Un orizzonte progettuale per il GSF

di W.Piccinonno

 

Dopo la barbara repressione delle giornate genovesi, si registra all’interno del GSF uno stato di confusione che occorre superare tempestivamente, perché gli spiriti animali del globalismo non concedono tregua. Da qui la necessità di avviare un serio dibattito, vuoi sul piano delle strategie, vuoi per stabilire le coordinate portanti di un mondo alternativo. In altre parole, se “un altro mondo è possibile” è altresì vero che non si può prescindere da una progettualità politica-culturale. D’altro canto, ogni atto di resistenza si traduce in un atto di costruzione, sicché, per poter incidere positivamente sul piano della prassi, baconianamente parlando, è opportuno avvalersi di due momenti: la pars-destruens e la pars-construens. Partendo da questi presupposti, è opportuno, innanzitutto far chiarezza all’interno del Forum, perché alcuni partiti, rispondendo ad una logica obsoleta, perseguono l’obiettivo di egemonizzare il Forum, ritenendolo un serbatoio di voti.

Ciò che sfugge è che pratiche politiche di marca novecentesca, protagonismi, forme aberranti di gattopardismo, non possono avere diritto di cittadinanza all’interno del GSF. Il Forum è sociale e rappresenta l’irruzione dell’evento costituente. In altri termini, è necessario rendere intelligibile il concetto che l’avvento del nuovo “proletariato sociale” rompe con i codici sociologici, politici ed economici dominanti e, nel contempo, rappresenta un salto di paradigma rispetto al novecento. D’altra parte, se si sta affermando la potenza della moltitudine all’interno dell’Impero, non è casuale, ma è anche da attribuire al fatto che il lavoro immateriale, caratteristica peculiare del post-fordismo, crea quel “General intellect” di marxiana memoria, che diviene il conatus della costituzione del comune. Se il “nuovo inizio” è partito da Seattle, è altresì vero che il GSF, con le giornate genovesi, ha segnato una tappa pregna di significati dirompenti. Difatti, malgrado i barbari massacri, la società civile ha dimostrato che l’Impero non ha sudditi, ma uomini, cittadini del mondo che producono una nuova soggettività biopolitica. Ciò significa che la potenza della moltitudine, con la sua “politica dei corpi”, ha determinato la presa di parola dei cittadini globali. Per quanto concerne il nostro paese, però, sono doverose alcune osservazioni, infatti, l’Italia, pur essendo una provincia dell’Impero, presenta caratteristiche peculiari, per via di uno spirito pubblico corrotto e per un’endemica vocazione compromissoria, sicché non può destare stupore che anche i governi post fascisti siano stati gestiti da “poliziotti borbonici”. Attualmente, l’Italia delle robinsonate, si barcamena, con la consueta ipocrisia, tra barbarie planetaria e un provincialismo intriso di una logica fascistoide. Occorre, però, ribadire che l’Italia è una provincia dell’Impero e ciò significa che tutte le forme di resistenza non possono prescindere dalla soggettività biopolitica, che peraltro il GSF rappresenta. A questo proposito Mario Pianta, parlando della globalizzazione dal basso, sostiene che idealizzare le comunità locali e nazionali, chiudendole in se stesse, implica una risposta reazionaria alla globalizzazione.

Oreso atto che l’approccio deve essere globale giova sottolineare che è necessario vigilare sul pericolo della cooptazione della frammentazione: pericoli questi che nascono dalla presenza di alcuni gruppi operanti all’interno del GSF. Difatti esistono forze politiche che intendono colonizzare il Forum in vista di impossibili rifondazioni del socialismo. In realtà, nella fase odierna, si dovrebbe tornare alle origini, per riscoprire l’autentico spirito del comunismo e del cristianesimo, in una prospettiva inedita, che dovrebbe partire, come vuole Tony Negri, dalla “riappropriazione proletaria del politico”.

Lucidamente Andrea Bagni ha osservato che il GSF costituisce un nuovo spazio pubblico, che è come un patchwork, ossia il tessuto di un altro mondo. Questo tessuto ricco di potenzialità, necessita però di una maggiore organizzazione e di un progetto politico globale. D’altronde si impone perentoria l’esigenza di reinventare la politica in un’ottica cosmopolitica, considerando i miasmi della politica istituzionale e la dissoluzione della stessa scienza politica. Ciò implica la riappropriazione dei mezzi di produzione, il diritto di autodeterminazione e quello di cittadinanza universale. Le osservazioni fatte intendono mettere in luce che per negare la lex mercatoria, imposta dalle reti finanziarie e produttive multinazionali, le richieste di una banca etica, del rispetto del protocollo di Kjoto, della Tobin tax, della cancellazione del debito, ecc. rappresentano solo politiche di aggiustamento o soluzioni tampone, indubbiamente efficaci ma non sufficienti per progettare una società altra.

Da qui la necessità di stabilire coordinate chiare sul commercio equo e solidale, su una nuova filosofia del lavoro collettivo, sulle politiche ambientali. Per perseguire l’ambizioso obiettivo, non solo la resistenza deve essere transnazionale, proprio come il capitale, ma occorre anche inscrivere nell’agenda dei No Global un nuovo Manifesto. Quest’ultimo dovrebbe programmare strategia adeguate, per negare i paradigmi del supermercato globale, abbattendo le leggi imperiali del FMI, della BM, del WTO, del NAFTA, dell’APEC. Nel contempo, i cittadini globali, dovrebbero promuovere programmi formativi popolari, per rendere intelligibili i parametri del neoliberismo e del fondamentalismo culturale, che determinano la devastazione dell’ambiente, che attentano alla salute del pianeta e dei cittadini, che provocano miseria ed esclusione, che aziendalizzano l’istruzione.

