La cultura di guerra e gli " Esercizi di esodo"

Mentre i venti di guerra soffiano impetuosi e il supermarket delle menzogne clonate imperversa , è opportuno mettere a fuoco il fenomeno-guerra , per rendere efficace ed incisiva la strategia della pace . Nella convinzione che i problemi inerenti la guerra e la pace sono intrinsecamente connessi , ritengo che sia proficuo risalire ai sedimenti ancestrali della violenza , per evidenziare che la guerra è un’invenzione culturale . Partendo da questi presupposti , baconianamente parlando , vorrei operare una sorta di distinguo tra una pars destruens e una pars construens , per demolire tutti i paradigmi culturali concernenti le guerre e per scorgere i dispositivi di liberazione idonei per approdare ad una cultura della pace .

Vero è che l’impresa si rivela piuttosto ardua , perché molteplici sono le teorie e le chiavi di lettura sulla cultura di guerra , sicché il mio modesto intervento si limiterà a mettere in luce i tratti salienti del problema .

La teoria psicoanalitica fa derivare la nostra aggressività , anche quella che sfocia nella guerra , nella rimozione della morte . Difatti , secondo questa teoria , l’odio della morte ci porta ad oggettivarla , proiettandola in coloro che consideriamo i nostri nemici , e , così facendo , si coltiva l’assurda illusione che distruggendo il nemico eliminiamo anche la minaccia della morte .

Lo scienziato austriaco Lorenz , invece , analizzando il comportamento animale e quello umano , sostiene che l’aggressività distruttiva è un impulso fondamentale per tutti gli animali compreso l’uomo . Ma, al di là delle diverse griglie interpretative , si evince che la guerra , pur essendo un omicidio collettivo organizzato , non solo è stata moralmente accettata , ma addirittura alcune scuole di pensiero hanno sostenuto che i gruppi sociali e l’uomo sono guerrieri per natura . Come , invece , hanno dimostrato molte ricerche condotte dall’antropologia , dall’etologia , dall’archeologia , dalla sociologia , la cultura di guerra discende dalla logica di dominio , da modelli culturali , da un indottrinamento preventivo . Se la logica bellica non deriva da impulsi innati , è altresì vero che produce un universo psicologico peculiare in cui molti valori sembrano rovesciati . Spesso , infatti, coloro che sono ostili alla pena di morte ritengono legittimo che milioni di persone siano massacrate . Ne consegue che , con la guerra , le relazioni sociali mutano e appaiono sotto un’ottica diversa . Ciò detto, facendo un excursus storico sull’argomento , si rileva che il concetto di guerra trova diritto di cittadinanza nella religione greca e romana , nell’Antico Testamento , nel Corano . Il cristianesimo delle origini , invece , assume un atteggiamento nuovo , maledicendo e rifiutando perentoriamente la guerra . Questo rifiuto categorico , però, viene rimosso , come testimoniano le crociate , la santa inquisizione , i conflitti di religione e di potere , sicché l’alta valenza del messaggio cristiano viene via via dispersa . Il dato emergente è che il mondo è stato sempre attraversato da guerre , e quindi si può affermare che la violenza è stata la levatrice della storia . Basti pensare all’età primitiva, quando le dispute armate andavano dalla guerra cerimoniale a quella di sterminio totale . Ciò conferma che la violenza bellica è un fenomeno antico , anche se questa inconfutabile verità è stata obliterata dall’assuefazione . D’altra parte , se si superano le linde formule del formalismo giuridico , si deve necessariamente prendere coscienza che al fondo di ogni legittimità formale c’è sempre una illegittimità sostanziale . Difatti , ogni potere costituito formale , prima che intervengano le sanatorie dei giuristi , gronda sangue e lacrime .

