DA - IL MANIFESTO

Italiani, attenti a non fare «i crociati»
Tareq Aziz incontra il papa e lancia un monito a Italia, Spagna e agli altri paesi auropei schierati con Bush
MAURIZIO MATTEUZZI
ROMA
Ci vorrebbe un miracolo, si sente dire sempre più spesso da parte degli ambienti cattolici impegnati nel disperato tentativo di fermare l'attacco americano all'Iraq. Noi, gente di poca fede, ai miracoli non ci crediamo. La guerra di Bush e ascari vari contro Saddam Hussein ci sarà, fra una settimana o fra un mese. Al miracolo sembra credere ancora il papa, impegnatissimo nel dispiegare le sue divisioni cattoliche (oggi il suo inviato a Bghadad, cardinale Roger Etchegaray, sarà finalmente ricevuto da Saddam). Forse non ci crede neanche più Tareq Aziz, il vicepremier iracheno che in un'intervista uscita ieri sul quotidiano cattolico-conservatore di Madrid
Abc aveva dichiarato che «solo un miracolo può salvare l'Iraq da una guerra «provocata dagli Stati uniti» e che, sempre ieri, ha incontrato Wojtyla in Vaticano (foto Ap) in attesa di andare, oggi, ad Assisi a pregare per la pace insieme ai frati sulla tomba di Francesco. Ma ognuno deve fare la sua parte e così è giusto che si ciochi le sue carte fino in fondo. Così ieri mattina verso le 11 Tareq Aziz, cattolico caldeo, ha avuto nella biblioteca privata del papa un colloquio di mezz'ora. Incontri definiti «cordiali» dal portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls e «fruttuosi» da parte irachena. Poi altri tre quarti d'ora fra il vicepremier di Baghdad e i vertici diplomatici della Santa sede, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, e l'arcivescovo Jean-Louis Tauran, ministro degli esteri. Al termine due comunicati delle parti. Quello vaticano: «Il signor Aziz ha voluto dare la sua assicurazione sulla volontà del governo iracheno di cooperare con la comunità internazionale, in particolare sul disarmo. Sua santità ha ribadito la necessità di rispettare fedelmente, con impegni concreti, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza che sono la garanzia della legalità internazioonale». Una posizione dura e chiarissima («concreti impegni»). Quello iracheno: negli incontri è stata ribadita «la convergenza di vedute fra Iraq e Santa sede sulla necessità di mantenere la pace, alimentare la solidarietà al popolo iracheno e raggiungere la stabilità nell'intera regione del Medio oriente», nonché la posizione di Baghdad «che non ha nulla da nascondere agli ispettori delle Nazioni unite».

Nel corso del colloquio col papa, Tareq Aziz gli avrebbe consegnato una lettera di Saddam e anche «prove documentali» sull'eliminazione delle armi di sterminio come prova della «volontà» di collaborare «pienamente e attivamente» con gli ispettori Onu.

Non c'è stato tuttavia quel
coup de theatre in cui molti speravano: l'invito al papa per un viaggio in Iraq che sarebbe stato un gesto clamoroso di sfida alle pulsioni animali di Bush e ascari. «Il papa sa bene di non avere bisogno di un invito formale se volesse venire in Iraq: sa di essere il benvenuto, le porte sono sempre aperte se manifestasse il desiderio di venire. Ma non c'è stato un invito formale a causa della situazione», ha fatto poi sapere l'entourage di Aziz («ragioni di sicurezza»). Per la verità quando Giovanni Paolo II voleva andarci, nel '98, le porte non sembrarono essere così «aperte». Ma oggi i tempi sono diversi e la guerra è dietro l'angolo.

