I dati usciti dagli scrutini confermano il successo dell'Ulivo
annunciato dalle prime proiezioni. In calo l'affluenza al voto
Vittoria al centrosinistra
in nove comuni su undici
A Verona, Gorizia Alessandria, Asti e Piacenza
l'Ulivo strappa le amministrazioni al Polo

ROMA - Il centrosinistra si aggiudica questa tornata di ballottaggi prendendo il sindaco in nove delle undici città più importanti chiamate a votare. Fin dalle prime proiezioni si era capito che le liste dell'Ulivo e Rifondazione avrebbero potuto gioire, poi i dati certi usciti dai seggi hanno confermato l'impressione. Il dato riassuntivo è chiaro. Nelle consultazioni comunali il centrosinistra vince a Gorizia, Verona, Piacenza, Alessandria, Cuneo, Asti, Frosinone, Cosenza e Carrara, perde solo ad Oristano ed Isernia. Nelle provinciali, invece, la Lega si aggiudica Treviso con un plebiscito, il centrodestra si conferma a Vercelli mentre il centrosinistra vince a Campobasso. Nel totale della consultazione elettorale su 27 amministrazioni comunali il centrosinistra ne conquista 14 (+4 rispetto alle ultime elezioni) e la Casa delle Libertà 13, perdendone 4. Per quanto riguarda le Province: si partiva da 5 per ogni schieramento ed oggi sono 6 del centrodestra e 4 del centrosinistra.

Come nel primo turno, dunque, il centrosinistra torna a vincere al nord, si riprende Piacenza, espugna Verona dove gli avversari erano dilaniati da lotte intestine, sfonda in città di tradizione leghista come Alessandria e Asti e tiene Cuneo. Il centrodestra, invece, conferma la sua solidità al sud del Paese vincendo ad Oristano e strappando Isernia al centrosinistra.

A Verona, città importante che la Casa delle Libertà aveva un po' eletto a sua vetrina (Berlusconi era andato di persona nella città scaligera durante la campagna elettorale), il centrosinistra approfitta al meglio delle divisioni nello schieramento avversario e riesce a far eleggere Paolo Zanotto con il 54% dei voti, la stessa percentuale raggiunta dal neosindaco di Alessandria Mara Enrica Scagni e da quello di Piacenza Roberto Reggi. E se a Gorizia l'Ulivo ha vinto sul filo dei voti con il 50,7% ottenuto da Vittorio Brancati netta è stata la conferma di Cosenza che ha eletto Eva Catizone con il 56% dei voti (percentuale non ancora definitiva). Caso particolare quello di Monza, una delle roccaforti della casa delle Libertà dove, a sorpresa, il candidato del centrosinistra e Prc Michele Faglia ha battuto un pezzo da novanta come l'ex ministor del primo governo Berlusconi Roberto Radice che si è dovuto accontentare del 46,6% contro il 53,4 ottenuto dal suo avversario.

Il centrodestra, invece, confermatosi ad Oristano, ha stravinto ad Isernia strappata agli avversari con il 64% raggiunto dal candidato Gabriele Melogli. E ancora meglio è andata al candidato leghista alla provincia di Treviso Luca Zaia che ha conquistato il 69 per cento dei consensi.

L'affluenza alla urne è stata comunque in calo rispetto a quella registrata al primo turno: alle comunali ha votato il 66,4 per cento degli aventi diritto. Domenica 26 e lunedì 27 maggio si era recato ai seggi il 76,3 per cento degli elettori. Per l'elezione dei presidenti delle tre amministrazioni provinciali (Vercelli, Treviso, Campobasso) ha votato il 51,1 per cento degli aventi diritto, contro il 64,9 per cento del primo turno.

(10 giugno 2002)

COMUNI

Alessandria (uscente: Lega Nord)

Risultati definitivi
Mara Scagni (centrosinistra): 53,9%
Tino Rossi (centrodestra): 46,1%

Asti (uscente: centrodestra)

Risultati definitivi
Vittorio Voglino (centrosinistra): 54,6%
Luigi Florio (centrodestra: 45,4%

Carrara (uscente: centrosinistra)
Risultati definitivi
Giulio Conti (centrosinistra): 54,2%
Giulio Andreani (centrodestra): 45,8%

Cuneo (uscente: centrosinistra)

Risultati definitivi
Alberto Valmaggia (centrosinistra): 53%
Angelo Giordano (centrodestra): 47%