Ma , considerando che un’analisi esaustiva sull’argomento richiederebbe una doviziosa indagine , conviene fare una radiografia aggiornata del fenomeno-guerra . Innanzitutto , prendendo in esame la fase odierna , si rileva che le vecchie verità concernenti il rapporto guerra-politica sono inapplicabili , vuoi perché la dimensione del politico non è più riconducibile a quella del potere statale , vuoi perché lo stato di guerra permanente è fuori controllo , vuoi perché le pratiche militari sono il cuore delle istituzioni , vuoi perché la presenza diffusa delle armi nucleari rappresenta un reale pericolo per la sopravvivenza dell’intera umanità , vuoi perché la guerra è costituente e ordinativa . Da qui la necessità di mettere a fuoco il problema della pace , evitando di considerare quest’ultima come assenza di guerra e , al tempo stesso , rimuovendo le istanze di un pacifismo ecumenico moderato . Ciò significa che occorre valicare i parametri del pacifismo lamentoso e optare , invece , per un’impostazione alternativa del problema , nella consapevolezza che la pace non è un feticcio che piove dal cielo.

A questo punto , superando sia i chiassosi slogan dilaganti , sia le formule tanto suggestive quanto concettualmente vaghe , conviene evidenziare che esistono diverse forme di pacifismo. Difatti , facendo un’analisi sommaria sull’argomento , si possono individuare alcune categorie concettuali e alcuni atteggiamenti psicologici . Il pacifismo evangelico si basa sul messaggio di pace e il rifiuto della violenza contenuto nel Nuovo Testamento , a cui poi si collegano le varie dottrine della non-violenza . Il pacifismo moderato , invece , si propone di moralizzare la guerra , limitandone le crudeltà e proibendone gli eccessi anche attraverso il diritto internazionale . Un altro pacifismo , ossia quello definito " bellicoso " , si propone di fare la guerra per assicurare all’umanità un illimitato periodo di pace , per cui ogni guerra viene percepita come l’ultima da combattere . Caratteristiche peculiari presenta il pacifismo "irriverente " , infatti , esso persegue l’obiettivo non solo di dissacrare la guerra , ma anche di sottrarle il prestigio conferitole dalla letteratura epica e dalla cultura dominante , mettendo alla berlina gli usi militari e il militarismo . Preso atto che parlare di pacifismo , sic et simpliciter , risulta riduttivo , è necessario affrontare le complesse problematiche inerenti la pace , senza cadere nelle reti di una giubilante retorica e di un enfatico daltonismo .

