime a Kabul, si potrà distruggere tutto ciò che resta di infrastrutture militari (e civili) dell`Afghanistan, ma gli allevatori di ragni velenosi resteranno al loro posto, impuniti e pronti a ripetere, ove loro convenisse. Ed è - si badi bene - l`ipotesi più ottimistica, perchè nulla dice che in questo modo si porterà la pace a Kabul.
Ma - si potrebbe obiettare - esiste una realpolitik da cui non si può prescindere. Questi paesi sono necessari, per ragioni logistiche e di vicinanza territoriale, prima di tutto, per infliggere un colpo al rifugio del ragno e per eliminare il ragno. Anche questo sembra sorretto dalla logica, sebbene si tratti di una logica piuttosto ripugnante, perchè usa due pesi e due misure, a seconda della convenienza. Se i valori democratici sono un opzional per i potenti del mondo, è inevitabile, alla lunga, che il resto del mondo li consideri una variabile superflua. Per cui diventa poi impossibile chiedere il loro rispetto. Il ragno si rafforza in questo modo. Lo si può anche uccidere, ma lo si sarà aiutato, prima di morire, a figliare migliaia di altri ragni altrettanto velenosi.
E resta sempre aperto il problema posto all`inizio: perchè si chiudono gli occhi di fronte alla necessità di colpire gli allevatori di ragni velenosi e, anzi, li si considera amici?
Ma c`è anche un altro angolo visuale, un altro metro di misura, per rispondere alla domanda fondamentale: l`Occidente sta facendo la cosa giusta (nel senso di funzionale, utile, a prescindere dai suoi connotati etici) per liberarsi del ragno, anzi dei ragni velenosi? L`operazione di attacco all`Afghanistan è un passo nella direzione giusta? Il bilancio di questi pochi giorni di bombardamenti e di Guerra già registra due disastri le cui conseguenze appaiono irreparabili, punti di non ritorno.
Il Pakistan è precipitato in una crisi politica e istituzionale che non ha precedenti nella sua storia. Un colosso di 140 milioni di abitanti, dotato di bomba atomica, è in preda a una convulsione terrificante. Proprio perchè lo si è dovuto trascinare nell`alleanza contro il ragno che aveva nutrito, ricavandone grandi utili.
Lo stato palestinese, trascinato anch`esso a viva forza nell`alleanza, dopo averlo costretto a difendere la sua esistenza minima di fronte all`assalto di Sharon, è ormai alle prese con una rivolta interna che potrebbe portare al comando le forze meno laiche e più fondamentaliste. Migliaia di giovani palestinesi inneggiano ormai a Osama bin Laden. E Osama, il ragno velenoso, proprio mentre si sta cercando di schiacciarlo, sta diventando la bandiera, l`eroe, il martire di tutto il mondo islamico più estremista e feroce nel suo odio integrale contro l`Occidente e i suoi valori.
I risultati sono già catastrofici fin dai primi passi di questa strategia. Davanti a noi - ci è stato annunciato - si stagliano altre guerre, altri stati da colpire, altri obiettivi da liquidare, per lungo tempo. Quello che già sta accadendo - l`ondata anti-occidentale in tutto il mondo islamico - si moltiplicherà per intensità e per estensione. Altri regimi islamici amici dell`Occidente possono essere messi in pericolo grave, e crollare.

Andare avanti su questa strada è catastrofico in primo luogo per l`Occidente. Non occorre scomodare la morale, le vittime civili, la barbarie della vendetta che chiama altra vendetta. Sono, prima di tutto la saggezza e il realismo a consigliare subito un \"cessate il fuoco\" di questa Guerra senza fine e a indirizzare l`alleanza contro il terrorismo verso una ricerca effettiva delle sue sorgenti.
Il che comporta, per l`America e per l`Occidente, una riflessione autocritica sul mondo che essi hanno creato, con la loro potenza e la loro superiorità tecnologica. Questo è il compito più difficile. Il ragno sta dimostrando di saper usare assai bene il cumulo d`ingiustizie prodotto da una globalizzazione insensata ed egoista. Si sta facendo questa nuova Guerra proprio perchè non si vuole affrontare il compito di questa riflessione.


