"Vivevamo già in un mondo impazzito e non ce n'eravamo accorti. Nei giorni del G8, il dramma incombeva e solo una cosa mi sembrava chiara: il G8, un organismo così potente e così poco rappresentativo, non è in grado di risolvere gli immensi problemi di sei miliardi di persone. L'11 settembre e ora la guerra in Afganistan dicono che abbiamo proseguito sulla stessa strada: invece di coinvolgere il resto del mondo nella risoluzione dei problemi epocali del pianeta, abbiamo riprodotto la politica dei forti contro i deboli". Così, con la passione civile di sempre, parla Giulietto Chiesa di cui è appena uscito G8/Genova (Einaudi, 98 pagine, 14.000 lire, 7,23 €).

Chi cominciasse a essere saturo di G8 (noi umani, si sa, siamo incostanti) non abbia paura: il nuovo libro di Chiesa, va ben oltre le ferite e la rabbia di quei giorni. E collega il G8 di luglio al grande mondo, fino a farci ragionare sul nostro modello di sviluppo, sulle possibilità di governare il pianeta e sulle istituzioni preposte a questo scopo, sulla guerra in Afghanistan...

Un libro lucidissimo, che pur nella brevità del testo solleva domande imperiose del testo solleva domande imperiose e fornisce piste preziose, riflessioni, ma anche cifre, informazioni. Chiesa, che è stato tre giorni per strada in mezzo a tute bianche e nere, polizia e carabinieri, dei fatti che non piacerà a tutti. E' stata la polizia ad attaccare, scrive Chiesa, l'ha visto coi suoi occhi, quel venerdì in cui poi sarebbe morto Carlo Giuliani, una polizia impreparata e che ha fatto errori tattici continui, tutti puntualmente notati dal grande cronista.

Ma dal G8 il libro prende spunto anche per altro, dicevamo. E lo conferma il fatto che Chiesa, fondatore a Genova dell'associazione "Planet", un anno e mezzo prima, già allarmato nel prevedere che sarebbero arrivate in città migliaia di persone decise a protestare ciascuna a suo modo, contro la globalizzazione, aveva proposto al sindaco e alle altre autorità di organizzare incontri, convegni molto prima del G8. Perché tutti Paesi del mondo fossero coinvolti, a pieno titolo, nella preparazione di un vertice altrimenti elitario.

Lei scrive: il G8 di Genova è costato 2000 miliardi. La cifra in favore delle malattie dei poveri del mondo stanziata, sempre a Genova, dai grandi (e annunciata con enfasi) è di 2.500 miliardi. In queste due cifre sta il problema.

L'immenso divario tra i ricchi e poveri del mondo negli ultimi vent'anni si è decuplicato. Secondo i dati dell'Ocse (e non degli antiglobalizzatori!), negli ultimi trent'anni di sviluppo globalizzato, il ritmo di crescita del Pil mondiale è calato dal 4,4 medio annuo a meno del 2 odierno. Si cresce, ma sempre meno e i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Come si gestisce questa crisi e l'onda di odio e terrorismo che porta con sé? Non certo con i G8, colossali spettacoli di potenza teatrale fatti per annunciare che tutto va bene, che il nostro modello di sviluppo funziona alla perfezione...Questo ci è stato detto in luglio a Genova, poi è venuto l'11 settembre. E poi ancora: solo ora sappiamo che la recessione in America era cominciato in marzo. Chi ha fermato lo sviluppo americano? Nessuno, si è fermato da solo, per via della crisi del modello economico che i G8 si guardano bene dal rendere e noto e affrontare. E lo sappiamo solo ora, alla faccia della democrazia e della società dell'informazione.

Lei scrive anche che il nostro modello di sviluppo ha già violentato il pianeta. Se Cina e India ci seguissero sarebbe il tracollo ecologico, come sostiene il movimento no-global.

La globalizzazione va governata, pena la catastrofe della terra. E' per questo che credo che tutte le istituzioni internazionali non bastano più ad affrontare problemi spaventosi che nessuna altra generazione prima di noi si è trovata davanti. Occorrono nuovi organismi di governo del mondo, che mettano insieme scienziati e politici, tutte le teste pensanti di cui disponiamo, per imprimere una svolta intellettuale e morale, toccando interessi finora intatti, andando ben al di là del tra tran di ogni giorno.

Lei dice: la guerra non risolve i problemi. Anzi, li accentua.

Non possiamo passare il tempo a difenderci o a bombardare. La cittadella dei ricchi del mondo sta diventando indifendibile. Solo risolvendo il problema della miseria e della fame di centinaia di milioni di esseri umani, possiamo pensare di vivere in pace. Lo ha detto qualche giorno fa non il leader delle tute bianche, ma Wolfensohn, il presidente della Banca Mondiale. E poi: chi l'ha detto che si può far saltare un intero palazzo per stanare un terrorista? Nessuno in Occidente lo accetterebbe. Abbiamo agito con troppa fretta nel fare questa guerra non dichiarata. Si poteva affrontare il problema con un'operazione di polizia, circondando l'Afghanistan, chiudendo i conti bancari di quegli assassini...

Intervista di Silvia Neonato – IL SECOLO XIX – 13/12/2001

 

Afghanistan, quale vittoria?