Occorre , innanzitutto operare un distinguo tra la pace ipotizzata dal formalismo giuridico e quella che è incarnata nel materialismo . Un’attenta analisi mostra , infatti , che invocare la pace in senso generico , o appellarsi al diritto internazionale , risulta riduttivo e fuorviante . Per quanto concerne il diritto internazionale , giova ricordare , che dopo la Seconda guerra mondiale , da un punto di vista formale i documenti internazionali garantivano la pace e i diritti umani . Basti pensare all’articolo 1 della carta dell’Onu che stabiliva lo sviluppo di relazioni amichevoli tra gli Stati " basate sui principi dei pari diritti e dell’autodeterminazione dei popoli " . Inoltre , la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 ( art. 21 ) disponeva che la volontà del popolo fosse " la base dell’autorità del governo " . In realtà , come si evince dalla prassi del vero , le istanze del formalismo giuridico non hanno mai garantito la pace intesa in senso lato . Preso atto che la cultura della pace non ha mai avuto diritto di cittadinanza , per avviare un nuovo corso, occorre negare i paradigmi del " feticismo borghese della legalità " e del trascendentalismo . A questo punto , per suffragare le osservazioni fatte si impone un esplicito riferimento all’idealismo kantiano e kelseniano . Questa scuola di pensiero , con il caratteristico eccesso di aspettative nei confronti del diritto e delle istituzioni internazionali , sottovaluta fenomeni economici , sociali e culturali . Difatti , soprattutto nella fase odierna , una valutazione realistica e critica dei processi di globalizzazione evidenzia che un formale progetto cosmopolitico risulta estremamente opinabile . Da qui la necessità di andare al di là del diritto cosmopolitico , per prendere coscienza che il problema della pace va contestualizzato nelle istanze di una società radicalmente altra . Ma , constatando il rinnovato interesse per l’impianto kantiano , è opportuno fare riferimento al celebre Saggio " Per la pace perpetua". Il sistema concettuale entro cui Kant si muove è quello dei giusnaturalisti . Questa scuola di pensiero , ossia il giusnaturalismo , è una dottrina filosofico-politica che afferma l’esistenza di diritti naturali , innati , dei quali l’uomo non si spoglia al suo ingresso nella società. Esso rappresenta la trasposizione nel mondo giuridico di quel preminente interesse per l’uomo , in quanto cardine dell’intera vita sociale che aveva caratterizzato il mondo rinascimentale , contribuendo a determinare la Riforma protestante . La scuola del diritto naturale , pur essendo suggestiva , manifesta carenze significative . Principale fra i difetti della scuola l’indulgenza all’astrattismo , la considerazione di una natura umana uguale ovunque e sempre , immutabile , tale che , identificatene le regole , esse sono indifferentemente applicabili a ogni popolazione con risultati ugualmente felici . Ne consegue che i giusnaturalisti hanno una visione prettamente giuridica , tant’è che tutte le categorie si esplicitano sub specie iuris . Ciò detto , conviene precisare che per Kant , per Hobbes e gli altri giusnaturalisti , il passaggio dallo stato di natura allo stato civile avviene attraverso un contratto originario . Quest’ultimo è inteso come " unione di tutte le volontà particolari e private di un popolo in una volontà comune e pubblica , ai fini di una legislazione semplicemente giuridica " . A differenza di Hobbes , però , Kant attribuisce all’idea della ragione un carattere costitutivo e ordinativo . Inoltre , un aspetto rilevante dell’impianto kantiano è che il superamento dello stato di guerra risiede non già nell’unione di tutti gli individui , ma soltanto nel rapporto tra Stati . Non senza ragione il filosofo ipotizza una lega o federazione permanente fra gli Stati più civili . Il patto di società , dunque , pur negando il patto di soggezione , persegue una pace che si fonda sul diritto . In quest’ottica , se libertà , uguaglianza , fraternità , rappresentano i tratti salienti della Federazione repubblicana , è altresì vero che il filosofo non affronta mai la questione sociale . I seguaci di Kant , per giustificare questo silenzio , sostengono che quando il filosofo scriveva il Saggio , i grandi socialisti , Saint Simon , Fourier , Owen , non erano apparsi , e il proletariato propriamente detto non esisteva . In realtà , queste opinabili giustificazioni non reggono , perché se è vero che la figura del proletario non aveva preso ancora corpo , esistevano però , poveri , miserabili , reietti , sfruttati . Ma i proseliti di Kant vanno oltre , infatti , affermano che il problema politico e quello sociale sono compresi nel problema morale . Il dettaglio non trascurabile è che il problema morale non può essere onnicomprensivo , né può rappresentare la rottura del pensiero dominante . Difatti , per operare una svolta decisiva , occorre valicare i paradigmi del trascendentalismo e optare per l’ etica materialistica , che per la sua intrinseca valenza , segna la storia delle resistenze e delle insorgenze .

Vero è che Kant rivisita il materialismo spinoziano , ma , a differenza di Spinoza , il filosofo non assume il progetto costitutivo come progetto strutturale . Ne consegue che la tautologia uomo-ragione inficia un’autentica etica della liberazione . Per Spinoza , invece , la pace si esplicita come orizzonte costituzionale di contropotere , come potenza sociale della "multitudo " , come realismo giuridico contro il dominio . In questa prospettiva , dunque , materialismo e collettivismo si coniugano , negando tutti i meccanismi di sublimazione e di superamento dialettico .