Prima del papa, Tareq Aziz era stato a casa dell'ex presidente della repubblica Francesco Cossiga (a cui aveva ripetuto un punto lapalissiano: che una guerra all'Iraq alimenterebbe una ripresa del fondamentalismo islamico) e, dopo il papa, è andato a trovare per un'ora col ministro degli esteri Frattini («su richiesta irachena», precisa la Farnesina perché gli americani non la prendano male). Che gli ha detto che è ormai «ridottissimo» il tempo che resta all'Iraq per rimediare alle «omissioni e inadempienze» di Baghdad quanto a distruzione degli arsenali e collaborazione con le ispezioni. Ma, come ha poi notato maliziosamente Tareq Aziz nella conferenza stampa di ieri sera, «non è Frattini che decide sulla guerra...». Ma a Frattini riferisce anche di avere detto altro, con il dovuto rispetto: che l'Italia, la Spagna e altri paesi europei devono stare attenti a non commettere «l'errore di partecipare alla guerra imperialista americana, alla crociata americana contro l'Iraq». E' quello che poi ha ripetuto nel corso dell'affollatissima conferenza stampa nella sede della Stampa estera. «L'Italia e la Spagna non sono nemiche dell'Iraq e l'Iraq non è nemico loro. Perché dovrebbero partecipare a una guerra ingiusta e immorale e illegale?»; per gli Stati uniti si capisce: «hanno ambizioni imperialiste, vogliono ricolonizzare l'Iraq e insediare un regime filo-americano»; ma i paesi europei? Rischiano di apparire «come i crociati» e questo «avvelenerebbe i rapporti degli arabi e musulmani con gli europei e cristiani»; tanto più che l'Iraq ha «collabora pienamente» con gli ispettori («e avrete sentito che il rapporto di poco fa in Consiglio di sicurezza del dottor Blix e del dottor El-Baradei lo ha confermato»); «non è una minaccia per nessuno» (avrebbe fatto meglio a dire che non «più» una minaccia) e «non ha nessun rapporto con al-Qaeda, con il fondamentalismo islamico o con gli attacchi terroristi». Il resto, ossia l'ossessione di Bush e dei suoi ascari, è «solo un film americano, non la realtà». Ma l'Iraq se attaccato dagli Usa, attaccherà Israele?, gli ha chiesto l'israeliano corrispondente del
Maariv: «Sorry, non rispondo alle domande di giornalisti israeliani», ha risposto secco (ma, a una domanda analoga, ha risposto che l'Iraq, quando sarà attaccato, potrà pensare solo a difendersi).

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DA - IL MANIFESTO.

LONDRA
Niente guerra, siamo inglesi
«Sarà la più grande manifestazione pacifista mai vista» Nella capitale atteso un corteo da mezzo milione di persone
Conclusione a Hyde Park: nonostante la resistenza del governo, dopo giorni di trattative la ministra alla cultura concede il parco reale
ORSOLA CASAGRANDE
LONDRA
«Sarà la più grande manifestazione per la pace che l'Inghilterra abbia mai visto». Sono euforici gli organizzatori della marcia contro la guerra che oggi partirà da Embankment (vicino a Westminster) per concludersi a Hyde Park. Stop the War Coalition e la British Muslim Association stanno cercando di coordinare gli ultimi sforzi organizzativi. Il problema (si fa per dire) sarà soprattutto uno: gestire la marea di gente che fin dalle prime ore di stamattina comincerà ad arrivare a Londra da ogni parte del paese. Centinaia i pullman organizzati da associazioni, sindacati, moschee. Gli organizzatori prevedono almeno mezzo milione di persone. La polizia ieri ha consigliato a chi non intende partecipare alla manifestazione di rimanere lontano dai luoghi attraversati dal corteo: Westminster, Whitehall, Downing street, Trafalgar Square e quindi Hyde Park dove si terranno i comizi e i concerti finali. In un primo momento il governo aveva vietato Hyde Park agli organizzatori della marcia ma dopo diversi giorni di trattative la ministra alla cultura Tessa Jowell ha concesso il parco reale. Oggi sul palco saranno presenti anche moltissimi deputati laburisti che ripeteranno la loro richiesta al governo di consentire un dibattito e un voto sulla guerra in parlamento. Prima che i bombardamenti comincino, non dopo come vorrebbe Blair.

Ma le manifestazioni contro la guerra sono cominciate ieri. Un gruppo di pacifisti si è incatenato ai cancelli di Downing street, residenza del primo ministro. Tony Blair era già a Edimburgo in occasione del congresso primaverile del partito laburista che si svolge a Glasgow. Davanti all'ospedale che Blair è andato a visitare nella capitale scozzese si sono riunite centinaia di persone che hanno contestato il premier e ribadito il no alla guerra. Oggi a Glasgow è prevista una manifestazione davanti al congresso laburista scozzese.