Inoltre, non va sottovalutato il fatto che la Pax imperiale, avvalendosi della polizia globale, militarizza i territori, provocando anche, con meccanismi perversi, le “guerre umanitarie”, che sono particolarmente proficue, sia per il mercato delle armi, sia per espandere le zone di influenza in sede economica e politica. Pertanto la globalizzazione dal basso non può essere solo una formula, ma deve sostanziarsi in un progetto politico culturale, in vista di una società autenticamente umana, in cui i diritti universale abbiano pieno diritto di cittadinanza.

Per ribadire l’esigenza di una progettualità politica vale la pena di ricorrere a Zernan Toledo, che avvalendosi di un aforisma afferma: se ad un uomo dai un pesce, questi mangerà per un giorno, ma se gli insegni a pescare mangerà per tutta la vita.

Ma, a questo punto, considerando estremamente interessante il dibattito sviluppato dal Manifesto, sul quesito posto da Luigi Cavallaio, ossia: cosa penserebbe Marx oggi dei No Global, vorrei esprimere il mio parere. Ritengo che il barbuto di Treviri approverebbe la nuova resistenza, perché è convinto che ogni epoca richiede forme di lotta diverse per abbattere la situazione esistente. D’altra parte il popolo antiglobalizzazione non è forse il nuovo proletariato sociale mondiale che si muove alla riscossa? E non è forse vero che quel “proletario di tutto il mondo unitevi”, in versione inedita, sta prendendo corpo? Se qualcuno può ritenere opinabili le mie tesi, penso, invece, con assoluta certezza che una rivisitazione marxiana, sarebbe quanto mai proficua per leggere l’attuale fase. Difatti Marx, proiettandosi nel futuro, nei Grundrisse fornì una preziosa anticipazione teorica sul lavoro immateriale e sulla società capitalistica matura. In altri termini, anticipò le coordinate del post moderno, focalizzando l’attenzione sulla sussunzione reale della società al capitale e sulla formazione del General Intellect. Quest’utimo, oggi, si esplicita nella “fabbrica della conoscenza” del capitale, che, al tempo stesso, genera l’intellettualità di massa e il coniatus per una nuova soggettività biopolitica.

Il capitalismo, dunque, ancora una volta è il mago che non riesce le potenze degli inferi da lui evocate. E’ evidente che, come vuole Jacques Derida, gli spettri di Marx continuano a parlare, proprio perché esprimono una pluralità di linguaggi. Pertanto, nella fase odierna, vivendo con Marx e andando oltre Marx, occorre rivisitare la concezione del materialismo, inteso come “dismisura creativa”.

Tony Negri, a questo proposito, sostiene che è necessario valicare l’ottica brutale del materialismo dialettico, per approdare al materialismo autentico, che è rottura del pensiero di dominio e alternativa a ogni subordinazione di produzione capitalistica. Partendo da questi presupposti, se la richiesta di un reddito di cittadinanza rappresenta un momento significativo, è altresì vero che va contestualizzato in una filosofia di vita, che deve rompere con il meccanismo unidimensionale di produzione, riproduzione, sfruttamento. Ciò significa che il tempo della liberazione, rifiutando ogni forma di lavoro comandato, deve riscoprire l’autodeterminazione, l’autogestione, la creatività, la coscienza collettiva.

Questi prerequisiti sono imprescindibili e richiedono di operare una rottura epistemologica e l’assunzione di categorie nuove. Ciò s’impone perché la fabbrica fordista, con la sua struttura omogenea è tramontata, sicché, con il post fordismo, il legame con il territorio è svanito, determinando un lavoro flessibile, segmentato, precario.

Naomi Klein, analizzando la portata innovativa della globalizzazione parla delle “fabbriche migratrici”, di “stabilimenti rondine”, che la rete globale di logo e di marchi propaga, provocando lo sfruttamento planetario, soprattutto “nei luoghi senza marca”, ossia nel Terzo Mondo.

All’insegna del marketing, osserva ancora la Klein, le aziende non producono cose ma marchi, sicché gli investimenti illimitati per la creazione del marchio riducono al minimo gli investimenti destinati ai lavoratori. Il nuovo ordine imperiale delle multinazionali sancisce, dunque, la fine della dialettica tra capitale e lavoro e, al tempo stesso, dell’operaio massa.

Le osservazioni fatte sarebbero riduttive ove non si tenesse conto del modello di produzione sociale e immateriale. Anton Monti rileva che le imprese imperiali-immateriali, modello Nokia, mettono all’opera lavoro sociale-immateriale, che viene metamorfosizzato nelle forme materiali del denaro. Le aziende immateriali, come Nokia, Ericson, Motorola, ecc. producono una comunicazione globale e collettiva che, “ironicamente”, diviene coniatus della moltitudine, perché libera il lavoro vivo dalle attività mercantili.

Il lavoro vivo, essendo vis viva e “Dioniso della libertà”, spinge così a praticare rapporti liberati, in sede sociale e politica. Non senza ragione Marx sosteneva che: il lavoro vivo è il fuoco che da vita e forma.

Pur prendendo atto che si sta rivelando la potenza della moltitudine e che si sta costituendo una dimensione collettiva della politica, occorre, partendo dall’inchiesta metropolitana, delineare un impianto teorico per quel che concerne l’ecologia, l’agricoltura, il lavoro, le biopolitiche del corpo, la pace, l’assetto democratico. Nella prospettiva di un potere costituente del comune l’imperativo categorico deve essere, dunque, quello di disubbidire, nella consapevolezza che, come voleva E. Fromm: la disubbidienza è il primo atto di libertà.