DA LA REPUBBLICA Iraq, Giuliano Ferrara
stizzito
abbandona la diretta tv
E dei pacifisti aveva detto:
"Sono più di tre milioni
sono tanti quanti gli iraniani al ritorno di
Komehini"
ROMA - "E' una bella manifestazione,
pienamente legittima di cui non condivido la natura
politica. Quindi, visto che la mia presenza è piuttosto
ingombrante, lascio lo studio e torno a casa".
Giuliano Ferrara abbandona la diretta televisiva del
corteo della pace in onda su La7. Visibilmente stizzito,
il giornalista, che dall'inizio della trasmissione aveva
avuto scontri polemici con gli organizzatori
dell'iniziativa, si è tolto il microfono, si è alzato e
se ne è andato.
Prima Ferrara aveva avuto uno scambio di opinioni vivace
con Sergio Cofferati, intervistato da La 7 durante la
manifestazione contro la guerra, sul presidente della
Repubblica Ciampi. "Oggi Ciampi ha scritto una
lettera di plauso a Berlusconi - ha affermato Ferrara -
ringraziandolo per aver fatto di tutto perché l'Italia
si adoperasse per tenere la crisi dentro l'ambito delle
Nazioni Unite. Ciampi è rimbecillito?". Questo, ha
risposto Cofferati, "lo dice lei, lo dica al
presidente della Repubblica. Posso avere tranquillamente
una posizione diversa da quella del presidente - ha
aggiunto - e prospetterò questa diversità senza
l'ironia un po' corrosiva che lei utilizza di solito, e
che può diventare sgradevole per il presidente
stesso".
Stessa lite anche con il segretario generale
della Cgil Guglielmo Epifani. "Nel messaggio di
Ciampi - ha detto Epifani - c'è anche un richiamo
affinché l'azione del governo non si muova fuori dalle
deliberazioni dell'Onu". "Forse vuol dire - ha
replicato Ferrara - che Ciampi ha dato un plauso al
governo per fargli invece cambiare linea?".
"Lei è molto acuto e intelligente - ha risposto il
leader della Cgil - dunque penso che capisca che cosa
voglio dire". "Se continuate a essere faziosi
come al solito - gli ha risposto Ferrara dallo studio -
costringete anche me ad essere fazioso e a
strumentalizzare le parole di Ciampi".
Il direttore del Foglio
aveva anche criticato gli organizzatori del corteo
secondo i quali i partecipnati sarebbero tre milioni.
"Solo tre milioni? - ha ironizzato Ferrara - Ma sono
molti di più: almeno cinque-sei, come quando Kohmeini
tornò in Iran...". Visibilmente nervoso, Ferrara si
è divertito a punzacchiare un po' tutti. Rivolto ai
pacifisti che ballavano, per esempio, ha detto: "Ma
che si ballano? Che sono le prove per la discoteca del
sabato sera?"
Così, intorno alle 16, dopo l'ennesimo collegamento con
il corteo, Ferrara ha chiesto la parola e ha ribadito la
sua linea: "Se l'11 settembre fosse avvenuto a Roma,
Parigi o Berlino e se i kamikaze si facessero saltare in
aria anziché sui bus di Tel Aviv in quelli italiani,
questa manifestazione oggi non ci sarebbero". Quando
Gad Lerner, anch'egli ospite della trasmissione, ha
cercato di interromperlo per fargli notare che cortei
pacifisti sono in corso anche in Israele, e gli ha
chiesto: "Ti posso fare una domanda politica?
". "Falla a Massimo Teodori", gli ha
risposto il direttore del Foglio, alzandosi e imboccando
l'uscita. Poi Lerner è tornato sulla
"diserzione" di Ferrara: "Ringrazio
Gustavo Selva restato fino alla fine in studio a
sostenere le ragioni della guerra a Saddam - ha detto - a
differenza di Ferrara che invece 's'è dato'".
Più tardi il direttore del Foglio dirà: "Sono
andato via sulla base di un ragionamento. Siccome
arrivano sempre molte telefonate che dicono 'fateci
vedere la manifestazione', ho detto che questo è come un
reality show, come il Grande Fratello: vogliono vedere se
stessi. E allora, siccome io sono grande, grosso, troppo
ingombrante, mi sono tolto di mezzo...". Poi, più
preciso, risponde all'accusa di Lerner: "Macchè
diserzione: sono andato via perché non mi volevo sentire
nelle condizioni del petulante che occupa troppo a lungo
lo schermo". E ammette: "E' vero, ho fatto un
pò lo spiritoso", scegliendo il ruolo del
"controcanto ironico". Infine, liquidando
quella sul Grande Fratello come una "battuta",
conclude: "Sono favorevolissimo a iniziative di
questo genere, ma mi piaceva che la trasmissione fosse un
po' puntuta".