9 ottobre 2001

dal sito www.emergency.it

 

La terra trema
di Giulietto Chiesa

Con la guerra afghana, Bush ha saziato la sete di vendetta degli americani e allargato a dismisura l'influenza degli Usa in Asia. Il prezzo è stato il grande ritorno in campo della Russia

" They have done a good job". Un amico americano, sicuramente liberal, riassumeva così la situazione bellica in Afghanistan dopo il definitivo massacro dei taliban e di Al Qaeda. "Loro" erano e sono il team di George W. Bush, primo Imperatore del XXI secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi, anche se non tutti, sono stati raggiunti. E cercherò qui di spiegare in cosa consistono. Tra questi, tuttavia, non c'è la vittoria contro il terrorismo internazionale. Del resto essa non poteva esserci poiché la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non può concludersi così in fretta. Altrimenti verrebbero contraddette le previsioni del vice-imperatore Dick Cheney, secondo cui essa durerà ben oltre l'aspettativa di vita della presente generazione.
Il primo obiettivo raggiunto è la vendetta. Il numero dei taliban e degli arabi annientato è e rimarrà sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le notizie ufficiose provenienti dal campo dei vincitori (altre notizie non abbiamo, essendo quelle del nemico, per definizione, false), possiamo calcolare che almeno 20.000 uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei combattimenti, nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri di prigionieri (non si fanno prigionieri in questa guerra).
Un rapporto di cinque contro uno, se si assume che il numero dei morti nell'attacco dell'11 settembre si aggiri attorno ai 4000. Un rapporto certo inferiore a quello delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale, ma comunque tale da soddisfare i requisiti della proclamazione di guerra ("la nostra causa è giusta, la nostra causa è necessaria", ha detto George Bush) e l'ira del consumatore americano.
Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'è noto - non erano un obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Come tali esse non sono state né fornite, né indagate, e dunque non le conosceremo mai. Anche perché, quando qualcuno comincerà a contarle, l'Afghanistan sarà già sparito dalle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, e dunque non varrà la pena occuparsene.
Il secondo obiettivo raggiunto è la profonda modificazione delle linee di demarcazione dell'influenza degli Stati uniti in tutta l'Asia, particolarmente nell'Asia Centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati uniti si sono assicurati il controllo diretto di almeno quattro delle repubbliche ex sovietiche collocate tra il Medio Oriente e l'area del Mar Caspio. Per la precisione la dipendenza di Georgia e Azerbaijan - entrambe guidati da ex membri del Politburò del Pcus - era già un dato di fatto prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa è sancita poco meno che ufficialmente e, comunque, ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In altre epoche sarebbe stato detto che la Georgia di Eduard Shevardnadze e l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano diventate due colonie degli Stati uniti, ma ora si usano espressioni più soft.
Si aggiungono ora al bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il Turkmenistan di Saparmurad Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno installato una base militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione, anche perché Ashkhabad, la capitale, è impenetrabile agli stranieri, in particolare ai giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashì (il padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare) avrebbe consegnato in mani americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico per i sovietici nel corso della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche quello di Charzhou. Naturalmente Nijazov si è anche dichiarato disponibile ad ospitare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come vedremo meglio più avanti, risale alla metà degli anni '90 ed è strettamente connesso alla nascita del regime dei taliban.
In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una Yalta asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti geo-politici continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo internazionale sta pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che anche le fasi future della superguerra saranno accompagnate da analoghe modificazioni geo-politiche in altre aree del pianeta.
Ciò varrà per l'area della Palestina, dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la guerra per la liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat è la via per questo disegno, che chiuderà ogni via per un negoziato. Ciò varrà per l'Iraq, dove la fine di Saddam Hussein porterà all'instaurazione di un protettorato statunitense e all'installazione di basi americane, analogamente a quanto fu fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo del 1991.
Altrettanto vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa accompagneranno le previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare che la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limiterà allo sterminio sistematico delle tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A Washington sanno che ciò non basterà a eliminare il pericolo, anche nell'ipotesi di un successo totale delle operazioni di polizia.
Infatti la tensione sociale nel pianeta - già dilatatasi spasmodicamente nell'ultimo ventennio - è destinata anch'essa a crescere di pari passo con il rilancio (in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione americana. E dunque si pone fin d'ora il problema della moltiplicazione di basi e presidi permanenti degli Stati uniti in tutte le aree del pianeta in cui sarà possibile prevedere il risorgere della minaccia agl'interessi economici e politici americani.
Ciò detto occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della medaglia del "good job". La Grande Yalta asiatica implica l'esistenza di una partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo partner-avversario è la Russia. Che è rientrata in gioco dopo il lungo limbo decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l'assoluta subalternità di Eltsin agli interessi americani) l'avevano relegata.
Paradossalmente è stato proprio l'Imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità, costretto a pagare un prezzo che potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto appaia oggi. Occorreva la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la Grande Alleanza contro il terrorismo internazionale. L'esistenza stessa di una Grande Alleanza forniva infatti la prova apparentemente inconfutabile della legittimità morale della guerra afghana. Per ottenere l'appoggio di Mosca l'amministrazione Usa non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, viaggi in Russia, missioni diplomatiche, concessioni di vario genere, dispiegate dal poker d'assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell.
Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato offrendo, per primo, addirittura più tempestivo di alcuni alleati occidentali, condoglianze e solidarietà dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento si è avuta l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington. Impressione che è stata accresciuta da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l'informazione occidentale nel confermare quella sintonia. In realtà abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto rude) trattativa tra Stati uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci rapporti e per ridisegnare - appunto - la carta asiatica alla luce cruda dell'11 settembre. Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto che le carte che aveva in mano non erano né molte, né decisive. Il primo a sapere che la Russia è debole, è proprio lui. Così Vladimir Putin ha giocato a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch texano di Bush, tutto intero, il quadro del contenzioso tra Russia e Stati uniti.
Si è dunque negoziato su molte questioni contemporaneamente. Ci si è lasciati con una stretta di mano perché ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di avere conquistato qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto la fine di ogni ingerenza esterna sulla Cecenia. Cioè sia la fine dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri abbondantemente fornito, attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi segreti turchi con la benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche lamentele occidentali in tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora in poi, e per qualche tempo, il silenzio dell'Occidente è garantito. Putin, dal canto suo, ha inghiottito la perdita delle due repubbliche ex sovietiche di Uzbekistan e Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza poter fare quasi nulla, quella di Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in cambio, l'assicurazione che l'area d'influenza russa su Armenia, Kazakhistan, Kirgizia, Tajikistan non sarà minacciata nell'immediato futuro.