Piacenza (uscente: centrodestra)

Risultati definitivi
Roberto Reggi (centrosinistra): 54,6%
Gianguido Guidotti (centrodestra): 45,4%

Gorizia (uscente: centrodestra)

Risultati definitivi
Vittorio Brancati (centrosinistra): 50,07%
Guido Pettarin (centrodestra): 49,93%

Verona (uscente: centrodestra)
Risultati definitivi
Paolo Zanotto (centrosinistra): 54,1%
Pierluigi Bolla (centrodestra): 45,9%

Frosinone (uscente: centrosinistra)

Risultati definitivi
Domenico Marzi (centrosinistra): 54,4%
Nicola Ottaviani (centrodestra): 45,6%

Isernia (uscente: centrosinistra)
Risultati definitivi
Alfredo D'Ambrosio (centro): 35,9%
Gabriele Melogli (centrodestra)
: 64,1%

Cosenza (uscente: centrosinistra)

Risultati definitivi
Eva Catizone (centrosinistra): 56,7%
Umberto De Rose (centrodestra) : 43,3%

Oristano (uscente: centro)

Risultati definitivi
Linalba Ibba (centrosinistra): 47,1%
Antonio Barberio (centrodestra): 52,9%



PROVINCE

Campobasso (presidente uscente: centrosinistra)
Risultati definitivi
Augusto Massa (centrosinistra): 56,4%
Antonio Ventresca (centrodestra): 44,1%


Treviso (presidente uscente: Lega Nord)
Risultati definitivi
Diego Bottacin (centrosinistra): 31,1%
Luca Zaia (Lega Nord): 68,9%


Vercelli (presidente uscente: centrodestra)
Risultati definitivi
Gianni Mentigazzi (centrosinistra): 47,3%
Renzo Masoero (centrodestra): 52,7%


(10 giugno 2002)

 