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DA - IL CORRIERE DELLA SERA
Via ai cortei
per la pace: il primo è a Melbourne
Manifestazioni anche a Wellington, in Nuova
Zelanda: slogan contro la «guerra di Bush» anche in
Giappone e Filippine
LONDRA - La prima imponente manifestazione di
questa giornata mondiale contro la guerra, per via del
fuso orario, si è svolta a Melbourne, nell'Australia
meridionale, dove 150mila persone sono scese in strada:
per gli organizzatori si è trattato della più grande
dimostrazione che si sia svolta nel paese dai grandi
raduni contro la guerra del Vietnam. Nelle stesso ore,
anche in Nuova Zelanda migliaia di persone riempivano le
strade di Wellington scandendo slogan contro il
«conflitto di Bush» in Iraq. Stesse scene nelle strade
delle maggiori città del Giappone e delle Filippine.
NEL MONDO - Saranno milioni e milioni le
persone che oggi scenderanno in piazza, da una parte
all'altra del pianeta per dire no alla guerra in Iraq e
chiedere la pace. Manifestazioni, cortei, happening ed
eventi sono previsti in almeno 603 città, dagli Usa
allIraq. Le principali manifestazioni sono attese
in alcune città importanti come Roma, Londra,
Barcellona, Berlino, Parigi, Città del Capo ma anche a
New York, dove lungo la quinta avenue e sino alla 49esima
strada è attesa la più grande protesta politica degli
ultimi anni. Per ragioni di fuso orario, hanno cominciato
i pacifisti di Oceania e Asia a dar voce a quanti pensano
che la crisi irachena debba essere risolta senza fare
ricorso alle armi.
FINALE - In Nuova Zelanda si è approfittato
dellavvio della finale fra New Zealand e Alinghi
per dare risonanza alla protesta. Un aereo con uno
striscione con la scritta «No guerra, pace subito» ha
sorvolato il campo di regata a Auckland prima della sfida
fra le due imbarcazioni. Intanto, migliaia di
manifestanti organizzavano marce e sit in in tutte le
principali città del Paese. In Australia, 150mila
persone si sono reversate nelle strade di Melbourne per
condannare ladesione del governo australiano alla
spedizione militare. Migliaia di persone sono scese in
piazza in diverse città asiatiche, da Tokyo in Giappone
a Manila nelle Filippine, dove hanno marciato
sullambasciata Usa.
IN ORIENTE - Manifestazioni anche a Seul la capitale
della Corea del Sud e a Taiwan. Anche nello stato più
recente del mondo, Timor Est, centinaia di pacifisti
hanno marciato per le strade della capitale, Dili. In
Europa, circa 500 manifestanti hanno già marciato ieri
per le strade di Sarajevo in Bosnia, con cartelli e
striscioni anti-Usa. Una manifestazione imponente è
prevista a Londra, dove gli organizzatori contano di
radunare una folla mai vista prima, cinquecentomila
persone, superando laffluenza della marcia
pacifista dellautunno scorso, che raccolse 400mila
manifestanti.
IN FRANCIA - A Parigi, si prevede che almeno 25 mila
pacifisti marceranno dalla piazza Denfert-Rochereau a
quella della Bastiglia. Marce e sit-in anche a Berlino.
Oltre un milione di persone, secondo le previsioni degli
organizzatori, scenderà in piazza a Roma. Si prevede
larrivo di 1300 bus e 26 treni speciali da
tuttItalia, secondo i dati della prefettura che fa
una stima di «400-600 mila arrivi di manifestanti». Le
manifestazioni poi si sposteranno in Canada e negli Stati
Uniti.
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DA - LA STAMPA
In piazza a
Roma TRE MILIONI per la pace
15 febbraio 2003
ROMA . Ci sono tutti i colori del mondo per le strade di
Roma. Arrivano dai vicoli, colorano le piazze, si
affacciano dai balconi e a volte osano colorare perfino
le statue, il marmo, i monumenti della capitale. Sono le
mille bandiere che oggi, nel giorno dell' arcobaleno e
della pace, stanno sfilando nell' immenso, enorme corteo
per dire no alla guerra, no al conflitto in Iraq. Ci sono
le bandiere rosse della Cgil, dei Ds, di Rifondazione
comunista.