Il formalismo kantiano , pertanto , pur contenendo le potenzialità creative dei soggetti , privilegia la preminenza dell’etico sul politico , sicché il potere costituente del contropotere si traduce in una vuota intenzionalità individuale . La categoria nefasta dell’individualismo inficia così il processo di liberazione e , al tempo stesso , blocca il vitale conatus del comune . Preso atto che il tessuto della liberazione è sociale e collettivo , ne consegue che in quest’ottica la pace assume una valenza ontologica e insieme teleologica , perché intrinsecamente incorporata in una concezione materialistica del mondo . Le idee di Kant , dunque , pur costituendo ancora un proficuo elemento di discussione , non possono offrire le coordinate rivoluzionarie nè per delineare la filosofia dell’avvenire , nè per operare una reale alternativa storica . Le osservazioni fatte mettono in luce che oggi più che mai , per debellare le macchinazioni dei signori della guerra e dell’energia , sarebbe riduttivo appellarsi al formalismo giuridico e al positivismo legalistico , perché solo una radicale transvalutazione di valori e una gigantesca rivoluzione culturale potrebbero garantire l’avvento di un mondo totalmente pacificato . D’altronde , se le problematiche inerenti la libertà , l’uguaglianza , la giustizia sociale , sono percepite come imperativi categorici della ragione , o se si fa discendere il fondamento materiale da quello formale , allora non solo si occulta la prassi del vero , ma " l’altro mondo possibile " assume un carattere velleitario. Pertanto , valicando le facili teorie dei cantori della presunta rivoluzione postmoderna , occorre rimarcare che un’ottica così concepita condanna la realtà sociale ad essere un simulacro , in cui i conflitti sono sussunti nel tortuoso gioco dei sistemi . Ma , per evidenziare la netta linea di demarcazione esistente tra normativismo giuridico e dinamismo materialistico , risulta illuminante ricorrere al giurista tedesco Hans Kelsen . Quest’ultimo, pur rifiutando il diritto naturale , associandolo con l’idea della conservazione sociale , quando analizza le problematiche del materialismo storico , presenta il Sollen come fondamento trascendentale dell’ordinamento e , nel contempo , come funzione del lavoro vivo . Ciò comporta l’anticipazione della sussunzione della realtà collettiva e produttiva , perché il lavoro vivo viene fagocitato dalle dinamiche dell’ordinamento . In questo contesto , infatti , la totalità dell’obbligazione si traduce in un’unità ipostatica , che di fatto inficia le potenzialità del lavoro vivo e dell’antagonismo .

Pertanto , rimuovendo le seduzioni della logica trascendentale e del formalismo giuridico , occorre optare per la dismisura creativa del materialismo , se effettivamente si vuole costruire la cultura della pace . L’ambizioso progetto si rivela pregno di difficoltà , perché si tratta di demolire modelli culturali che si sono sedimentati a tal punto da sembrare naturali . In realtà, la cultura di guerra ha sortito effetti nefasti , tant’è che anche l’immaginario collettivo è pervaso da una logica mistificata e mistificante . Difatti , paradossalmente , per debellare lo stato di guerra , si rivisitano le categorie concettuali della negoziazione , sicché le soluzioni che si prospettano sono finalizzate a conseguire armistizi e tregue .

Preso atto che la realtà fattuale mostra l’inopia di coordinate rivoluzionarie , sarebbe necessario operare un radicale salto di paradigma . Ciò significa che si dovrebbero non solo abbattere tutti i muri della povertà , ma si dovrebbero anche schivare le categorie di un riduttivo economicismo .

Queste considerazioni discendono dalla convinzione che la cultura della pace non può essere ridotta a slogan ridondanti , perché la pace , in una società altra , dovrebbe assolvere una funzione costitutiva del tempo della vita . Ne consegue che le gracili primavere di libertà sono solo rimedi precari , infatti , per realizzare la divinità nella storia , occorre focalizzare il punto archimedico del mondo alternativo . Da qui la necessità di negare perentoriamente il paradigma della coincidenza reale-razionale , perché rappresenta uno dei pregiudizi della logica di dominio .