A colloquio con Giulietto Chiesa sulla guerra, la geopolitica e gli affari

Un allarmante rapporto della Cia, reso noto l'altro ieri, annuncia che
l'Afghanistan rischia di precipitare nel caos con i "signori della
guerra", armati peraltro dagli americani, sempre più aggressivi fra loro
e con un governo provvisorio sempre più debole nell'affrontare gli
scontri fra le etnie. L'Agenzia di intelligence americana vede nella
costituzione di un esercito nazionale afghano la soluzione ai rischi di
una possibile nuova guerra civile nel paese, ma la creazione di un
esercito regolare prevede tempi lunghi: sei mesi, secondo quanto
riferisce il rapporto Cia. Nel frattempo il ministro del Turismo del
governo Karzai è stato assassinato mentre tagiki, uzbeki e pashtun sono
tornati a scontrarsi al nord come al sud del paese. Nel frattempo
nessuno parla più dell'Afghanistan, nè di Osama bin Laden o del mullah
Omar che fino a poche settimane fa riempivano le prime pagine di tutti i
giornali. Di queste cose abbiamo parlato con
Giulietto Chiesa, esperto
delle repubbliche asiatiche ex sovietiche.

Gli Stati Uniti adesso sembrano in difficoltà nell'affrontare il
dopo-talebani. Che cosa succede in Afghanistan?

E' evidente che il problema è di gran lunga più complesso di come è
stato presentato. Così come la vittoria che è stata promulgata
ufficialmente è in realtà una vittoria di Pirro: nessuno dei problemi
alla radice della questione e stato affrontato e risolto. Sono stati
eliminati i talebani, ma tutte le cause profonde di questo fenomeno non
sono state eliminate, né i bombardamenti potevano farlo.


A quali cause ti riferisci esattamente?

Mi riferisco in primo luogo ai grandi interessi geopolitici che hanno
provocato il disastro degli ultimi vent'anni. Non attribuisco alle
ostilità interetniche afghane un'importanza determinante in questa
tragedia. Tant'è vero che prima dell'intervento sovietico e prima che
l'Afghanistan diventasse "interessante" per le potenze esterne le etnie
afghane sono riuscite a convivere tranquillamente per decenni. E'
evidente dunque che non sono le etnie la causa della guerra ma gli
interessi esterni stessi delle grandi potenze che hanno travolto la
fragile storia di questo paese.


Quali sono gli interessi ancora in campo che il conflitto americano non
ha risolto?

In primo luogo gli interessi pakistani sull'Afghanistan, poi quelli
iraniani che contrastano alla radice con quelli pakistani, in terzo
luogo gli interessi russi sull'area e infine quelli americani che, in
coincidenza con la scoperta dell'immenso bacino petrolifero del Mar
Caspio, sono diventati dominanti. Ripeto, sono proprio questi interessi
esterni che hanno provocato la guerra afghana e che l'hanno portata
avanti per vent'anni.


Quindi la cacciata dei talebani da Kabul non ha risolto niente.

Appunto. Non solo non sono stati risolti i problemi, ma le etnie
continuano a essere usate dai protagonisti esterni come grimaldelli per
giocarsi ognuno le proprie carte. Non esiste, ad esempio, alcun accordo
fra Russia e Stati Uniti, come sostengono solo alcuni pennivendoli
ignoranti che scrivono prevalentemente sulla stampa italiana, è evidente
invece che sia Washington che Mosca stano facendo i propri giochi, gli
uni usando i pashtun e gli altri i tagiki. E questo vale anche per
l'Iran: più l'America alza la voce, considerando l'Iran un "asse del
male", più Teheran mette i bastoni fra le ruote dell'amministrazione
Bush facendo agire in Afghanistan le tribù sciite dell'ovest del paese.
Più Washington si ingegna a trovare una soluzione americana più i tagiki
e gli uzbeki protestano e più prende posizione in Afghanistan a favore
del Pakistan meno la Russia, alleata dei tagiki, è lieta. Voglio dire
che, poichè tutte queste questioni sono ancora aperte, la guerra afghana
non è finita affatto e minaccia di ripartire in ogni momento.


Anche i problemi economici sono determinanti nel caos afghano?

Gli americani e in parte gli europei si sono illusi che innondando il
paese di dollari e comprando i capi militari si potesse risolvere ogni
problema. Ma perchè questo meccanismo funzionasse occorreva una grande
quantità di denaro. I capi che hanno gestito l'Afghanistan hanno anche
gestito l'immenso traffico della droga: un traffico che ora deve essere
sostituito con un analogo gettito finanziario che viene calcolato
nell'ordine di almeno dieci miliardi di dollari.


La stessa cosa vale per il Pakistan
Anche l'economia pakistana era strettamente connessa con il flusso di
denaro proveniente dalla vendita della droga. E allora, o gli Usa
compensano questo flusso con un altro analogo, oppure sarà sempre più
difficile tenere buone le élite pakistane che avevano messo in piedi il
regime dei talebani proprio per garantirsi questo traffico. Ora il
problema è che queste élite cercheranno di creare il massimo delle
difficoltà agli Usa. L'allenza fra Bush e Musharraf non risolve alcun
problema: nel Pakistan ci sono troppi interessi che non collimano con
quelli americani. Come si vede dunque, la situazione è talmente
complicata e pericolosa da escludere una facile soluzione pacificatrice
attraverso un intervento sui comandanti militari afghani.

Paola Pittei - Liberazione, sabato 23/02

 

 

 

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