Le iniziative londinesi sono state intitolate «Fate l'amore non la guerra». Non originale, ammettono gli organizzatori, ma pertinente. Ha aperto il fittissimo programma «poeti contro la guerra». Quasi contemporaneamente, in un'altra zona della città, l'avvocata Gareth Peirce ha discusso assieme a un rappresentante del parlamento musulmano e allo scrittore Ghada Karmi della nuova legge antiterrorismo e sui suoi effetti sulle comunità migranti e i profughi. Ma l'appuntamento forse più importante della giornata di ieri è stato il «Trade unions rally», la manifestazione dei sindacati. Globalise Resistance ha organizzato una serata dall'inequivocabile titolo 'Globalizza questo!': video conferenza e dibattito con Edward Said in collegamento dagli Stati uniti. Anche Stop the War Coalition ha voluto una vigilia della manifestazione con ospiti d'eccezione, dal reverendo Jesse Jackson (che in partenza dagli Stati uniti ieri ha suggerito che forse Tony Blair dovrebbe incontrare Saddam Hussein) al leader storico della sinistra Labour Tony Benn (che è appena tornato dall'Iraq dove ha incontrato e intervistato Saddam), Ahmed Ben Bella, Yvonne Ridley e Bianca Jagger. I registi Ken Loach e Stephen Frears (che oggi saranno in piazza) hanno presentato i film «9/11» e «Dirty Pretty Things».


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DA - IL FOGLIO

Solo la minaccia della forza può convincere l’Iraq a collaborare"

Il premier ha ascoltato gli ispettori, poi ne ha parlato con il Foglio. Ecco la linea che l’Italia esporrà a Bruxelles

Come difendere pace e Onu - Roma. Il presidente del Consiglio ha ascoltato parola per parola, con i suoi consiglieri, il rapporto di Hans Blix e di Mohamed El Baradei al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E ora dice: "E’ un lavoro professionale, tecnico, che non poteva non lasciare aperte le interpretazioni politiche e le decisioni conclusive alla luce della risoluzione 1441. I paesi membri del Consiglio di sicurezza si apprestano a definire in queste ore il loro orientamento, dopo i primi pronunciamenti nella sessione pubblica del Consiglio. Il governo italiano ritiene che, dopo dodici anni di violazioni materiali delle risoluzioni dell’Onu, e a tre mesi dalla risoluzione che imponeva una totale e incondizionata disponibilità dell’Iraq al disarmo, la comunità internazionale deve specificare in modo chiaro che ulteriori atteggiamenti dilatori comporterebbero serie e immediate conseguenze. L’Italia ha una lunga tradizione di pace, e una inclinazione naturale alla ricerca della pace fino all’ultima e all’ultimissima ora, come ho detto in Parlamento e confermo anche dopo il rapporto degli ispettori. Su questa linea il governo si è mosso e si muove, in Europa e nel mondo, senza risparmio di energie: la pace può essere salvata solo dalla compattezza dell’Occidente, dell’Europa e dell’insieme della comunità mondiale. Solo essendo e mostrandoci uniti saremo in grado di evitare l’uso di quell’ultima risorsa, che va sempre considerata con riluttanza morale ma che nessuno Stato serio esclude dal novero dei mezzi possibili di fronte a concreti rischi. Solo una chiara assunzione di responsabilità, come hanno ribadito il ministro degli Esteri britannico e quello spagnolo, può evitare l’eventualità drammatica del ricorso alla forza per disarmare un regime che ha usato contro i suoi vicini e il suo stesso popolo armi di distruzione di massa". Europa e Russia: decisioni cruciali Berlusconi ritiene che l’Europa e la Federazione russa possono giocare adesso un ruolo decisivo, e che "il vertice europeo di lunedì va molto al di là della routine diplomatica, è anzi un appuntamento con la verità e con la storia". Il ragionamento del presidente del Consiglio, che si tiene costantemente in contatto con le parti e ha autorizzato in ragione di questa linea del governo nuovi diritti logistici per le truppe americane sul suolo nazionale, è semplice: "Non avremmo avuto la ripresa del regime delle ispezioni in Iraq se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con il sostegno attivo e libero di molti paesi europei, non avessero preso l’iniziativa per il disarmo iracheno. Non avremmo avuto i timidi progressi ammessi da Blix e ElBaradei se la pressione politico-militare non fosse stata suffragata da una credibile e ampia coalizione di paesi intenzionati a far rispettare il dettato della risoluzione 1441. Ora, di fronte alla mancata accettazione della sostanza di quella risoluzione, cioè una immediata disponibilità al disarmo da parte di Saddam Hussein, bisogna compiere un passo in avanti, ancora di natura diplomatica, per mostrare un grado superiore di unità della comunità internazionale. E l’Unione europea e la Russia possono essere decisivi a questo fine, se solo si riuscirà a superare il groviglio di incomprensioni e di equivoci in cui siamo entrati nelle ultime settimane. Noi italiani abbiamo un interesse vitale, forse superiore a quello di altri paesi, a mantenere forte e chiara la credibilità delle Nazioni Unite. La pace e la lotta al terrorismo dipendono in larga misura dalla capacità dell’Onu di agire e di non essere percepito come un organismo paralizzato, incapace di decidere e di far osservare le sue decisioni. E questa voce porteremo a Bruxelles, d’intesa con i paesi che hanno firmato la dichiarazione degli otto, poi dei venti, senza nessun preconcetto e senza nessun pregiudizio nei confronti delle opinioni diverse di altri grandi paesi membri dell’Unione". Berlusconi pensa di essere in credito con l’opposizione parlamentare: "Non hanno voluto seguire il mio ragionamento nello scorso ottobre, non hanno voluto accogliere il mio appello di una settimana fa. Ho usato parole rispettose e sostenuto una linea che ha ottenuto riconoscimenti e incoraggiamenti ovunque: una linea responsabile, favorevole a una soluzione pacifica ma non a ogni costo, non al costo dell’ignavia e della deresponsabilizzazione. Me ne rammarico. La chiave di tutto è nel fatto che sull’Onu sono divisi: una parte di loro è su una posizione che nega all’Onu il diritto di imporre il disarmo a un paese come l’Iraq. E questo il governo non può accettarlo".