Poi i tanti vessilli dei sindacati di base e dei Cobas.
Indietro poche, ma assolutamente significative, le
bandiere bianche di Emergency, le bandiere di Gino
Strada, il medico che della sua vita ha fatto una
testimonianza contro la guerra. E poi ci sono gli
stendardi a lutto delle «Donne in nero», le donne di
tutte le nazionalità che da sempre si battono contro la
barbarie delle armi e della guerra. C' è anche la
bandiera bellissima, raffinata, ricamata a mano con fili
di seta del Tibet, che viene brandita da un gruppo di
monaci, in ricordo dell' oppressione cinese, di un' altra
guerra che ora vogliono ricordare con quei delicati
colori. Poi vedi spuntare le bandiere di altri popoli che
della guerra purtroppo ne hanno fatto vita quotidiana: i
colori della Palestina, i colori dei curdi. Qualcuno si
trascina dietro bandiere consunte buone per tutte le
manifestazioni: quelle di Che Guevara.
C' è perfino chi osa una bandiera delle bandiere, un
immenso vessillo fatto come un puzzle dai colori di altri
stendardi. Poi ci sono le bandiere dei partiti, quelle
gialle di Legambiente, ancora quelle gialle degli
«Iracheni in Italia», l' immenso striscione rosa della
«Casa internazionale delle donne» che dice «Noi osiamo
la pace», la loro ultima provocazione femminista. Ma su
tutte queste bandiere una oggi ha prevalso, e le ha
unificate in tutti i suoi colori: lo stendardo della pace
con i colori dell' arcobaleno, quei colori che i
manifestanti hanno declinato in mille maniere.
Non solo sulle bandiere, ma anche sulle sciarpe, i
cappelli, calze e guanti, in improbabili cappelli di
gommapiuma ideati da un gruppo di volontari di Spino D'
Adda (Cremona), in incredibili foulard rigorosamente
«fatti in casa». Perchè oggi è questa la bandiera di
tutte le bandiere, quella che va a ruba dei banchetti
degli abusivi soddisfatti degli affari, quella che i
manifestanti di ogni età, di ogni colore indossano a
dimostrazione della loro volontà di pace.
«Oggi c' è il sole, ma credo che la luce più intensa
venga da queste bandiere, dai volti di uomini, donne e
ragazzi su cui si legge il desiderio della pace». La
parlamentare Rosy Bindi (Margherita) commenta così,
lungo il corteo al quale partecipa accanto alla deputata
del Pdci Maura Cossutta, la manifestazione di oggi.
«Questa - spiega - non è una manifestazione contro
nessuno, se non contro il terrorismo e la guerra. È una
manifestazione affinchè coloro che devono prendere
decisioni sappiano interpretare il desiderio dei loro
popoli». Ai cronisti che le chiedevano un commento sulla
mancata diretta della Rai, Bindi ha risposto: «Si
commenta da sola. Un servizio pubblico che non vuole far
conoscere l' opinione di milioni di persone si commenta
da sè ».
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DA - LA STAMPA
DALLA COLOMBA
DI PICASSO ALLA BANDIERA ARCOBALENO
Pacifisti ieri e oggi Una lunga storia di
simboli e idee di Filippo Ceccarelli ROMA. Come cambia
tutto, e come tutto - nel turbine della storia - si
disperde e si dimentica. Quanti, dei manifestanti
pacifisti che sfileranno oggi per le vie di Roma, sanno
ad esempio chi era Aldo Capitini? E quanti «Papa-boys»
giunti nella capitale saprebbero dare un volto a Giorgio
La Pira? Nel settembre scorso, sempre a Roma, chiudendo
una manifestazione contro la guerra Fausto Bertinotti ha
detto testualmente: «Vogliamo costruire un nuovo
movimento di partigiani per la pace». E sebbene quel
«nuovo» stesse lì a indicare, implicitamente,
lesistenza di un vecchio movimento,
lespressione bertinottiana è caduta lì come un
generico proposito. La pace di quei primi Partigiani era
una pace eminentemente sovietica. Quindi a suo modo
imperiale e famigerata, ma anche anti-colonialista. Tante
parole, tante immagini si sono dedicate in questi giorni
alla bandiera arcobaleno. Ma nessuno, o pochissimi hanno
ricordato la colomba di Picasso che Matisse ed Eluard
proposero come simbolo, appunto, dei Partigiani della
Pace. Movimento incoraggiato da Stalin negli Anni
Cinquanta. Sfilava compatto contro la proliferazione
nucleare. Classica cinghia di trasmissione, qui in
Italia, tra il Pci e gli «indipendenti». Ma si sa: la
storia è complicata, e ancora di più quella
dellidea pacifista e del popolo che lha
seguita da un cinquantennio ormai a questa parte.