La sinistra che mi piace di Gianni Cuperlo

Piero Sansonetti ha proposto l'altro ieri su questo giornale un'analisi stimolante sull'evoluzione della linea dei Ds nei mesi successivi al congresso di Pesaro. La tesi, se mi è consentita la sintesi, è quella di «una svolta a sinistra». Basta con le vecchie parole d'ordine come modernizzazione e flessibilità. Oggi, e cito l'articolo, «si parla di cose completamente diverse: difesa dei diritti dei lavoratori, e in qualche modo lotta alla flessibilità, difesa degli immigrati, battaglia contro lo strapotere televisivo e giornalistico della destra». La sinistra insomma, passata la sbornia modernizzatrice, sarebbe tornata a fare il suo mestiere. E pure bene, visti i primi risultati del voto amministrativo. Ora, la tesi di Sansonetti, per quanto argomentata, non convince. In primo luogo per il giudizio sul passato recente. Sostenere, a meno di un anno da Pesaro, che le cose sono radicalmente cambiate e che adesso si difendono i diritti dei lavoratori, implica che prima di adesso quei diritti non siano stati tutelati e difesi. O almeno che non lo si è fatto in modo adeguato. Ne consegue una valutazione critica sulle scelte che pure hanno consentito a Piero Fassino di aggregare intorno a una piattaforma di contenuti e valori una solida maggioranza dei consensi congressuali. Diciamolo in altro modo. La leadership diessina per il fatto stesso di trovarsi all'opposizione e sotto le spinte «del movimento no-global, del sindacato e dei girotondi», avrebbe preso atto che la strada della rivincita non passa per l'offerta di un progetto d'innovazione più credibile ma per la difesa dei diritti acquisiti e contro l'impianto falsamente modernizzante della destra. «Resistere, resistere, resistere», ricordate? Dovendo restituire a Cesare quel ch'è suo, e sempre da lì - da quell'ammonimento autorevole - che si deve ripartire ed è lì, infine, che l'analisi ritorna e s'impianta. Se le cose stessero davvero così, non solo avrebbe ragione Sansonetti ma è probabile che Berlusconi si ritroverebbe a governare il paese per i prossimi due lustri e forse più. Un po' come accadde ai laburisti inglesi con la Thatcher. E questo, sia chiaro, non perché i diritti di chi lavora o degli immigrati o delle altre categorie più deboli sulle quali Tremonti scarica il prezzo di una crescita fantomatica, non rappresentino una barriera invalicabile. Ma per un motivo diverso. E cioè che, piaccia o meno, la destra vince - in Italia e purtroppo non solo qui - offrendo soluzioni semplificate e dannose a problemi reali. E costruendo intorno a quelle soluzioni, condite di formule e messaggi efficaci, il proprio radicamento e consenso. Ora, di fronte a questa situazione, ritenere che la sinistra batta un colpo quando fa la sinistra per davvero, e dunque quando abbandona l'idea bizzarra di dotarsi d'una sua concezione della flessibilità senza subire quella selvaggia dei propri avversari, è una posizione che preoccupa. Perché rinchiude la sinistra e la sua cultura nel recinto di un'identità rigida e immodificabile. Regalando agli altri non solo un vantaggio psicologico - la percezione di parlare del futuro mentre noi difendiamo l'esistente - ma l'agenda dei temi che in quel futuro domineranno, a partire dalla riforma del mercato del lavoro, delle forme di flessibilità individuale, degli ammortizzatori sperimentati fin qui e via di questo passo. Naturalmente ciò non significa che la battaglia per la difesa dell'articolo 18 sia sbagliata. Quella è una grande questione di principio, di libertà e tenuta di un fronte sindacale e politico che non può consentire al governo di usare la modifica d'un diritto acquisito come grimaldello per scardinare l'intero sistema di garanzie e tutele consolidatosi negli anni. Ma il punto non è questo. È nel fatto che quella stessa battaglia vedrà la sinistra più forte se sapremo accompagnare la difesa dei diritti esistenti con una loro ragionevole espansione ai milioni di giovani, e non solo, finora esclusi o marginali rispetto ad essi. Ecco perché una sinistra che «non parla più di flessibilità» non è più forte e compatta di prima. Anzi, dal momento che flessibile non sarà soltanto il lavoro, ma più in generale la gestione del tempo, l'accesso ai consumi individuali e ai servizi e la dimensione stessa della propria vita, il rischio è quello di una sinistra meno credibile e che possiede minori strumenti e linguaggi e opportunità per recuperare una quota dei consensi che, solo pochi mesi fa, si sono accasati altrove. Il nostro problema vero, a dirla tutta, è che anche su questo terreno strategico - l'immagine di sé che si trasmette all'esterno - tendiamo ad apparire peggiori di quel che siamo. E personalmente trovo questo un aspetto davvero sconcertante. Pensiamo alle polemiche degli ultimi giorni e al modo in cui se n'è riferito. Non entro nel merito della discussione, anche se appare evidente l'inopportunità dell'assegnare pagelle alle legittime scelte del sindacato. Di ogni sindacato, compresa dunque la Cgil. Mi limito a notare che di fronte all'azione del governo avremmo fatto meglio, tutti insieme, a rivendicare i contenuti della «carta dei diritti del lavoro» messa a punto dall'Ulivo e che estende le tutele attuali anche ai sette milioni di lavoratori atipici oggi privi di ogni difesa. Voglio dire che il profilo dell'opposizione, e della sinistra riformista in particolare, passerà sempre di più dalla nostra capacità di contrastare nel merito le politiche del governo. E di farlo senza rimanere schiacciati in una posizione esclusivamente difensiva. Noi non torneremo a vincere soltanto inanellando una serie di sacrosanti e fermissimi "no". E neppure se scioglieremo a giorni o settimane il garbuglio della futura leadership. Che, per inciso, si scioglierà da solo quando verrà il tempo, sulla base di un processo democratico e senza deleghe a questo o quell'editore di giornale. Il punto è che oggi, dopo il risultato incoraggiante delle amministrative, abbiamo bisogno di rilanciare proprio quel disegno d'innovazione e modernizzazione del paese che altri - e il governo in primo luogo - vorrebbe definitivamente archiviare, rispolverando l'italietta dei favori all'impresa, delle promesse mirabolanti e dei fallimenti mascherati. Ecco perché non convince l'idea di una «ricollocazione» dei Ds, sospinti dagli eventi verso un'opposizione dura e intransigente. Perché non riflette, a mio parere, la natura della discussione interna a noi. Ma soprattutto perché riduce lo spessore dei problemi che abbiamo davanti - e che non investono solo il riformismo italiano - a una questione di toni o di tattica. La verità è che dell'immigrazione come dei diritti dei lavoratori ci siamo occupati sempre nel corso degli ultimi anni, prima dal governo e poi dall'opposizione. Non è dunque la scelta di questi o di altri temi l'elemento di novità, ma il bisogno di elaborare e imporre soluzioni più forti e credibili delle impronte digitali o del taglio delle garanzie. «Modernità e diritti», come si disse a Pesaro. O «modernizzazione e progresso» per citare Delors. Il nodo è sempre lo stesso. Come consentire alla sinistra di tornare a giocare all'attacco. Certo, in questo quadro tanto più c'è bisogno di serrare le fila riscoprendo il valore dell'unità della coalizione. Dobbiamo allargarne il raggio e fissare nuove regole di vita interna a partire dalla nomina di due portavoce unici per Camera e Senato. Poi sarà il tempo a dire se, chiuso il ciclo riformatore degli anni '90, si creeranno le condizioni di una ripresa accelerata delle forze di sinistra e progressiste. Certo, speriamo tutti che questo avvenga. Ma per favorire un esito del genere, come è del tutto ovvio, non saranno irrilevanti le nostre scelte e i contenuti di un nuovo riformismo.