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DA - LA REPUBBLICA

Il regista al corteo con i "girotondini" sfila insieme
a Flores e Franca Rame. Acclamato dalla folla
Moretti critica Berlusconi
"Obbedienza cieca a Bush"

ROMA - Lo chiamano, lo incitano, vogliono stringergli la mano, vogliono almeno fotografarlo. Fatica a farsi avanti il settore del corteo in cui sfilano i girotondini: è la causa è lui, Nanni Moretti, salutato e acclamato dai pacifisti. Moretti è arrivato alla manifestazione con la sua compagna e con il figlioletto Pietro, sfila accanto a Paolo Flore d'Arcais e a Franca Rame, che porta un cappello con sopra la foto del marito Dario Fo e la scritta "anch'io sono con voi". "Dario - dice l'attrice - non è potuto venire perché il nostro contratto lo obbliga ad essere oggi a Fano. Ma è anche lui è con noi con lo spirito".

"Contro la guerra preventiva, contro il terrorismo", dice lo striscione che apre l'area "girotondina" della manifestazione. "La guerra per la lotta al terrorismo - dice Nanni Moretti - è solo un pretesto che innescherebbe una miccia in quei Paesi. Bush cerca di risolvere problemi di strategia politica che nemmeno suo padre ha risolto 10 anni fa". Il regista attacca Berlusconi per "la sua "obbedienza cieca a Bush, agli Stati Uniti, mentre Paesi come Francia e Germania hanno almeno cercato di avere una posizione autonoma, pur non essendo contro gli Stati Uniti". Nel mirino di Moretti c'è anche la decisione, annunciata ieri dal governo, di mettere a disposizioni degli Usa strade, porti ed aeroporti del nostro Paese: "In Italia - dice mentre continua a sfilare nel corteo - si prendono decisioni senza consultare nessuno. Berlusconi, che ha la mania dei sondaggi forse in questi giorni è distratto. Non ha consultato i sondaggi che in Italia e negli altri Paesi dicono che ci sono tante persone, al di là dell'essere conservatori o progressisti, che sono contro la guerra. Quella di oggi - conclude Moretti - non è solo una manifestazione pacifista ma solo una manifestazione di tantissime persone che sono contro la guerra preventiva, persone contro Saddam, e la sua dittatura che ha sterminato i curdi".

L'ultima battuta è per la diretta della manifestazione negata dalla Rai: "Non mi stupisco più di niente - afferma il regista - Il servizio pubblico è un concetto pubblico che loro proprio non hanno, è un concetto che non hanno mai capito. Io sono sempre e comunque per pagare il canone, ma dopo averlo pagato, e lo ho già pagato da mesi, però mi incavolo". "E' un atto di vigliaccheria - gli fa eco la Rame - Si tratta di un atto di vigliaccheria, di paura, sono terrorizzati. A parte questo poco rispetto dell'intelligenza del Parlamento, li hanno trattati come bambini influenzabili e tremanti. E' una vergogna, una delle tante vergogne di questo Paese".

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DA - L'UNITA'

Tre milioni di bandiere della pace, sventola tutta Roma
di Rachele Gonnelli

Mangiano un panino davanti a piazzale Ostiense. Ma il cartello al collo non se lo tolgono. C'è scritto: «Noi non saremo antiamericani, ma loro esagerano». Firmato: Viterbo. È un cartello scritto a mano, a pennarello. «Siamo una famiglia per la pace senza se e senza ma, venuta con il treno di linea», risponde il padre addentando il panino incartato nella stagnola.