La Russia compie una cospicua ritirata strategica da una parte dell'Asia Centrale, riconoscendo implicitamente la rivendicazione americana sull'area, già proclamata da Clinton come "area d'interesse vitale per gli Stati uniti d'America". E' probabile che Mosca consideri questa ritirata come temporanea, o tattica, ma essa, per quanto dolorosa, rappresenta un riconoscimento dei rapporti di forza reali.
Tanto più ferma, di conseguenza, è stata la posizione di Putin in tema di regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione del regime talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso l'Afghanistan.
L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come protagoniste, due importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana) e la Delta Oil (di proprietà del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord di oleodotti e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter mettere d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere di combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan e consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo Persico.
Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da un lato avrebbe consentito una soluzione molto economica per il movimento di ingenti quantità di energia verso le grandi economie occidentali. Dall'altro avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso principesche royalties e l'influenza sull'intera area centro-asiatica. Quest'ultimo aspetto era in stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo collasso, la sua trasformazione in "confederazione debole", infine la suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia Occidentale e Estremo Oriente).
Il progetto fallì per l'impossibilità di mettere d'accordo le fazioni afghane. Al suo posto venne deciso di "pacificare" l'Afghanistan mediante un nuovo regime, costruito artificialmente dall'esterno. Il movimento dei Taleban era nato così, tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrassas (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani, che fornirono istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici vennero così formati a una nuova Jihad, addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi della North-West Frontier.
In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban del mullah Omar conquistarono o comprarono quasi tutti i comandanti militari ex mujaheddin, costrinsero gli altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del territorio del paese. Era il 1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non era rimasta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l'operazione taliban era diretta a colpire a fondo gl'interessi russi, avevano cominciato a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul terreno a contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah Massud, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.
Il fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan. Ma ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban, che nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione che il futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra condizione: che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia gestito assieme alla Russia e non contro la Russia.
Alla luce degli eventi successivi sembra di poter dire che l'accordo raggiunto nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu né chiaro, né completo. Gli Usa devono soddisfare le esigenze del generale Musharraf, pericolante e infido, mentre la Russia ha tutto l'interesse a sostenere fino in fondo le richieste dei tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e Islamabad non c'è pacificazione possibile, poiché l'assassinio di Massud è opera di Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence pakistana.
Si spiega così perché i tagiki sono entrati a Kabul per primi, contro l'avvertimento di Bush, impadronendosi di fatto del potere, certo d'accordo con Mosca, senza aspettare il via libera americano. E si spiega così anche l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, del contingente russo: secondo il proverbio "fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Che nella versione russa suona: "abbi fiducia, ma prima verifica" (doveriaj, no proveriaj).
Ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto in questa chiave, se si vorrà capire qualcosa. Putin non è disposto a regalare l'Afghanistan all'America. Né è disposto a lasciare che Washington decida da sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle risorse energetiche ivi contenute.
E' vero che Mosca è relativamente debole, che non è più potenza globale. Ma è anche vero che nell'area in questione - il suo "cortile di casa" - Mosca è ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte situazioni. Ad esempio la tenuta di regimi come quello di Tashkent e quello di Ashkhabad può essere messa rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di essere stata ingannata o colpita nei propri interessi. A Mosca non c'è più Eltsin, manutengolo degl'interessi occidentali. Putin, convinto assertore del capitalismo in Russia, è anche un altrettanto convinto fautore degli interessi nazionali russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i conti con quei settori dell'establishment russo che premono perché essi vengano difesi.
Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi che sono stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi non c'è stato accordo. Su uno si è registrata una modesta convergenza, sull'altro si è registrata una completa divergenza. Si tratta, rispettivamente, dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del 1972.
Colin Powell - ma Donald Rumsfeld è di altro avviso - è disposto a concedere molto a una Russia che conceda molto. Per esempio anche un avvicinamento della Russia alla Nato, che le consenta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in materia di decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interessato a una tale eventualità, riservandosi di decidere quando le cose si faranno più chiare e, soprattutto, quando a Washington si sarà deciso cosa s'intende regalare alla Russia. Niente di più.
Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento verso est dei confini della Nato sarà deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio spazio di manovra è segnato dai rapporti di forza concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non dà in escandescenze (come amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potrà far valere la sua forza. D'altro canto la vicenda afghana, cioè l'inizio della guerra infinita, sembra dire che Washington non ha più molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al più con l'aiuto dell'Inghilterra.
Pensa di potere e di dovere farcela da sola, senza impacci, senza remore. La Nato avrà, sempre di più, un valore politico diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione simbolica. Anche questo ha capito.
L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, è stata una tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko. Washington aveva - ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso. Ma dovrà ora dilazionare questo obiettivo per non creare altri problemi con Mosca. Minsk può aspettare. Il "modello Belgrado", della sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del rovesciamento del leader nazionale di turno, usato con successo contro Milosevic, per ora non si ripeterà.
La completa divergenza c'è stata soltanto in materia di "scudo stellare". Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia "unilaterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o senza il terrorismo internazionale. L'America è l'unica superpotenza rimasta. Come tale non si sente più tenuta a negoziare con chicchessia. Al massimo, quando lo riterrà opportuno, potrà comunicare agli altri le sue decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo "scudo stellare" (cioé la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio globale del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo saranno anche un utile strumento "keynesiano" per rimettere in moto la disastrata new economy.
Come ha scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle Twin Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche a questo proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli è stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati uniti si apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo ministro della difesa, laconicamente, che la Russia comincerà a installare sui suoi missili Topol non più una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha annunciato che la messa in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2 sarà sospesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nucleare Ghepard: una nuova generazione capace di gareggiare con il meglio della tecnologia americana.
Detto in termini più concisi, è cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale. Perché è del tutto evidente che la Cina sta accelerando il proprio sviluppo tecnologico-militare, poiché sa di essere stata già eletta a nemico principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro il mondo islamico sarà terminato.
Dov'è la "Grande Alleanza" contro il terrorismo internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per giustificare la sua "inevitabilità" e la sua "legittimità"? Semplicemente non c'è mai stata.