 

Il neoliberismo fa bene alla mafia

di Giuseppe Di Lello

Il decennale della strage di Capaci va celebrato nella consapevolezza di quanto è stato fatto - in positivo e in negativo - e di quanto è diventato difficile il da farsi in una fase storica caratterizzata, a livello europeo, dal dominio del pensiero e della pratica neoliberista. Lasciamo da parte la semplificazione del "calo di tensione", che non spiega nulla e, nella sua vaghezza, si presta ad essere usata da tutti contro tutti. Cerchiamo di attenerci ai fatti e torniamo al contesto, quanto meno siciliano, per analizzare il passato e cercare di capire se c’è una qualche via d’uscita per il futuro.
La repressione giudiziaria, a partire dai primi anni ’80, è innanzitutto iniziata per grande merito di tanti - a partire da Costa e Chinnici, per seguire con Falcone e Borsellino - ed è poi proseguita sino ai nostri giorni, con Caselli e Grasso.
Essa è stata intensa ed efficace, sia nell’area militare che in quella "grigia" dei fiancheggiatori, mentre non ha mietuto grandi successi nell’area politica. Anche perché, proprio in quest’ultima, si è interrotta quella tendenza giurisprudenziale che faceva aggio più sulla credibilità del "dichiarante" in sé che su quella delle dichiarazioni. Che questa "svolta" giurisprudenziale integri più un ritorno ad una specie di "giustizia di classe" che ad una corretta interpretazione delle regole processuali di valutazione della prova è un problema ancora aperto. Così come è aperto il problema della bontà di uno strumento processuale (e del suo uso) che consente il protrarsi di giudizi, per un solo imputato, per quattro, cinque e sei anni: rilevarlo comporterebbe una discussione pacata e non grida di vergini violate o di accuse di "adeguamento" al fronte dei denigratori della giustizia e dei giudici.
Sta di fatto che alla fine di questa opera repressiva ritroviamo una mafia forte quanto prima e padrona come non mai del territorio. Basta leggere le statistiche fornite dalla relazione del Commissario Tano Grasso sulla consistenza attuale del racket e dell’usura, prontamente "rimosse" dall’attuale governo: a cominciare dal suo autore, scomodo come tutto ciò che incide effettivamente nella lotta alla mafia.
Questa azione giudiziaria aveva, comunque, compromesso la totale impunità mafiosa e aveva ridato fiato al protagonismo sociale. Se le stragi mafiose hanno ingigantito e dato voce alla indignazione popolare, i maxiprocessi avevano ridato alla società civile forza di opporsi alla mafia a tutti i livelli. Nella "primavera" di Palermo e nella miriade di amministrazioni locali progressiste, si può leggere una interazione tra la caduta del muro della impunità, dovuta all’azione della magistratura, e la fiducia dei cittadini nella possibilità del cambiamento.
Certo gli interessi del blocco politico-mafioso restavano solidi e si riorganizzavano, a partire dalla vittoria berlusconiana del 1994, intorno ad una "nuova" classe politica erede diretta della vecchia, ma la spada di Damocle del controllo giudiziario rendeva tutto più difficile per i mafiosi e la loro rappresentanza politica.