Alla dilatazione cosmica del globalismo armato , bisogna , dunque , opporre un rapporto inedito e costruttivo tra energia creativa e vita .

In realtà , constatando le deviazioni della situazione esistente e considerando che gli uomini per migliaia di anni hanno trasformato Dio in Cesare , le istanze di un mondo alternativo assumono un amaro sapore utopico . Ma , pur registrando le derive del presunto contropotere , la vivida passione materialistica spinge a tracciare la teleologia del comune . Sicché , fidando nella dismisura creativa del comune , sarebbe auspicabile riscoprire l’innocenza aurorale del materialismo e , nel contempo , penetrare nello spirito di fratellanza universale del poverello di Assisi . Per sconfiggere la Lupa dantesca , per negare la logica di guerra , per realizzare la città degli uomini , dunque , sarebbe necessaria la convergenza del pensiero materialista e di quello cristiano .

A questo proposito ritengo che siano illuminanti gli " Esercizi di esodo " del materialista Paolo Virno . Il libro citato , per l’acume delle analisi , per via di un esercizio ginnico culturale di grande spessore , non si colloca nell’abituale mercato delle chiacchiere , ma offre le coordinate per vivificare il filo rosso del pensiero critico e per stabilire un rapporto proficuo tra le parole e le cose . Tengo a precisare che il testo necessita di un’attenta lettura , sicché il mio tentativo di decostruzione si limiterà ad una sorta di pourparler . Il prezioso libro raccoglie saggi e articoli scritti per la gran parte tra il 1988 e il 1993. Ma quali sono le caratteristiche di questi saggi ? Perché l’impianto politico-culturale del libro offre una tela di fondo efficace per una riflessione critica ? Le risposte emergono nell’" Avvertenza " del testo e sono : assenza di cautela , carattere spurio o anfibio , tono perentorio .

Ciò detto , giova evidenziare che l’autore valica vuoi gli angusti limiti di un marxismo volgare , vuoi l’impianto utopico di un’ideologia messianica , vuoi le schematizzazioni stereotipe di una concezione astratta della storia , optando , invece , per un pensiero critico che ingloba dinamici esercizi di senso . Ne consegue che in un’epoca caratterizzata dall’obsolescenza dello spirito socratico , dal trionfo dell’analfabetismo degli alfabetizzati , dal facilismo pressappochistico e demagogico dei professionisti della politica , il libro brilla per la profondità delle indagini e per una libertà intellettuale che non cade mai nella retorica e nel folklore .