Sono in tantissimi così, arrivati con mezzi propri, non organizzati, gruppi di amici, famiglie, coppiette, con striscioni fatti in casa o semplici bandiere della pace. Un gruppo di trentenni di Firenze sfila sotto un lenzuolo colorato con una frase: «La pace non è né un mestiere né un'ideologia». «È una strofa di una canzione dei Csi, ci piaceva...». Scendono dal treno di Milano con colombine sorrette da bastoncini. Su ogni colombina scritte tipo: «Paola c'è», «Nico c'è». Non è come sembra una parafrasi delle famose scritte su Dio sui piloni dell'autostrada. «No, non sono io Carla, in effetti lei non c'è», risponde la signora con la colombina "Carla c'è". «Non è potuta venire però io sì e così porto questo cartello in suo nome». Diavoli di milanesi...

Da Milano arriva anche un nutrito drappello di curdi con le bandiere del Pkk. «È il terzo anniversario dell'arresto di Ocalan, oggi», ricorda un ragazzo del centro sociale Vittoria. Bandiere della Palestina non se ne vedono molte, solo davanti al presidio dei lavoratori dell'Acea che protestano per gli accordi che i vertici dell'ex municipalizzata del gas e dell'acqua di Roma hanno cominciato a stringere con le autorità israeliane per lo sfruttamento delle acque della regione su cui ha giurisdizione, in parte, l'Autorità nazionale palestinese.

In compenso c'è chi ha tirato fuori vecchi cimeli dall'armadio come un signore brizzolato che sfoggia una maglietta con il pugno di Lotta Continua. Un altro sbandiera un enorme drappo rosso con la faccia di Mao Tze Dong.

Le bande di strada di Milano, Roma e Firenze si sono date appuntamento e, lustrati gli ottoni, iniziano a suonare: "Besame mucho". Si parte. La strada per il Circo Massimo e poi piazza Venezia e San Giovanni è un'espolosione di colori ma anche di musiche. Ognuno ha la sua colonna sonora. I Verdi ballano Guantanamera. I pensionati dello Spi Only You dei Platters. La Cgil Funzione Pubblica Tracy Chapman. L'associazione Aprile solo musica reggae. I Giovani Comunisti hip hop napoletano. Attac apre e chiude il meraviglioso corteo di tamburi Bandaò con in testa la ballerina che incarna la pace: lei sola danza vestita i ritmi brasiliani d'argento con una mantellina arcobaleno. L'Unione sindacale italiana tramette dal camion a tutto volume London Calling dei Clash.

Ci sono poi vere e proprie discoteche, camion equipaggiati con casse enormi, musica techno o house a palla, e dietro giovani molto impegnati nel trovare i movimenti giusti. La più grande, inclusiva di carro allegorico altissimo e di "baretto" - è scritto così - incorporato, è quella del centro sociale Forte Prenestino, che distribuisce anche cartoline con la pubblicità di un meeting antiproibizionista. C'è poi l'associazione NuovoCosmo, studenti universitari romani che tra un cineforum e un rave party, fanno anche i dj veri e propri nei locali.

Tra tutte queste note, più che slogan ogni tanto si sentono brevi comizi hip hop o urlacci come: «Fermianoli, Vanno fermatiii!!». Per concetti più estesi si deve riandare agli striscioni. Il più bello anche se poco visibile perchè scritto in rosso su fondo nero, nello spezzone anarchico: «La guerra è giusta, Berlusconi è innocente, mia madre è vergine». È firmato "gestem". Una sigla quasi clandestina. «È una vecchia sigla che usavamo negli anni '70 - spiega un signore con barba bianca e uno spiccato accento fiorentino - quando la Nazione ci attaccava sempre. La sigla sta per "gruppi estremisti stronzi e merde", cioè come in pratica ci dipingeva il noto quotidiano fiorentino». «Ma guarda che la Nazione non l'ha mai saputo...», aggiunge. Sempre nello spezzone dei rosso-neri un altro drappo enorme, coloratissimo: «Sabbia, non olio nel motore del militarismo. Siamo tutti disertori».