La legge elettorale maggioritaria - fortemente voluta anche da ampi strati del centrosinistra - e le altre leggi di questo schieramento politico, propedeutiche all’attuale attacco ai diritti dei lavoratori, dei sindacati e alla scuola pubblica per citarne alcune, ridavano "speranza" agli interessi del blocco di potere neoliberale e mafioso.
La fava della legge elettorale maggioritaria, in particolare, ha permesso al potere mafioso di prendere due piccioni.
Da un lato le organizzazioni criminali sono ritornate protagoniste delle contese elettorali perché, con un minimo sforzo (con pochi voti che fanno la differenza), riescono a massimizzare il risultato: in Sicilia 61 collegi maggioritari su 61 ne sono la prova lampante, ma se si facesse un’analisi anche in molti altri collegi del Sud si avrebbe una conferma di questo assunto.
Dall’altro, questo massiccio apporto in seggi permette di fondare a livello nazionale un potere di governo inattaccabile, funzionale agli interessi criminali: basta ricordare il primo lotto di leggi berlusconiane.
Forte di una enorme maggioranza parlamentare non giustificata dai voti in assoluto, oggi il Polo berlusconiano muove compatto a minare le basi dello Stato di diritto delineato dalla nostra Costituzione repubblicana, con un progetto necessariamente complessivo. Berlusconi sa, infatti, che non può imporre il suo disegno neoliberale vanificando "solo" l’indipendenza della magistratura e i controlli di legittimità, abolendo "solo" l’articolo 18, privatizzando "solo" la scuola o la sanità, varando leggi che vanificano "solo" la lotta alla mafia, favorendo "solo" l’impunità della repressione dell’opposizione sociale: deve fate tutto e tutto insieme perché solo così può vincere sull’intero fronte.

A fronte della complessività dell’azione della destra deve svilupparsi una speculare complessività dell’azione della sinistra, ivi compresa quella del fronte antimafia che non può credere di poter difendere, per esempio, il diritto della magistratura ad essere indipendente senza sposare in pieno anche la difesa degli altri diritti, civili e sociali.
Politici, magistrati, professori, impegnati a gridare la propria indignazione per il "calo di tensione" antimafia (o, molto più riduttivamente, per protestare contro la spartizione del bottino Rai che "questa volta" non ha favorito il centrosinistra), li vorremmo concretamente a fianco di chi lotta per la casa, per l’acqua, per i diritti degli immigrati, perché sia fatta giustizia per i pestaggi di Napoli e Genova, per Sofri condannato senza prove, per l’incredibile "malore attivo" di Pinelli, contro i contratti a termine e la precarietà senza diritti e senza futuro, e via elencando.
Vorremmo, insomma, che alla protesta si accompagnasse la lotta per un progetto di cambiamento e non di alternanza.
Il progetto neoliberista di società che vuole Berlusconi è, come si è detto, funzionale al potere mafioso e non c’è nessuna prospettiva di lotta alla mafia, a nessun livello, se non si lotta contro questo progetto.
Giovanni Falcone non era un rivoluzionario, ma se l’hanno ammazzato è perché con la sua azione costruiva un tassello per una società più giusta. Non si strumentalizza il suo ricordo se si dicono queste cose. Ma, anzi, si aiuta a comprendere cosa bisognerebbe fare perché la sua vita e il suo sacrificio abbia§no - almeno per noi di sinistra - un senso. 23 maggio 2002

Fao, in marcia per terra e cibo
Un forum che sarà sospeso per tutto il tempo della partita Italia-Croazia, una campagna contro i brevetti sugli esseri viventi e blitz a sorpresa anti-ogm. E un grande corteo, oggi pomeriggio a Roma, per chiedere libertà e diritti per sindacalisti e contadini arrestati nel mondo. In vista del vertice Fao e del Forum delle Ong, in programma da domani

 

 

ANGELO MASTRANDREA
ROMA


Sarà una giornata densa di appuntamenti, quella odierna, per il popolo cosiddetto dei no global, alla vigilia del vertice della Fao che vedrà riuniti 150 capi di stato da tutti i paesi del mondo. In mattinata, riprendono i lavori dei forum sociali al Campidoglio. Con una pausa di novanta minuti a partire dalle 11, quando al dibattito si sostituiranno le parole di Pizzul e le immagini di Italia-Croazia proiettate su maxischermo, e l'altro mondo possibile dovrà attendere il triplice fischio dell'arbitro per riprendere a essere costruito. Quasi contemporaneamente, alle 12, il Forum delle ong presenterà alla stampa il programma dei prossimi dei seminari e workshop dei prossimi giorni. Nel pomeriggio, tutti in corteo dalle 16 (da piazza della Repubblica a piazza Venezia, con appendice finale in serata alla Bocca della verità, per un concerto con Teresa de Sio, Gang, Bisca ed Elettrojoice) per rivendicare «terra e dignità» e per chiedere la liberazione dei sindacalisti agricoli, lavoratori e militanti contadini e dei popoli nativi incarcerati in diversi paesi del sud del mondo, dal Bangladesh al Chiapas.