Comunque Capitini era un bel personaggio. Umbro,
simpatico, attivissimo e doverosamente strampalato. Uomo
«di incurabile bontà» lha definito Guido
Ceronetti, che gli fu amico, prima che flirtasse con il
Pci. Ma Capitini, sulla pace, non è che stesse lì tanto
a sottilizzare. Associava e si associava. Filosofo e
professore universitario, negli Anni Trenta.
Antifascista, ebbe diverse rogne dal regime. Fu lui a far
conoscere in Italia il pensiero di Gandhi, che peraltro
Mussolini sosteneva, sia pure in funzione antibritannica.
Credeva nella persuasione, nel lavoro pedagogico,
nellanimazione dal basso. Coltivava una specie di
religione aperta. Fu anche uno dei primi vegetariani, per
una scelta dietetica di vita. Teorico della nonviolenza,
non fece la Resistenza. In compenso sinventò la
marcia per la pace. La prima, sembra, nel 1952: lui e
qualche amico; in pratica, non se ne accorse nessuno. La
prima «vera» marcia dieci anni dopo. Morì nel 1968,
prima che il filone del pacifismo laico e radicaleggiante
(si pensi al Pannella-Amleto in maglione nero e ciondolo
«Make love, not war») si incrociasse con i beatnik e
lanti-autoritarismo degli Anni Settanta. Se oggi
Roma è strapiena di pacifisti, lo si deve comunque anche
ad Aldo Capitini. Anche La Pira, fra i «dimenticati»,
meriterebbe oggi una qualche attenzione, e non solo
perché - sia detto con la massima simpatia -
assomigliava un po a un personaggio dei cartoni
animati, o a un videogame pacifista. Per Firenze, anche
quando era sindaco, girava spesso con i sandali. La gente
rideva, e lui con un sorriso da bambino: «In sandali,
cari figlioli, si va in Paradiso». Siciliano di
Pozzallo, deputato democristiano alla Costituente,
professore di diritto romano, fu lalfiere
ispiratissimo della pace cattolica. Pregava, mediava,
costruiva incessantemente ponti tra Est e Ovest,
utilizzando ambasciatori e suore di clausura. Si agitava,
organizzava convegni, scriveva in latino a Nixon e a
Kruscev. Diceva: «Io qui a Firenze con una lettera e un
francobollo faccio quello che a Roma neppure si
sognano». Vero. Viaggiava pure. Ai tempi del Viet Nam si
presentò da Ho Ci Min con un ritratto della Santissima
Annunziata. Quello gli rispose: «E dove lo metto?».
«Lo metta dove le pare - fu la risposta di La Pira -
basta che se lo tenga». Un pazzo di Dio, un po
confusionario, ma instancabile. I nemici dicevano che era
un «comunistello da sacrestia». Si trova appuntato sul
diario di Leo Longanesi: «Un dubbio atroce. E se La Pira
fosse veramente santo?». E tuttavia lenciclica
Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) ha tutta
laria di essere uno degli anelli di quella sua
unica catena di luce e - per chi ci crede - di grazia.
Oggi, per la pace, cè Papa Wojtyla. E tuttavia i
Gino Strada, gli Alex Zanotelli, i ragazzi della Rete
Lilliput devono molto a La Pira e alle sue folgorazioni.