 

SOGGIORNO IN RUSSIA

Nel mio ultimo soggiorno in Russia a metà settembre, nel pieno dello scandalo-scontro tra Cremlino e Gasprom da un lato e Gruppo Media-Most di Gusinskij dall’altro, mi sono trovato nella più rappresentativa tusovka (party) della capitale: il decennale della Radio (anch’essa di Vladimir Gusinskij) Eco di Mosca. Raramente mi è accaduto di trovare così tanta incertezza, inquietudine, disparità e varietà di attese, punti di vista, valutazioni. Situazione tipica dei momenti di transizione politica.

La Russia e Mosca si trovano esattamente in mezzo a un altro guado dei tanti che hanno cercato di attraversare, senza riuscirci, in questo decennio di post-comunismo. Si potrebbe dire, senza andare troppo lontano dalla verità, che – come ha scritto Gleb Pavlovskij (Izvestija, 16 settembre 2000) – "al momento in Russia c’è una democrazia come intenzione [… ] delle forze politiche principali. Ma non c’è democrazia come sistema di istituti e come meccanismo funzionante. Siamo di fronte a qualcosa di simile a impalcature poggiate sulla costruzione statale sovietica …". Anche Pavlovskij, considerato uno degli artefici della vittoria elettorale di Putin, ha fatto una capatina alla festa di Eco di Mosca. Egli ritiene – e credo abbia ragione – che sia il potere esecutivo che la maggioranza delle forze politiche esistenti, quelle che contano, si siano convinti della necessità di definire finalmente delle regole stabili, più o meno democratiche. Ma l’accordo finisce qui. Attorno alla qualità delle regole domina il più completo disaccordo.