Sarà il ritorno in piazza in grande stile del popolo dei no global, che forse sarebbe più improprio che altre volte definire tale, vista la varietà e la diversità degli aderenti alla marcia, dalle centinaia di organizzazioni internazionali ai sindacati (Cgil, Uil e Cobas) alle numerose organizzazioni non governative, ai partiti del centrosinistra (Ds, Verdi, Pdci e Prc). E poi ancora le reti nazionali, dalla Rete Lilliput ai social forum, e organizzazioni di categoria contadine come la Coldiretti. Le stime parlano di 50 mila persone che sfileranno per le vie della capitale, senza avvicinarsi all'area del vertice, chiusa al traffico e supersorvegliata ma, assicura la prefettura, senza alcuna «zona rossa» come a Genova o a Napoli. Cifre inferiori a quelle previste se il vertice si fosse svolto, come previsto, a novembre, e se di mezzo non ci fossero stati l'11 settembre e la «guerra globale permanente», le mobilitazioni contro le politiche del governo Berlusconi e lo sciopero generale. E che fanno temere che la stanchezza possa far diminuire ulteriormente la partecipazione.

Dell'allarme sicurezza, che puntualmente campeggia su tutti i maggiori quotidiani, nemmeno vale la pena parlare, visto che, come ha per l'ennesima volta ribadito ieri mattina nella conferenza stampa di presentazione al Campidoglio Vittorio Agnoletto, «la Fao non è il G8» e «la sua legittimità non è in discussione». «Non vogliamo lottare contro la Fao, vogliamo rafforzare semmai il suo ruolo e modificare i suoi obiettivi, correggere le sue politiche agricole», ha detto Agnoletto, che ha poi sottolineato il legame dell'agenzia delle Nazioni unite con il Wto: «Quello che chiediamo è che il regolamento sul commercio e l'agricoltura esca dalle politiche del Wto e che l'Unione europea rinunci alle politiche protezionistiche che affamano i paesi poveri. Vorremmo che l'accesso all'acqua, preliminare se si parla di agricoltura, sia considerato prioritario dal momento che un miliardo di contadini non dispone di acqua potabile e che il 38 per cento delle risorse idriche sono inquinate».

Ma il corteo non sarà l'unica forma di mobilitazione. Azioni specifiche hanno già colpito e colpiranno nei prossimi giorni le coltivazioni transgeniche, che in Italia sono permesse solo per motivi di ricerca in campo zootecnico, ossia per la produzione di mangimi e sementi. La maggior parte di questi campi appartengono a università, istituti di ricerca e multinazionali. E proprio a un'università, quella della Tuscia di Viterbo, è toccato assistere a un blitz, martedì mattina, di una cinquantina di «disobbedienti». Mentre ieri è toccato a un campo di soia transgenica nei pressi di Monselice (Padova). Ancora una volta, una cinquantina di «disobbedienti», tra i quali Luca Casarini e il prosindaco di Venezia, il verde Gianfranco Bettin, ha invaso e sradicato un intero campo di soia. Mentre per oggi è previsto l'arrivo di Josè Bovè, che promette azioni eclatanti. Sempre oggi sarà lanciata dal gruppo di lavoro sulla Fao dei social forum la campagna «Sbrevettiamoci». L'idea, ha spiegato Gianni Fabbris, «è quella di intasare tutti gli uffici brevetti invitando i cittadini a spedire il brevetto della mappa genetica di se stessi, degli amici, della nonna o magari del cane».