Non senza ragione Stefano Catucci sulle pagine del " Manifesto , ha ossevato che il Saggio di Virno " al monopolio del sapere organizzato oppone una scelta di libertà e di rigore le cui armi sono l’autonomia nella scelta dei temi , il dinamismo delle argomentazioni , la presa comunicativa dell’esposizione , l’ironia capace di smascherare le ortodossie invisibili di cui sono tessute le nostre convinzioni ". Inoltre , Catucci , con notevole perspicacia , rilevando l’attualità non effimera dei saggi , mette in luce che essi hanno il grande pregio di ridefinire gli spazi dell’eresia possibile all’interno delle nuove relazioni di potere . Le osservazioni di Catucci colgono indubbiamente nel segno , infatti, Paolo Virno non solo penetra con lucida perizia nel " Carnevale postmoderno ", ma promuove anche una sorta di redenzione del passato , ricorrendo al concetto di " futuro anteriore ". Ciò significa che " tutte le ipotesi alternative contenute nel momento attuale vengono attivate da uno sguardo , per così dire , posteriore " . In quest’ottica , dunque , " l’ipotesi controfattuale non cerca negli eventi trascorsi la radice dell’oggi , ma trova nelle possibilità un tempo affacciatesi e poi soppresse , i segni anticipatori di un’alternativa alla situazione presente " . Le incisive assunzioni di Virno evidenziano che non si tratta di una rivisitazione nostalgica del passato , né di una memoria storica inscritta in quello che Benjamin definì " il bordello dello storicismo ", ma si tratta , invece , di una ricognizione materialistica del pensiero critico . In realtà , i Saggi demistificano i paradigmi di una storia scritta dai vincitori , infatti , l’autore , avvalendosi di una critica situazionista , riscopre un indissolubile legame tra le voci critiche degli anni Sessanta -Settanta e il presente . In questa atipica ed eretica rivisitazione emergono libri e pubblicazioni di grande pregio . " La società dello spettacolo " di Guy Debord , " Plusvalore e pianificazione " di Raniero Panzieri , " Lavoro intellettuale e lavoro manuale " di Alfred Sohn-Rethel , " Operai e capitale " di Mario Tronti, " La crisi dello Stato-piano " di Antonio Negri , " Costituzione e lotta di classe" di Hans-Jurgen Krahl . Dopo aver fatto esplicito riferimento alle pubblicazioni più significative , Virno osserva : " Un album di famiglia inconsueto , ricavato retrospettivamente ? Forse, quasi . Certo è che tra l’opera di Debord e questi testi lampeggiano ora affinità un tempo invisibili ". L’autore , dunque , attraverso esercizi di appercezione e di senso , mostra come si possa scorgere nel " Si mediatico " un agire comunicativo alternativo .

La chiacchiera , infatti , pur essendo di per sé insignificante e pur non rappresentando alcunchè , può produrre di tutto . Da qui un’analisi esaustiva ed illuminante sul fordismo e sul postfordismo . Virno , constatando che oggi il linguaggio è stato messo a lavoro , osserva : " Dalla nascita della grande industria fino alla conclusione dell’epoca fordista e taylorista , il processo produttivo è stato silenzioso . Chi lavorava , taceva . Si cominciava a "chiacchierare " soltanto all’uscita della fabbrica o dell’ufficio . La principale novità del postfordismo consiste nell’aver messo il linguaggio a lavoro " .

A questo punto , prendendo atto che le doviziose citazioni non sono in grado di esplicitare in modo esauriente l’alta valenza del libro , ritengo che solo una lettura diretta possa rendere intelligibili i diversi passaggi , le lucide indagini sul linguaggio , la ricerca del possibile .

Ciò detto , comunicando le mie personali osservazioni , posso affermare che Virno , con un efficace talento demiurgico e con una vibrante indagine logico-culturale , attiva e rende palpitanti le energie più esemplari del materialismo . Difatti , l’autore fa emergere il suo bisogno di "altrove " , valicando la banalità dei luoghi comuni , delle sterili semplificazioni , e , così facendo , mostra , senza cadere nella retorica , i possibili dispositivi di liberazione .

Le considerazioni fatte non sono fuori tema , perché , come si evince dall’impianto concettuale del mio modesto intervento , la cultura della pace va contestualizzata in un orizzonte progettuale radicalmente alternativo . D’altronde , la cultura della pace non può scaturire da tecniche politiche , diplomatiche , propagandistiche , ma può avere pieno diritto di cittadinanza solo a condizione che si fondi una democrazia assoluta , basata sulla giustizia sociale e sulle coscienze totalmente pacificate . Una strategia della pace dovrebbe , dunque , superare dogmatismi e ideologie e , al tempo stesso ,dovrebbe debellare tutte le forme di egoismo , negando in modo perentorio la cultura della competizione e della dissipazione . Inoltre , nella consapevolezza che l’unica padrona del mondo dovrebbe essere la vita , si dovrebbero innescare modi d’essere svincolati dalla civiltà del denaro, promuovendo una comunicazione intersoggettiva significativa e finalizzata a risvegliare le coscienze dal torpore, per liberare gli individui dalla logica della violenza . Ciò non è sufficiente , infatti, una cultura altra esige la negazione dell’idolatria del successo e del narcisismo individuale e sociale .