La seconda questione su cui si può fissare un punto fermo riguarda l’eventualità di un golpe autoritario. Pavlovskij lo ritiene impraticabile. Di fatto nessuno degl’interlocutori con cui ho potuto parlare lo ritiene un’ipotesi realistica. Per una molteplicità di ragioni la più importante delle quali è che non esiste un esercito in grado di farlo, nemmeno di concepirlo, e tanto meno di reggerlo a lungo. E non esiste nemmeno una quota sufficiente di opinione pubblica disposta ad appoggiarlo. La maggioranza dei russi – sicuramente quella parte cospicua di elettori che ha votato per Putin – non vede di cattivo occhio una "mano forte", qualche deus ex machina capace di portare ordine, pulizia contro la corruzione, un minimo di stabilità economica e sociale. Eppure solo una minoranza assai ridotta sembra disposta a correre il rischio di perdere quella situazione, simile a un limbo, in cui si possono esercitare almeno una parte delle libertà, specie quelle individuali, che quattro generazioni di sovietici non poterono gustare.

Su queste considerazioni di fondo s’inquadra "l’interrogativo Putin". Qui il ventaglio delle posizioni è apertissimo. Tante teste, altrettanti pareri. Eppure qualche conclusione la si può tirare. Vladimir Putin non dispone ancora di tutto il potere. Non soltanto e non tanto quello che formalmente gli assegna una Costituzione ampiamente autoritaria, quanto quello effettivo dei reali rapporti di forza all’interno dell’élite dominante e negli apparati burocratici del Cremlino e dello Stato. È in corso una battaglia molto complessa, articolata su una miriade di fronti, destinata a non finire presto e il cui esito è attualmente di molto difficile lettura. Ma il dato che Putin sta ancora combattendo per farsi strada tra le sabbie mobili dell’élite eltsiniana non dev’essere perduto. Per due ordini di ragioni.

La prima è che non tutto ciò che accade a Mosca può essergli addebitato. Qualcosa ma non tutto. E ogni evento di un certo grado d’importanza richiede un’analisi dettagliata prima di potergli assegnare una paternità. E, di conseguenza, per evitare di attribuire a Putin scelte e pensieri che non sono i suoi. Nel caso del sommergibile Kursk, sicuramente, una parte degli errori commessi sono da assegnare a Putin, ma probabilmente non tutti. Altrettanto può dirsi del caso della tv privata Ntv. In secondo luogo non è affatto detto che la battaglia in corso si concluda a suo favore. Dentro il Cremlino è ancora saldamente insediata una parte della squadra di Boris Eltsin. Pavel Borodin è stato promosso per toglierlo dai più diretti paraggi, ma la figlia di Boris Eltsin, Tatjana Djacenko, continua ad avere un ufficio al Cremlino, sebbene il suo nome non figuri negli elenchi della nomenklatura. Alla testa dell’amministrazione presidenziale c’è ancora Voloshin, che fu ed è il terminale nel Cremlino di Boris Berezovskij. Il governo è guidato da Kasianov, detto dai banchieri occidentali "mister 5%" per le tangenti che sarebbe stato solito chiedere in ogni affare, prima di diventare premier. E un nutrito stuolo di ministri vengono dalla scuola della massima corruzione.

Si racconta che un giornalista amico abbia chiesto a Putin, mentre riposava in Crimea, come mai non si liberava di Kasianov. La risposta del presidente, molto significativa, sarebbe stata la seguente: "Se io tolgo quello, non è ancora detto che non ce ne mettano un altro peggiore". Questo spiega molte cose. Spiega anche tra l’altro perché Vladimir Putin, molto inopinatamente per molti osservatori russi, frequenti Mikhail Gorbaciov e spiega anche perché Mikhail Gorbaciov abbia dichiarato, ormai a diverse riprese, che a Putin bisogna dare credito. Non a fondo perduto, non senza rinunciare all’esercizio della critica, ma pur sempre credito. Ciò che comincia ad apparire sempre più chiaramente è che Putin ha intrapreso una strada autonoma rispetto ai disegni dei suoi stessi creatori, cioè di quel coacervo d’interessi potentissimi che negli anni scorsi ha tenuto al potere Boris Eltsin e che – quando è apparso evidente che nemmeno l’Occidente, segnatamente l’amministrazione degli Stati Uniti, era ormai più disposto a mantenere al potere quel fantoccio impresentabile – scelse Putin come il candidato vincente. Minore dei mali possibili, certo stimato come meno pericoloso di Aleksander Lebed.