I più "duri" sono molte strade più avanti. Il loro slogan dice "Guerra per nessuno, Reddito per tutti". Loro si definiscono "un'area", "l'area reclaim" -che sta per reclamo, qualcosa del genere - un "nuovo soggetto sociale", nato da un anno. Si trovano in varie città: Roma, Napoli, San Giuliano Milanese, Rovereto, Novara, Taranto, Treviso. Sono disoccupati, studenti, e lavoratori precari, tutti dai trenta ai quarant'anni. Si organizzano in associazioni, centri sociali, gruppi ma il loro vero luogo è Internet, sul sito www.redditodicittadinanza.org. Un loro comizio contro la guerra in Kosovo fa schierare il servizio d'ordine della federazione romana dei Ds.

Più avanti Ale e Patti si tengono la mano, hanno due cartelli al collo con una filastrocca «corta e matta» di Gianni Rodari che finisce "il matto vuole essere un mattone e il più matto della terra sapete che vuole? vuole fare la guerra". «Con tanti che ci tengono tanto a fare i duri - dice Ale guardando Patti - noi abbiamo scelto di essere dolci e teneri».

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DA - L'UNITA'

15 febbraio, in tutto il mondo una sola parola: pace, peace, paix, Frieden
di red.

Roma, alle nove di mattina, è già piena di gente. Il corteo che doveva muovere verso le 14 da piazzale Ostiense partirà probabilmente due ore prima. Ma forse sarà impossibile persino marciare, c'è gente dappertutto, anche in piazze molto lontane dal lugo di raduno principale. Quasi i trenta i treni speciali che stanno arrivando nella capitale, centinaia, migliaia i pullman. Sulle autostrade, a nord e a sud della città, ci sono già code lunghissime di pullman in attesa di entrare.

Dalla via Ostiense e dal Circo Massimo, in un percorso che poi ufficialmente sarà coperto in un'unica direzione, si snodano migrazioni di piccoli gruppi. Piumoni, giubbotti, sciarpe, berretti di lana, già intorno alle 9 gremiscono piazzale dei Partigiani, che sarà un primo punto di riferimento. A centinaia si addensano tra Testaccio, via Marmorata, via Marco Polo, Porta San Paolo, viale Aventino, piazza Albania, la Fao - che ha già visto un'altra imponente mobilitazione - fino al Colosseo.

Gli striscioni ancora arrotolati - ma c'è chi se ne serve per coprirsi - sono quelli dell'arcobaleno che in questa giornata fa da sfondo alla scritta «pace». Chi non ha la bandiera arcobaleno, srotola quella italiana. Palloncini colorati con sopra impressa la colomba della pace disegnata dal belga Folon sventolano attaccati ai lampioni, alle fermate dei bus, alle pompe di benzina.

Le manifestazioni europee di oggi sono state precedute da quelle asiatiche, dalla Tailandia alla Corea del Sud, da Tokyo a Melbourne. A Melbourne, venerdì, sono stati oltre centomila i manifestanti che hanno sfilato, mentre altre proteste si sono svolte a Perth, Hobard e Canberra.

In Nuova Zelanda, a Auckland, un aereo di Greenpeace ha sorvolato la città con un enorme striscione dov'era scritto : «No War, peace now».

Costruiamo insieme due iniziative

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No alla guerra perché
di Furio Colombo