E’ evidente che , al di là della petulante ripetizione di slogan , occorre anche delineare una cultura librata al di sopra della sfera del bisogno , per attivare il gioco della fraternità creativa e , al tempo stesso , una filosofia del comune basata sulle funzioni affettivo-emotive. Ciò significa che per concretare la formula zapatista " una civiltà mondiale della solidarietà e della diversità " , bisogna liberare le possibilità mortificate dalla cultura dominante , incrementando una solida relazione tra gli uomini . Pertanto , valicando i paradigmi sterili dei profeti di una presunta rivoluzione culturale e rimuovendo gli atteggiamenti pittoreschi , ma privi di rigore logico , sarebbe opportuno prendere atto che la cultura della pace impone la ricerca delle sorgenti di una nuova forma di vita e , nel contempo , presuppone una scelta etica radicale . A questo proposito Gilbert Simondon sosteneva : " La scelta è un avvento di essere - non è semplice relazione " .

In realtà , checchè ne pensino gli ottimisti impenitenti , si registrano inquietanti derive all’interno dei forum . Vero è che i movimenti internazionali presentano caratteristiche peculiari , infatti , occorre operare un distinguo tra quelli europei , quelli asiatici , africani , statunitensi . Per quanto concerne il movimento italiano la realtà fattuale non concede asilo all’ottimismo , vuoi perché emergono eclatanti contraddizioni , vuoi perché si manifesta l’endemico provincialismo , vuoi perché politicismo e personalismo imperversano. Non senza ragione sulle pagine del "Manifesto " , nel corso di un’intervista fatta a Walden Bello , un giornalista , esaltando le novità politiche del Forum sociale asiatico , ha osservato : " Viene da chiedersi perché non ci fossero italiani a questo evento senza pari, gli italiani che vanno a decine a Porto Alegre : ma forse i movimenti asiatici spiazzano troppo rispetto ai no-global di casa nostra . Peccato ".

Ciò detto , superando la vetrina mediatica del movimento e rifuggendo dalle formule banali evocative della "moltitudine " , conviene fare " esperimenti con la verità " per delineare un luogo diverso dell’esistere . Da qui la necessità di oltrepassare le secche di una patetica retorica della liberazione , ridimensionando anche i vantaggi effimeri e i presunti rimedi .

In realtà , una inedita cultura dell’alterità e della pace , presuppone la rimozione perentoria di un opinabile pseudoumanesimo , dei discorsi pietistici , del bieco politicismo .

Sulla scorta delle osservazioni fatte , al di là dei parametri di un ottimismo acritico , constatando che la situazione esistente è drammatica , occorre operare un radicale salto di paradigma . Difatti , una cultura altra esige soprattutto un patto di fraternità universale per fondare " la città degli uomini ". A questo proposito Ernesto Balducci , nel suo suggestivo e illuminante saggio su S. Francesco , afferma : " Non ci sarà salvezza fino a che i minori e i lebbrosi della terra non siederanno al convivio comune , fratelli tra fratelli . L’alternativa è , prove alla mano , la morte di tutti " . Per l’uomo , dunque , " l’amore per l’acqua , il fuoco , le piante e gli animali è una condizione del suo amore per se stesso".

Ma , coniugando il pensiero materialista e quello cristiano , è lecito porre il seguente quesito : la possibilità di un mondo altro dove risiede ? " Grossomodo e pressappoco , all’incirca e più o meno , la sua possibilità fa tutt’uno con l’attualità sempre differita di ciò che , da duecento anni , è stato designato con il nome di comunismo " ( Paolo Virno ).

Wanda Piccinonno