Con buona dose di probabilità la Famiglia ritenne che Vladimir Putin le avrebbe consentito un lungo periodo di quiete. Dovendole la carica, il potere, essendo forse in varia misura vulnerabile ai materiali compromettenti, inesperto, privo di una propria squadra, relativamente fedele. Certo l’ideale sarebbe stato per la Famiglia riuscire – prima di effettuare la sostituzione – emendare la Costituzione in modo da ridurre significativamente i poteri presidenziali. Ciò avrebbe ridotto ulteriormente i pericoli di un colpo di coda – ritenuto comunque poco probabile nel breve e medio periodo – del nuovo tenutario formale dei poteri del Cremlino. Purtroppo per la Famiglia i tempi del tramonto eltsiniano si fecero rovinosamente brevi. Ora accade il peggiore degli scenari possibili tra quelli che la Famiglia aveva ipotizzato. L’uomo, che essa ha portato al potere, si sta rivelando dotato di proprie idee e di una propria ambizione. Quel ch’è peggio, essa va scoprendo che le idee del "suo uomo" sono in rotta di collisione con gl’interessi che la Famiglia difende.

Infine si scopre che Vladimir Putin, pur inesperto e lento nel costruirsi una propria squadra, non manca di capacità tattiche. Egli sta ponendo fine all’era Eltsin senza clamore, evitando i colpi di mano illegali, mantenendo una linea di sostanziale rispetto delle leggi. A sei mesi dalla sua elezione formale a presidente, a poco più d’un anno dall’assunzione della responsabilità di governo, Putin ha realizzato alcune operazioni di grande momento. Tra queste c’è la conquista di una maggioranza parlamentare nella Duma. Ciò che non era riuscito a Eltsin per nove anni è riuscito a Putin in meno di un anno. La seconda operazione è stata la riforma costituzionale che ha liquidato di fatto il potere dei governatori sulle faccende dello stato unitario, ponendo un freno al processo di disgregazione innestato dalla baraonda delle sovranità avviata e alimentata da Boris Eltsin e dai suoi. Il nuovo Consiglio della Federazione, divenuto una camera alta di parlamentari professionali, ha ora un ruolo sostanzialmente minore di quello della Duma, mentre i governatori hanno perduto l’immunità e l’indiscussa gestione dei loro territori. Non è ancora la fine dei "principati indipendenti", ma è senza dubbio un loro sostanziale indebolimento.

È ovvio che un tale rafforzamento del potere centrale non potesse piacere né ai boiardi regionali, né ai baroni del capitalismo criminali, né agli oligarchi (o a una parte importante di essi). Gli uni e gli altri avevano potuto procedere liberamente alla spartizione delle spoglie dello Stato, dei suoi averi centrali e periferici, proprio grazie alla assoluta debolezza e corruzione dell’apparato dello Stato e al completo disordine istituzionale del paese. E grazie alla disponibilità permanente di Eltsin e della sua Famiglia – deboli politicamente – a contrattare appoggi in cambio di elargizioni di sovranità e di proprietà statali. Non è un caso che Boris Berezovskij abbia deciso di passare all’opposizione lanciando il "grido di dolore": "Putin si propone di distruggere le nuove élites politiche della Russia". Mai definizione suonò più precisa di questa.

Nei confronti degli oligarchi la linea adottata da Putin appare meno lineare e forse meno chiara. Non è escluso che l’apparente zigzagare del suo comportamento e l’ambiguità delle sue dichiarazioni siano semplicemente effetto di una mancanza di forza. Ma Putin non è rimasto inattivo neppure su questo fronte. Con alcuni oligarchi (il più significativo dei quali è Vladimir Potanin) il presidente ha siglato un patto di non belligeranza, per non dire di collaborazione. Con due di essi è entrato in guerra. E c’è una spiegazione precisa per questo. Nel panorama così povero della società civile russa, così bene sintetizzato da Pavlovskij con l’espressione "impalcature poggiate sulla costruzione statale sovietica", si stagliano i due partiti che hanno deciso la sorte delle elezioni russe di tutti questi anni. Due partiti veri, gli unici, oltre al partito comunista, che hanno combattuto e vinto tutte le prove elettorali a partire dal 1993.

I due partiti in questione si chiamano Ort, il canale televisivo nazionale, e Ntv, la principale televisione privata della Russia. Essi hanno agito insieme nel 1995 e 1996, per garantire la rielezione di Eltsin. Ma, a partire dal 1998, le loro linee hanno cominciato a divergere, fino a che nel 1999 i due partiti sono diventati nemici l’uno dell’altro: espressione e portatori al tempo stesso di due gruppi oligarchici contrapposti. Ortl, cavallo di battaglia della Famiglia, portatore del candidato Vladimir Putin; Ntv patrocinatore esplicito della coppia Primakov-Luzhkov, contro il Cremlino. Sappiamo che la sigla Ort significa Boris Berezovskij, e che quella Ntv significa Vladimir Gusinskij.