 

Cofferati incalza i Ds
«Impossibile cavarsela con le `differenze di metodo'. Un pronunciamento è inevitabile»
ANDREA COLOMBO
ROMA


«Le polemiche di questi giorni dovranno essere risolte con un pronunciamento di merito da chi le ha promosse. Nessuno se la caverà dicendo che ci sono differenze di metodo. C'è una sostanza dura, che costringe ciascuno a pronunciarsi». La frecciata che Sergio Cofferati lancia da Modena è rivolta prima di tutto a Francesco Rutelli, promotore numero uno delle «polemiche» in questione. Ma nel mirino c'è anche il segretario dei Ds Piero Fassino che, con la sua dottorale distinzione tra «il merito e il metodo», ha cercato di non prendere posizione nello scontro tra Rutelli e la Cgil. Non certo a caso, del resto, il cinese aggiunge: «Consiglierei un po' d'attenzione a quanti, a sinistra pensano che il partito sia il monolite che decide tutto. Potrebbero scoprire che la priorità sta da un'altra parte». Al segretario della Cgil non deve essere piaciuta l'offensiva diplomatica scatenata dal leader della Quercia dopo le critiche rivolte dal correntone e da Angius a Francesco Rutelli. Prima la sconfessione pubblica del suo capogruppo al senato. Poi l'intervista a
Repubblica, dettata solo dalla preoccupazione di rassicurare Rutelli (sia pur bacchettandolo lievemente per l'attacco alla Cgil), sino a sottolineare che il presidente della Margherita resterà leader della coalizione sino al 2004. E ieri una nuova intervista, stavolta a La7, in cui il leader diessino esorta tutto l'Ulivo a «non aiutare Berlusconi con le nostre divisioni» e garantisce che «Cofferati non ci fa litigare. Sull'art.18 c'è un punto di unità sostanziale: tutti i sindacati dicono che non va modificato. Anche nell'Ulivo sono tutti d'accordo su questa posizione».

La preocupazione di Fassino per gli imminenti ballottaggi è comprensibile, ed è ovvio che tutti i leader ulivisti si appiglino alle sue parole per evitare ulteriori risse. Ma se tutti le sottoscrivono, è pur vero che lo fanno dandone interpretazioni opposte. Il capogruppo della Margherita Monaco è felice perché il diessino «ha sgombrato il campo dalle polemiche sulla leadership», cioè sul ruolo di Rutelli. Ma il cossuttiano Rizzo, se accetta di rinviare al 2004 il nodo della candidatura, aggiungeperò che sino a quel momento la coalizione resterà senza leader. E quando Mastella si complimenta con Fassino per il suo «buon senso che prutroppo non viene praticato da altri» ha in mente proprio Rutelli.

Ma le polemiche sulla guida del centrosinistra, pur non essendo certo gratuite, sono davvero il meno. Il punto dolente è che nella sua ansia di sedare i conflitti, Fassino finisce per apparire equidistante. Finge infatti di non vedere che i sindacati non sono fatto uniti, che Cisl e Uil marciano verso l'accordo separato, che la Cgil le accusa esplicitamente di mirare a un «bipolarismo sindacale», cioè di volersi legare al governo (accusa fieramente respinta da Pezzotta: «La Cisl è un sindacat autonomo e tale resterà a dispetto del signor Cofferati»).

Cosa ancor più grave, Fassino cerca di ignorare la divisione, tutta di merito, che c'è nell'Ulivo sull'art. 18 e sul lavoro in genere. Mentre ieri il capo diessino si affannava a garantire che tutto il centrosinistra la pensa allo stesso modo, l'ex ministro Treu, consigliere numero uno di Rutelli in materia, diceva forte e chiaro che, se tornasse al ministero del Lavoro, modificherebbe l'art.18, senza tacere il sospetto che «la Cgil abbia deciso di dire di no a prescindere». Parole identiche a quelle usate spesso dal suo successore Roberto Maroni.

Non tutta la Margherita è su queste posizioni. L'insofferenza dei prodiani doc è sempre più palpalbile. La voce di un incontro segreto tra Parisi e Cofferati, per quanto doverosamente smentita dalla Margherita, è di per sé eloquente. Ma il grosso della formazione, incluso tutto lo stato maggiore del Ppi Rosi Bindi esclusa, condivide la tattica adottata dall'ex sindaco. Tattica che trova nell'incontro di oggi a Londra con Clinton e Blair una delle sue articolazioni fondamentali. Anche in questo caso Fassino ha fatto l'impossibile per sminuire il caso: «Non è una riunione di segretari di partito. Mi sento rappresentato da Rutelli e Amato». Sta però di fatto che Blair (del quale giustamente Berlusconi dice: «Condividiamo gli stessi principi, gli stessi valori, le stesse diagnosi dell'economia») non potrà non dare la sua benedizione a una intepretazione del «riformismo» che esclude la difesa di particolari come l'art.18. Al ritorno in Italia, Rutelli cercherà di mettere quella benedizione all'incasso.