Decolonizzazione, disarmo atomico, Viet Nam, obiezione di
coscienza. Poi Medio Oriente, Comiso, il Golfo, i
Balcani. Il pacifismo italiano ha davvero una storia
ricca, ma se pensi al presente con la memoria del passato
i fili non sai bene se si sono intrecciati, o impicciati,
o interrotti. Danilo Dolci, ad esempio. Fu agitatore
missionario, educatore di coscienze, utopista, poeta,
sociologo, maestro di maieutica. Mise in pratica la
nonviolenza nella Sicilia più violenta degli Anni
Cinquanta. Fu il primo a sperimentare larma
potentissima del digiuno. Triestino, aveva abbandonato
una bella fidanzata, una famiglia borghese e la carriera
da architetto per «buttarsi fra i poveri, vivere la loro
vita, soffrire la loro fame, dividere il loro
giaciglio», riconoscere il volto di Dio nel viso
sofferente degli ultimi. Era un pacifismo appassionato e
fattivo, il suo. Premiato dai sovietici (Premio Lenin),
certo, ma studiato anche dalle università scandinave e
americane, accolto con entusiasmo dalla scuola di
Francoforte, difeso da Bobbio, Carlo Levi, Salvemini, La
Malfa, Nenni, Di Vittorio, Jemolo, Silone, Zevi. Un
impegno in contatto con grandi nomi della cultura
occidentale, da Fromm a Russell, a Sartre, Huxley,
Piaget, Chomsky. Chissà se sarebbe in piazza, oggi,
Danilo Dolci. E soprattutto: chissà come la vivrebbe,
questa piazza pacifista di oggi. Ogni confronto - va da
sé - è azzardato. Però alcune differenze sono
abbaglianti. Un tempo i filoni erano più netti. Veri e
propri steccati ideologici separavano le varie
tradizioni. Cerano i cristiani (a loro volta divisi
tra cattolici e protestanti), cerano i comunisti
(sovietici), cerano i laici-gandhiani. Cera
anche, a volte, un certo umanitarismo socialista, alla
Pertini: «Si svuotino gli arsenali, si riempiano i
granai». Non sempre le occasioni di impegno erano le
stesse, non sempre si mescolavano le carte. Oggi, al
contrario, i confini tra i vari pacifismi è come se
fossero spariti; e il movimento sembra piuttosto un magma
indistinto, pur nella sua variegata articolazione.
Pragmatico quanto il precedente era utopistico. E di
massa, quanto quello di un tempo era segnato dalla
personalità dei suoi protagonisti, eretici, addirittura
profeti. Unaltra grande differenza sta nelle forme,
nello stile di lotta, nel contrasto tra lantica
sobrietà e le più vistose rappresentazioni che segnano
lattuale movimento. Non è solo questione di
Jovanotti e di artisti impegnati. A consultare le utili
schede dellarchivio visivo dellIstituto Luce
si resta colpiti dal fatto che quarantanni fa i
manifestanti non avevano alcuna voglia di farsi
riprendere. Cè un presepio pacifista, ad esempio,
allestito dai boy-scout nel 1966 a Perugia come se fosse
stato il primo Natale dellumanità dopo una
paventata distruzione atomica. Ma il parroco Monsignor
Tentori, si legge, «si copre il viso con il berretto per
non farsi riprendere dalle cineprese». Ecco, ieri, a
Campo de Fiori le Iene di Italia1, tra cui Enrico
Lucci, il Trio Medusa e Andrea Pellizzari si sono messi a
distribuire le bandiere arcobaleno ai residenti. Solo due
persone hanno rifiutato il dono. «Speriamo che il tempo
ci assista - ha detto Lucci - e che pioggia e vento non
stacchino le bandiere». Ciò nonostante, Auschwitz e
Hiroshima sono irrimediabilmente lontane. E allora forse
la guerra, per combatterla, bisogna averla conosciuta, e
sofferta. Al tempo degli antichi pacifisti, daltra
parte, non cera la tv. E soffrire davanti al video
è pur sempre soffrire, ma poi basta spegnere il video, e
tutto si dimentica fin troppo facilmente
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DA - IL MANIFESTO
L'Austria dice
no: «Da qui non passeranno»
VIENNA
Non importa se gli americani insistono, non importa se le
truppe dirette alla guerra dovranno attraversare tre o
quattro paesi per andare dalla Germania all'Italia
aggirando l'Austria. Il governo di Vienna ha risposto per
la seconda volta «no» alla richiesta di permettere il
passaggio di uomini e mezzi militari sul suo territorio,
spazio aereo compreso. L'ha ribadito ieri il ministro
degli esteri Benita Ferrero-Waldner, confermando le
dichiarazioni già rese dal titolare della difesa Herbert
Schneider: «La netrualità che l'Austria ha inscritto
nella sua Costituzione non permetterà sorvoli né
movimento di truppe straniere se queste o il materiale
che trasportano sono destinati all'Iraq e non sono stati
autorizzati dalle Nazioni Unite. L'Austria - ha aggiunto
Ferrero-Waldner - sostiene energicamente tutti gli sforzi
volti al disarmo totale dell'Iraq come previsto dalla
risoluzioni dell'Onu. Se sarà necessario assumere, come
ultima risorsa, misure militari per conseguire questo
obiettivo, occorre che questo si faccia nell'ambito
dell'Onu e nel rispetto del diritto internazionale.