Vladimir Putin sa perfettamente, come lo sanno il primo e il secondo, che senza il possesso – o la benevola neutralità – dei due partiti decisivi della scena politica russa non potrà portare a compimento né il suo disegno di emancipazione dai suoi pigmalioni e creatori, né, tanto meno, il progetto di arrestare la disgregazione della Russia e la sua trasformazione graduale in paria della comunità internazionale. È questo il significato della manovra a largo raggio per togliere dalle mani di Berezovkij il dominio di Ort (di cui l’affarista Berezovskij è proprietario solo al 49%) e della manovra a corto raggio per costringere Vladimir Gusinskij a cedere, in tutto o in parte, il controllo su Ntv. L’esito di queste due battaglie sarà decisivo in molti sensi. Non ultimo quello che consentirà di misurare se e fino a che punto lo stesso Putin consideri valido il principio della pluralità e della libertà d’informazione.

Certo è che, in caso di sconfitta del presidente, la sua posizione non potrà essere considerata stabile. In questa fase egli ha avuto dalla sua parte anche la fortuna, sotto le spoglie del prezzo del petrolio. Non vi fossero state le altissime entrate statali derivanti dall’oro nero, la situazione economica assolutamente catastrofica lo avrebbe costretto ad agire senza troppi complimenti e in gran fretta. Così egli ha potuto saldare i conti con i dipendenti dello stato, in primo luogo i milioni di militari e loro famiglie, e con i milioni di pensionati lasciati alla fame nei cinque anni trascorsi. In tal modo incamerando una cospicua dose di consenso popolare. Ma non ha potuto per il momento neppure porre mano al risanamento dell’economia e della finanza russe. Per questo, come s’è detto, avrebbe dovuto disporre di forze ben più cospicue di quelle attuali e di una squadra di uomini capace di pensare in termini di reale riforma. Il che non è ancora all’orizzonte e non sarà realizzabile fino a che il governo resta composto come è oggi.

Molte cose restano dunque sospese a dei punti interrogativi. Personalmente non credo che i due turni presidenziali siano già assicurati per il giovane Vladimir Putin. I tempi della crisi della Russia (e del suo eventuale avviarsi a soluzione) si concentrano in un solo mandato presidenziale, cioè nei prossimi tre-quattro anni. La Russia è andata indietro, catastroficamente, per dieci anni. La sua struttura industriale, le sue forze armate sono invecchiate oltre i limiti di una normale gestione. Occorrono misure d’emergenza in termini d’investimenti, di capitali che non ci sono (ci sono, ma all’estero). Putin ha dovuto riconoscere apertamente che il paese sta andando in pezzi in ogni senso. Lo stesso clima morale del paese è disastrosamente basso. Neanche la pazienza russa può essere infinita. Putin ha rappresentato per molti – a torto o a ragione – una speranza. Se anche questa non troverà conferme, è molto difficile che egli riesca a restare in sella. E nessun paese, neanche la Russia, può "inventare" due presidenti. •

 