 

Un voto dal significato europeo

IL VENTO DI PARIGI E LA VELA DI BLAIR

I socialisti francesi non hanno perso tutte le speranze e si augurano ancora che il popolo degli assenti correggerà domenica prossima con la sua presenza i cattivi risultati del primo turno. E’ possibile. Ma la forte astensione di ieri è già, di per sé, un voto contro la sinistra. Ricordate? Quando Jacques Chirac conquistò la presidenza con l’82% dei suffragi, i leader progressisti sostennero che molti di quei voti non erano suoi. Si disse che erano in buona parte i voti «repubblicani» della Francia a cui premeva anzitutto sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen, leader della destra xenofoba. Avevano votato «gollista», dopo il disastroso risultato del turno precedente, perché senza scelta. Ma avevano capito di aver commesso un errore e l’avrebbero corretto in occasione delle elezioni legislative. Se questa previsione non si è avverata, la sinistra ha subìto ieri una nuova disfatta. Cerchiamo allora di capire, in attesa del secondo turno, perché tanti francesi, con il loro voto o la loro indifferenza, abbiano virtualmente consegnato alla destra, per i prossimi cinque anni, il governo del Paese. Credo che le ragioni siano almeno due. Prima ragione. Con le sue stizzite e orgogliose dimissioni, Lionel Jospin ha creato un vuoto al vertice del suo schieramento. Per convincere i francesi che la crisi era stata superata occorreva scegliere un leader e proporlo al Paese. Più che il nome e la persona contava in quelle circostanze l’effetto che tale decisione avrebbe avuto sulla pubblica opinione. Scegliere un capo avrebbe dimostrato che la sinistra era pronta ad accettare la sua leadership e aveva quindi ritrovato la propria unità. Quando fu chiaro che la scelta sarebbe stata rinviata a un momento successivo, il Paese capì che i socialisti e i loro alleati erano ancora divisi e poco adatti, di conseguenza, a governare. Chi era deluso dalla frammentazione del blocco progressista è rimasto a casa e ha votato, di fatto, per Chirac.
Seconda ragione. La Francia conosce i difetti della coabitazione e vuole tornare alle origini della Quinta Repubblica. E’ accaduto per molti aspetti ciò che accadde quando il generale de Gaulle, dopo i moti studenteschi del maggio 1968, sciolse l’Assemblea nazionale e chiamò i suoi connazionali alle urne. Non tutti coloro che votarono per lui in quelle circostanze erano gollisti. Ma erano certamente desiderosi di uscire dall’incertezza con una maggioranza autorevole. Vi sono momenti in cui i francesi, dopo essersi lasciati travolgere dalle passioni di parte, danno prova di una straordinaria e cartesiana lucidità. Sanno meglio degli italiani che la democrazia è anzitutto nella chiarezza dei mandati e nell’efficienza dei governi. La vittoria della destra, oggi, non pregiudica il futuro della sinistra, ma garantisce il buon funzionamento della macchina istituzionale. Chirac governerà, nei prossimi cinque anni, perché la Francia, indipendentemente dalle preferenze degli uni e degli altri, vuole essere governata.
Comunque vada domenica prossima, queste elezioni hanno anche un significato europeo. Non penso al vento di destra che sembra soffiare da qualche tempo sull’Europa continentale. Penso soprattutto all’Internazionale democratica che il primo ministro britannico Tony Blair ha proposto nelle scorse ore, durante una riunione in Inghilterra, ad alcuni rappresentanti delle forze progressiste occidentali. Se i socialisti francesi vincessero, il disegno di Blair si scontrerebbe nei prossimi mesi con le resistenze della vecchia socialdemocrazia europea. Se uscissero battuti, il suo progetto ne uscirebbe rafforzato. Dopo avere creato un mercato unico e una moneta unica, l’Europa sta lentamente creando uno spazio politico integrato in cui le elezioni di un Paese possono cambiare la situazione degli altri. Se vince Chirac, in altre parole, vincono anche, indirettamente, le idee di Blair. Tradotte in italiano queste elezioni dimostrano che il futuro, da noi, non appartiene a Cofferati, ma a Rutelli, Amato e, naturalmente, Prodi.

 

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