Questa è la linea che l'Austria difende anche in sede di
Unione europea». Ciò che vale per la Kfor che opera in
Kosovo e la Sfor impegnata in Bosnia, o per l'operazione
«Enduring Freedom» in Afghanistan, non c'entra nulla
con una guerra decisa unilateralmente senza l'imprimatur
dell'Onu. A nulla sono valse, dunque, le pressioni del
segretario alla difesa Usa. Donald Rumsfeld, ieri
l'altro, aveva lamentato la difficoltà di ridislocare i
100mila soldati in Europa, di cui 70mila in Germania, in
previsione di un conflitto. I problemi posti dall'Austria
- secondo Washington - obbligheranno gli Usa a far
partire i soldati da Rotterdam, in Olanda, o a farli
arrivare attraversando 3-4 Stati anziché con la strada
più diretta.
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DA - IL MANIFESTO
Turchia, il
Kurdistan contro la guerra
Appello della società civile: no
all'attacco all'Iraq. Pietro Ingrao: «Ocalan in
pericolo»
O. C.
Sono 215 i firmatari della «dichiarazione di pace» che
ieri ha varcato i confini del Kurdistan turco per
approdare a Roma alla conferenza stampa convocata
dall'ufficio in Italia del Kurdistan per dichiarare il no
dei kurdi alla guerra contro l'Iraq. Nella dichiarazione
gli esponenti della società civile di venti province
kurde di Turchia (sindacalisti, artisti, intellettuali,
insegnanti) si sottolinea come aggredire l'Iraq sia
«ingiustificata, antigiuridica e illegittima e deve
essere considerata in realtà un'avventura motivata da
ragioni di mero interesse economico. A questa guerra -
proseguono - che porterà solo lutti e distruzione per i
popoli mediorientali la Turchia non deve partecipare nè
garantire sostegno logistico. Al contrario dovrebbe
contrapporle una esplicita scelta di pace. Le autorità
turche - si legge ancora - non faranno nulla di più che
il loro dovere se ascolteranno le voci di pace e sapranno
rispettare pienamente le rivendicazioni di pace che si
levano dalla società civile». Sottolineando la
necessità di avviare al più presto un dialogo in
Turchia che porti attorno al tavolo dei negoziati kurdi e
turchi, nel rispetto reciproco e con il fine di portare
finalmente la pace nel paese. Alla conferenza stampa
romana di ieri ha partecipato anche Pietro Ingrao che si
è soffermato soprattutto sulla mancanza di notizie sullo
stato del leader del Pkk (oggi Kadek) Abdullah Ocalan,
rinchiuso nel carcere di Imrali e di cui non si hanno
notizie ormai da undici settimane. «Il dossier Ocalan -
ha detto Ingrao - va riaperto. La prigione in genere mi
procura orrore e angoscia, ma quattro anni di isolamento
in pochi metri quadrati hanno solo un nome: tortura. E
l'Italia - ha proseguito Ingrao - non può dimenticare
chi venne qui a battersi per la libertà del suo
popolo». Come la vicenda di Ocalan e per estensione dei
kurdi e la guerra in Iraq siano intrinsecamente legate
tra loro è reso ancor più drammaticamente evidente
dalla dichiarazione del Kadek che ha annunciato che da
oggi ricomincerà la sherildan,
intifada, in tutte le città kurde e turche. Sarà
un'intifada contro la guerra e per la liberazione di
Ocalan e di tutti i prigionieri politici. I kurdi sono
ben consapevoli del fatto che una guerra in Iraq con il
sostegno della Turchia significherà per Ankara cercare
di «finire il lavoro» di annientamento della resistenza
kurda. Oggi dal palco di San Giovanni - oggi per la
manifestazione, la Comunità kurda si concentra alle
13,00 all'Ufficio postale di Via Ostiense - tra gli
interventi a conclusione della manifestazione contro la
guerra è previsto anche quello di una esule kurda: sarà
un messaggio di pace. Perché come scrivono i 215
esponenti della società civile kurda, non riaprire una
prospettiva di dialogo in Turchia può significare una
nuova esplosione di tensione che «potrebbe portare ad un
nuovo conflitto». Anche perché «è grande il rischio
che la guerra contro l'Iraq venga utilizzata per
risolvere la questione kurda manu militari al di qua e al
di là del confine turco irakeno».
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