CECENIA

Gli sviluppi della guerra di Cecenia - sempre più negativi per il Cremlino - indicano che gli strateghi della "Famiglia", quelli che hanno costretto Boris Eltsin alle dimissioni anticipate, avevano previsto l'eventualità di una affannosa corsa contro il tempo.
Se Eltsin fosse rimasto in carica fino alla fine del mandato, allora le elezioni presidenziali si sarebbero tenute a giugno. Nessuno sarebbe stato in grado di prevedere gli umori di una opinione pubblica russa, nuovamente delusa dopo l'euforia di alcuni mesi di apparenti vittorie, nel caso che la riconquista della Cecenia si fosse rivelata impossibile, oppure possibile ma solo a prezzo di un altissimo numero di soldati russi.
Dunque gli strateghi della "Famiglia", in primo luogo il banchiere oligarca Boris Berezovskij, decisero per le dimissioni anticipate del presidente, con lo scopo di accelerare i tempi elettorali. Prima cioè del mutare possibile del vento.
S'intenda - e va ricordato ai commentatori troppo candidi, che continuano ad applicare al Cremlino i criteri (per altro anch'essi astratti) delle civiltà mature dell'Occidente - che, in caso di possibile sconfitta del Potere, a giugno come a marzo, la "Famiglia" è pronta, come lo era alla vigilia del voto per la Duma del dicembre scorso, a falsificare il risultato elettorale o a distorcerlo in modo tale da renderlo irriconoscibile o indecifrabile. Ma è ovvio che il regime eltsiniano e i suoi continuatori attuali preferiscono agire senza intaccare la cromatura democratica della Russia post-comunista. In ciò palesemente consigliati, e a ciò invitati dai leader occidentali, che non possono farsi autocritiche per il disastro russo, e che si augurano appunto il rispetto della forma, disposti come sono - lo ha confermato recentemente Madeleine Albright - a chiudere entrambi gli occhi su tutte le brutture della sostanza: dallo stravolgimento dei dati elettorali ad opera del Fapsi (agenzia di controllo elettronico alle dirette dipendenze dell'amministrazione presidenziale), a campagne elettorali condotte in aperto e totale dispregio delle leggi di finanziamento e dei criteri di uso equilibrato dei mass media.
Dunque, con ogni probabilità, Vladimir Tutin si appresta a vedere rettificato dal popolo russo la investitura che finalmente ha ricevuto da Eltsin quasi come lascito ereditario. E già questo la dice lunga sul contenuto democratico del regime che si è impossessato della Russia dopo la caduta del comunismo. Anche se la guerra di Cecenia dovesse tramutarsi in una nuova disfatta, è possibile che il Cremlino riesca a dilazionare l'informazione fino a oltre la fine di marzo, cioè oltre il momento della irresistibile vittoria di Vladimir Putin sull'inevitabile (e auspicato dal Cremlino) Ghennadij Zinganov.
A Groznij e dintorni, infatti, muoiono e vengono fatti a pezzi non i figli dei ricchi e dei poveri moscoviti, o di San Pietroburgo, bensì i coscritti delle più sperdute province periferiche. Quelli che vengono da città e villaggi dove non stazionano giornalisti occidentali e dove i giornalisti russi, se ci sono, non possono parlare. In tal modo, anche se i morti sono tanti, ci vorrà del tempo prima che le notizie trasudino fino a Mosca, diventino visibili, assumano una massa critica tale da influenzare ampi strati della società. Tuttavia sarà opportuno non trascurare anche un'altra ipotesi, che potremmo definire "complementare". Se, cioè, le cose dovessero prendere una piega troppo decisamente sfavorevole, si potrebbe sempre contare sull'intervento "provvidenziale" di una nuova ondata terroristica cecena che si abbatte sulle città russe sprofondate irrimediabilmente nel sonno.
In ogni caso, quali che siano gli imperscrutabili percorsi della vittoria, essa appare destinata a giungere al traguardo. Quello che accadrà dopo marzo è irrilevante agli occhi degli strateghi della "Famiglia". Infatti a quel punto il risultato - cioè il lungo protrarsi del regime - sarà già stato acquisito pienamente.
C'è soltanto una cosa che non sarà irrilevante agli occhi degli strateghi della "Famiglia": Putin in persona. Che egli sia stato e sia una creatura del clan al potere non vi può essere alcun dubbio. Lo dice a chiare note la cronologia degli eventi. Vi si scorge la traccia della ferina logica politica di Boris Berezovskij, che, dopo avere a lungo flirtato con l'ipotesi di Aleksandr Lebed, ha infine deciso che sarebbe stato meglio usare un uomo del tutto senza carisma. Assicurandosi in tal modo di poterlo manovrare più agevolmente, piuttosto che un uomo ingombrante e ammantato di una propizia legittimazione populista.
Vladimir Putin corrisponde pienamente al sogno del "cardinale ebreo" della "Famiglia". È stato scelto per questi motivi. Ma è pur sempre un gioco d'azzardo quello che si è svolto al Cremlino tra il luglio e il 31 dicembre 1999. Questo gioco sfocia inevitabilmente in un bivio, dove le possibilità di controllo degli strateghi della "Famiglia" potrebbero all'improvviso ridursi a zero. Fino alle elezioni presidenziali Vladimir Putin è soltanto un esecutore. Egli non farà nulla che possa dare un segnale forte di autonomizzazione rispetto ai suoi mentori. Ma l'enorme quantità di poteri che egli concentrerà nelle sue mani a elezioni avvenute potrebbe indurlo in tentazione. Si vedrà soltanto a quel punto, dopo la vittoria elettorale, se egli intende - e può - "mettersi in proprio", oppure se sarà costretto a gestire soltanto la tremenda eredità lasciatagli da Boris Eltsin. Nel secondo caso è ovvio che lo sfacelo della Russia continuerà fino al collasso. Nel primo caso le varianti possono essere numerose, ma tutte implicano una svolta autoritaria, o moralizzatrice, o demagogica, o razionalizzatrice. Non necessariamente anti-occidentale, ma anche non necessariamente tale da garantire la sicurezza della "Famiglia". Si vedrà allora se la pallina della roulette di Berezovskij è finita sul nero o sul rosso.•

 

 

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