C’è una zona buia e pericolosa che - in questa vigilia tormentata - lega la parola America alla parola guerra. Occorre allontanare quel buio e allontanare l’una dall’altra le due parole, guerra e America. O almeno, questo è il tentativo ostinato e appassionato di chi si sente vicino all’America e sa che ad essa deve molto, non solo nella vita personale, ma anche nella sua esistenza di cittadino libero in un mondo di diritti umani e di diritti civili.
Il fatto è che in questi giorni, in queste ore, un cambiamento di visione e di percezione politica nell’America di George W. Bush (qualcuno dice: l’improvviso nascere di una ideologia) ha prodotto una sovrapposizione, quasi una identificazione fra le due parole, guerra e America.
Per capire torniamo all’evento troppo spesso dimenticato di questa storia, l’11 settembre del 2001. È un giorno che ha segnato per sempre l’America. Ma era fatale, era inevitabile, o - come dicono i collaboratori e sostenitori di Bush - era necessario che il cambiamento arrivasse qui, sull’orlo di una guerra di scala mondiale destinata a non finire?
Tornando con la memoria a quel giorno, il problema per tanti di noi, in Europa, è di non riuscire a vedere, a capire ciò che è successo.
Possiamo nominare un solo Paese, più o meno generoso, più o meno ricco, più o meno potente, che non sarebbe entrato in una fase durissima di riesame della propria identità e della propria esistenza, in un drammatico interrogatorio, prima di se stesso e poi del mondo, dopo un simile evento, per mettere almeno un po’ d’ordine nel caos spaventoso di quella mattina?
È sbagliato, è ingiusto dire: il mondo ha avuto tanti morti, non si vede perché quelli americani, con tutto il compianto, debbano valere di più. Dire questo vuol dire non sapere che l’11 settembre è stata un’immensa tragedia, non solo le vittime (più di tremila) ma il modo, il luogo, il tempo.
Che cosa è accaduto? È accaduto che qualcuno ha consegnato agli americani un messaggio che dice: vi vogliamo tutti morti. Tutti chi? Tutti quelli che si possono uccidere, ogni volta che è possibile. Un annuncio di sterminio. Il gesto di Manhattan riproduce ciò che è accaduto e accade in Israele quando l’uomo, o il ragazzo, o la adolescente-bomba si fanno esplodere per fare morire. Come è possibile che sfugga il senso di questo modo di morire? Vuol dire: morire tutti, morire per sempre. Vuol dire dichiarazione di sterminio.
Il limite della guerra tradizionale, per quanto orrenda è stato distrutto per farci entrare in un paesaggio in cui tutto è guerra e tutti sono vittime. In un «per sempre» che è arbitrariamente definito da volontà sconosciute. Si può trattare, e a che tavolo, la fine di una simile cosa, che non è più la guerra, ma un progetto di morte senza limiti e senza confini?
Dico queste cose per cercare di capire che cosa hanno visto intorno e sé i newyorkesi, gli americani, quel giorno.
È iniziato un cammino immensamente difficile. I cittadini si sono raccolti nel privato, nelle chiese, nelle scuole, nei rapporti fra esseri umani nel tentativo di decifrare l’annuncio di uno strano stato di guerra.
Nel governo è iniziato un lavoro febbrile. E solo alla fine gli americani hanno visto e noi abbiamo visto, la conseguenza del tragico evento di Manhattan.
Ha portato all’accettazione e certificazione dello stato di guerra. Ha portato ad accettare l’idea del mondo come cosa distruttibile a seconda della potenza o della destrezza, dell’inganno o del peso che puoi esercitare, ha proposto l’immagine di una esistenza da martiri e da martirizzati (o loro o noi, dipende da chi arriva con più forza in un dato momento).
Perché chi si sente vicino all’America si ribella a questa visione? Perché questa visione (che è la dottrina di guerra preventiva di George W. Bush) consacra l’America nel ruolo di nemico da distruggere ovunque sia possibile, dal momento che sceglie come difesa di distruggere chiunque venga indicato (o designato) come nemico dovunque sia possibile.
È vero che c’è un rapporto causa-effetto fra la posizione (e il gesto orrendo) del terrorismo, e il progetto di guerra sempre e dovunque, come risposta.
Ma se non si recide quel rapporto, lo stato di emergenza distruttiva è destinato ad essere senza fine. Invece del lavoro immenso, sia psicologico che politico, per cancellare il trauma dell’11 settembre e le maledette circostanze che lo hanno fatto accadere, la decisione sembra essere: 11 settembre sempre. Solo che toccherà ad altri. E se toccherà di nuovo a noi, noi siamo pronti.
* * *
Che senso hanno le immagini che vediamo in questi giorni sulle prime pagine dei giornali americani e in televisione e che ci mostrano soldati e poliziotti americani armati nelle strade di Manhattan? Che senso hanno i carri armati intorno all’aeroporto di Heathrow, a Londra, e le postazioni contraeree a Washington?
Infinite storie e film sui serial killer hanno mostrato che non ha nessun senso aspettare l’assassino nello stesso punto in cui ha già colpito. Il problema è immenso, è il problema del mondo. Si può lavorare col mondo (in ogni luogo c’è una cellula folle di terrorismo) non contro il mondo, per la ricerca frenetica del serial killer, prima che uccida di nuovo.
La contrapposizione Occidente-Islam che sembra apparire alle spalle della logica di guerra che adesso toglie il respiro a tutti, in America, in Europa, nel mondo, ha ben poco senso. La migliore cultura americana, le sue università, le sue informazioni, ci hanno detto che quella divisione non corrisponde a nulla. Mezzo Occidente è contro qualcosa dell’Occidente, mezzo Islam (e forse molto di più) ha orrore dei messaggi impazziti di Osama Bin Laden o di chi presume di rappresentarlo. Il governo iracheno è un pessimo soggetto della vita nazionale di quel Paese, del Medio Oriente e del mondo, identico ad altri pessimi soggetti che si aggirano per il mondo e che vengono nutriti dalla guerra e isolati dalla pace.
Il nutrimento di Saddam Hussein è lo stato di guerra. Se la pace si diffonde intorno a lui, a cominciare dalla pace intorno a Israele (che può solo essere la pace che Rabin e Barak avevano proposto ad Arafat: due Stati, confini certi, rispetto reciproco, accettazione reciproca, convivenza), Saddam Hussein e il suo regime di sangue sono finiti.
Un fondamentalismo cieco, che non fa distinzioni e non vuole sapere nulla delle condizioni e delle sofferenze reali del mondo, ha colpito l’America l’11 settembre. Chi ama quel Paese (perché ama la libertà e ricorda tutto del modo in cui è nata la nostra libertà) non può desiderare e neppure capire che la risposta sia fondamentalista: «tutto il male» in un punto del mondo, rispondere alla pena patita, satana contro satana, ferro e fuoco contro ferro e fuoco.
L’errore non è una tragedia da cui tanti saranno travolti nell’area di questa guerra per un mese o per un anno. L’errore è per sempre. Perché manca - per questa guerra - una definizione di area e una definizione di tempo. Il luogo è dovunque, il tempo è sempre, in una situazione di militarizzazione perenne di tutti (si pensi alle istruzioni di protezione e sopravvivenza impartite giovedì ai cittadini americani) che finirà per travolgere in modo ingiusto un numero immenso di innocenti. È un percorso che non concepisce più estranei al conflitto.
La guerra è di tutti, per tutti, con tutti, contro tutti. Si arriva a questa guerra attraverso una serie di errori logici, pragmatici e pratici prima ancora di arrivare al grande dibattito morale sulla pace, e al tema della possibile guerra giusta. Giusta è la difesa di tutti noi cittadini del mondo, dal pericolo del terrorismo. Ingiusto è pensare che facendoci tutti soldati, ogni americano e ogni altro cittadino del mondo, saremo un po’ più al sicuro.
I più sofisticati sistemi di «intelligence» del mondo (inglesi e americani) dovrebbero dire e ripetere ad alta voce ai loro governanti che il terrorismo è altra cosa. Quando è ricco, il terrorismo è immensamente più agile degli eserciti. Ma persino se è povero gli basta una faccia anonima e una valigia, dovunque, nel mondo, possibilmente lontano dai momenti di «allarme arancio» e «allarme rosso». Il terrorismo è una serie diffusa di cellule malate e di focolai di infezione che vanno fronteggiati con una grande politica, una grande diplomazia, una intelligentissima «intelligence», che parte da condizioni reali per risalire a una teoria, piuttosto che partire da una teoria già consolidata e formata in stanze lontane, per «trovare le prove».
È sbagliato, è ingiusto, attribuire a questa America, spinta dal suo governo in un perenne stato di guerra, odiosi secondi fini.
No, il petrolio è una causa antica e modesta. Il volto tragico del momento è dato dalla persuasione sbagliata che il terrorismo sia un esercito compatto da incalzare e distruggere prima in un luogo poi in un altro poi in altri ancora, come se questa visione avesse senso. Fra qualche anno il mondo intero, insieme all’America, dirà il suo stupore per le ore che stiamo vivendo.
Ma in queste ore tutto va detto e tutto va tentato, specialmente da chi si sente e si è sentito negli anni vicino all’America, per scongiurare una guerra che rischia di essere senza esito e senza fine.
L’odio è la vera arma batteriologica che si deve disattivare subito. Invece si commette l’errore di farlo crescere.
È tipico degli spiriti pratici affermare che coloro che stanno dalla parte della pace sono imprudenti. Con la loro utopia espongono e si espongono al pericolo.
Questa volta è vero il contrario. La guerra di Bush è l’utopia di un dominio impossibile del ferro e del fuoco su un mondo avvelenato. Disperatamente la maggior parte degli amici, dei Paesi, degli alleati, delle più diverse militanze politiche e delle religioni del mondo lo stanno avvertendo: questa guerra è colpire a vuoto (anche se ci saranno alcuni colpevoli fra i milioni di innocenti) e scavare un pozzo di odio senza fondo destinato a replicare all’infinito il male che si vuole distruggere.
Questa volta utopia è la guerra e realismo è il rifiuto della guerra con ogni mezzo. Questa volta gli alleati e gli amici degli americani vogliono e chiedono la pace per salvarli e salvarci da un futuro di infinite vendette. Soltanto i finti amici si sono già seduti davanti al televisore pronti a fare il tifo per missili e bombe.

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